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Anche con la Siria due pesi e due misure

by redazione

I mezzi di informazione occidentali e filo occidentali descrivono la Siria come un regime sanguinario che sta massacrando un popolo pacifico. Ma la realtà è ben più complessa e gli interessi geopolitici in gioco non vengono quasi mai analizzati e spiegati. Bisognerebbe chiedersi perché, nell’affrontare le rivolte arabe, si puntano i riflettori solo su alcune realtà mentre se ne trascurano completamente altre, quali ad esempio il Bahrein, lo Yemen, la Giordania e il Marocco.

Da quando è scoppiata la drammatica crisi in Siria, con i primi focolai di rivolta a Daraa il 15 marzo 2011, giornali e televisioni di mezzo mondo sono pieni di notizie e analisi geopolitiche su Bashar al-Assad e il suo regime.

Persino durante la guerra mediatica che aveva accompagnato l’invasione della Libia da parte della Nato, la crisi siriana è sempre stata ampiamente seguita dai grandi media occidentali che, con un eccesso di zelo, «informavano» minuto per minuto l’opinione pubblica internazionale su quello che stava accadendo. E quasi tutte le «informazioni» provenienti dai media «mainstream» riguardo alla Siria ad oggi hanno come denominatore comune: «Regime sanguinario che sta schiacciando con i carri armati un popolo che manifesta pacificamente». Un mantra simile a quello ripetuto nei confronti del regime libico fino alla morte atroce di Gheddafi.

Nel frattempo gli stessi media da più di un anno tacciono, o riportano notizie flash – forse per mancanza di spazio! – su quello che sta accadendo in Paesi come lo Yemen o il Bahrein. Nello stesso 15 marzo 2011, i carri armati sauditi hanno invaso il Bahrein per aiutare il regime di Al-Khalifa a soffocare nel sangue le manifestazioni pacifiche a Manama. Diversamente da quanto accaduto per la Siria, questa notizia era passata quasi inosservata. Eppure il problema per il popolo siriano (e quello libico) è lo stesso di quello bahreini (e yemenita, giordano, marocchino…): l’assenza della democrazia e dei diritti umani.

Perché allora, nell’affrontare le rivolte arabe, per i grandi media occidentali e filo occidentali prevale la logica dei due pesi e due misure? Se in nome della democrazia e dei diritti umani la rivolta in Siria viene iper-mediatizzata, perché la rivolta per la stessa ragione nel Bahrein viene ignorata?

Anche se lo fanno sembrare, i media «mainstream» non hanno come preoccupazione principale la difesa dei diritti umani e della democrazia, bensì sono uno strumento di propaganda in mano alle grandi potenze mondiali e vengono utilizzati a seconda del contesto per difendere e ampliare i propri interessi geopolitici ed economici. Nel Bahrein, nello Yemen, nella Giordania e nel Marocco, i loro interessi sono già ben tutelati dai regimi che «governano» questi Paesi. Perché quindi accendere i riflettori dell’informazione sulle rivolte popolari contro i regimi allineati?

La Siria fino ad oggi – come era anche la Libia fino a poco fa – non fa parte di questa categoria di Paesi. È sempre stata una spina nel fianco per le potenze occidentali; ed è da anni nel mirino della macchina da guerra Usa/Nato che sta da anni cercando di far cadere il regime di al-Assad per sostituirlo con uno simile a quello bahreini o giordano. Ecco il motivo per cui i grandi media sono così accaniti sulla crisi siriana. Le potenze atlantiste usano tali media per demonizzare il regime, per poter poi giustificare davanti all’opinione pubblica e alla comunità internazionale (da non confondere con i Paesi Nato!) l’uso di qualsiasi tipo di strumento teso a rovesciare il regime nemico: sanzioni economiche e finanziarie; azioni militari anche non convenzionali, in netta violazione del diritto e dei trattati internazionali, come la creazione e il sostegno logistico ed economico di milizie armate anti-governative; e persino il ricorso al servizio dei professionisti del terrorismo internazionale.

Nel caso siriano tutti questi strumenti sono operativi. Le sanzioni economiche sono in vigore da tanti mesi con lo scopo di portare alla povertà estrema non al-Assad, ma la gran parte della popolazione, sperando che quest’ultima, stremata, si rivolti veramente contro il regime (il quale ancora oggi gode del sostegno della maggioranza dei siriani). Affamare un intero popolo per scopi geopolitici: sarebbe questa la difesa dei diritti umani in Siria?

L’esistenza di una milizia armata – composta da uno sparuto numero di militari disertori e da centinaia se non migliaia di ribelli e mercenari provenienti da altri Paesi, arabi e non – è un dato di fatto. Porta il nome di Esercito siriano libero (Esl) e ha come base operativa la Turchia (Paese Nato), che ospita anche il Consiglio nazionale siriano (Cns), creato dai governi occidentali ma che non sembra dare i risultati auspicati (tipo quelli raggiunti dal Cnt libico). Il Cns è controllato dai Fratelli musulmani ed è molto litigioso al suo interno, non gode di nessuna stima né dal parte del popolo siriano né da quella dell’opposizione interna, perché chiede l’intervento militare Nato in Siria. Inoltre il Cns non va tanto d’accordo con l’Esl.

Quanto al ricorso ai professionisti del terrorismo internazionale, i diversi attentati mortali a Damasco e ad Aleppo – le due più grandi città della Siria le cui popolazioni sono in maggioranza pro al-Assad – dimostrano che al Qaeda è ormai scesa in campo e il suo capo al-Zawahiri ha già emesso la sua fatwa contro il regime siriano. Ora Usa e al Qaeda combattono fianco a fianco, come ai vecchi tempi quando il nemico comune era l’Urss. Al riguardo, è utile ricordare che Abdelhakim Belhaj, ex mujahidin membro di al Qaeda, promosso dalla Nato come capo del Consiglio militare di Tripoli, oggi assieme ai suoi uomini collabora attivamente con l’Esl.

Alla fatwa di al-Zawahiri si è aggiunta quella del famoso teologo fondamentalista al-Qaradawi («capo spirituale» del Qatar), il quale ha decretato che uccidere al-Assad – e tutti coloro che lo sostengono, compresi gli alawiti e i cristiani – è «halal»…

Oggi, chi tenta di analizzare la crisi in Siria in maniera diversa da quella che le potenze occidentali presentano all’opinione pubblica internazionale attraverso i loro potenti mezzi di (dis)informazione, viene considerato un sostenitore della «teoria del complotto» contro la Siria o, nel peggiore dei casi, un difensore del regime siriano. Questa accusa, ahimé, oggi è sostenuta anche da una parte non indifferente di donne e uomini nell’ambiente pacifista progressista italiano, che, di fronte al tentativo Usa/Nato di smembrare un Paese intero, stentano a vedere le cose come stanno, ovvero che in Siria non sono in gioco la democrazia e i diritti umani – che pure mancano – ma la sovranità e l’indipendenza politica, sociale, culturale ed economica di un popolo e della sua nazione. Ricordiamo ciò che è accaduto in Iraq e quello che è successo di recente in Libia: forse ciò ci potrebbe rendere più razionali e meno emotivi per meglio interagire con la grave crisi in Siria!

Mostafa El Ayoubi

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