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La scuola che merita

by redazione

Invece di dare segnali chiari di un cambiamento di rotta, dopo anni di tagli sulla scuola, il governo dei tecnici ha aperto una discussione su merito e competizione. Ma innanzitutto va garantito il diritto allo studio, che non ratifichi le disuguaglianze ma ne rimuova le cause. L’eccellenza non deve essere per pochi, ma diffusa. L’istruzione va orientata all’inclusione e al confronto, deve essere democratica, pluralista e multiculturale.

Dagli inizi dello scorso giugno si è tornati a parlare di scuola, ogni giorno e in ogni sede. Non avveniva da tempo. Il governo preannunciava un decreto legge per valorizzare merito ed eccellenze scolastiche in base a sistemi premiali, misure selettive e criteri riguardanti la media dei voti, l’impegno sociale, il reddito famigliare… Il decreto, in quanto tale, poneva limiti all’analisi e al dibattito parlamentare; d’altra parte non ci si era nemmeno premurati, prima, di aprire una consultazione e un confronto pubblico sui ventilati provvedimenti, almeno con coloro che di scuola sanno perchè da sempre vi lavorano.

Così, dopo avere assistito per anni a tagli degli investimenti, all’aumento degli alunni per classe, ad accorpamenti insensati di plessi, alla riduzione del numero degli insegnanti, a meno ore di lezione e meno strutture didattiche, il nostro governo di tecnici non si poneva minimamente il problema della necessità di un intervento radicale che fosse in discontinuità con le «riforme» aziendalistiche della Moratti e della Gelmini, ma dava la stura a un gran parlare di merito, di eccellenze, di competizione, di Olimpiadi del sapere, di studente dell’anno… Evidentemente il ministro Profumo non ha presente come ogni nuovo intervento sulla scuola, per risultare significativo, deve collocarsi in un ben più ampio disegno che mantenga fisse alcune priorità: il diritto allo studio per tutti, rimuovendo le cause di una «selezione naturale»; la lotta alla dispersione scolastica, già a partire dalla scuola primaria; il prolungamento dell’obbligo a 18 anni; la revisione del curricolo di studi in senso verticale, per competenze di cittadinanza attiva e non più per programmi; la qualificazione professionale dei docenti; l’incremento della ricerca disciplinare e didattica. Priorità ineludibili e non buoni desideri, che richiedono adeguate risorse umane e investimenti economici, non certo un impegno «complementare» (così il ministro) di alcune decine di milioni.

Ma restando anche soltanto sui concetti di merito e di eccellenza, qualcosa va puntualizzato.

Il merito. Non si dà vero merito se non è conciliato, innanzitutto, con il diritto allo studio. Questo è il senso dell’articolo 34 della Costituzione che accoglie il criterio del merito purchè sia accessibile anche a chi non ha mezzi di partenza. Il termine stesso di merito è ambiguo se può inglobare indistintamente l’impegno con il talento naturale e il privilegio sociale (la famiglia, il territorio, il tipo di scuola). Nella quotidiana attività didattica, poi, la competizione per il merito rischia di trasformarsi in un incoraggiamento a essere bravi soltanto per se stessi, a guardare solo davanti a sé e mai chi sta al proprio fianco. Dovrebbe essere, invece, una rincorsa che valorizza intelligenze e capacità nella loro diversità; quella in cui, se c’è da competere, lo si fa verso le difficoltà del percorso che si ha davanti e verso i propri limiti.

L’eccellenza. Il suo perseguimento può risultare costruttivo, indubbiamente. Ma c’è, anche qui, da garantire un presupposto: che l’eccellenza possa essere diffusa. Non ci deve essere eccellenza per pochi, solo in alcuni luoghi e solo per alcune competenze; devono essere generalizzate le condizioni per il suo accesso; ognuno deve avere la possibilità di proporsi come il migliore. Ciò significa che non si danno vere eccellenze senza l’innalzamento del livello di tutti. Nella pratica, il gruppo classe nel suo insieme deve diventare un organismo vivo, capace di fertilità; diversamente l’obiettivo dell’eccellenza può farsi foriero di disastri: di conflitti, di invidie, di rifiuto della diversità. In ogni caso i criteri del premio, dei crediti e delle medaglie restano soltanto misure retributive che non valorizzano le vere eccellenze individuali; misure e non altro; oltretutto anacronistiche.

Come si vede, un «decreto sul merito» può riportare la riflessione sulla visione complessiva che si ha della scuola. E qui sta un primo suggerimento che si può dare al governo, se è davvero volenteroso: apra un dibattito pubblico sulla scuola della Repubblica, sulla sua natura e le sue finalità. Faccia capire qual è la scuola che merita. E la garantisca. Per noi è quella che non perde nessuno, che non ratifica le disuguaglianze, che è fattore di promozione per tutti, che dà senso alle esperienze individuali, che orienta l’istruzione alla partecipazione e all’inclusione, che apre il confronto con gli altri mondi. Pluralista e multiculturale, è luogo dove la democrazia è dialogo e confronto, dove è diffuso il desiderio di sapere e si ha fiducia nella capacità del sapere di trasformare tutto. Luogo da dove escono teste ben fatte, prima ancora che teste piene.

Giuliano Ligabue

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