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Fine di un regno, inizio di un Concilio?

by redazione

Con la sua clamorosa rinuncia al papato, Benedetto XVI apre un tempo del tutto nuovo nella Chiesa romana che, traendo le conseguenze implicite nel gesto del pontefice che demolisce il «ratzingerismo», potrebbe «costringere» il successore a scuotere lo status quo, avviando la preparazione del Concilio Vaticano III.

La rinuncia al papato di Benedetto XVI – per quanto non del tutto inattesa: infatti, fu ipotizzata su vari media e anche su queste pagine – è come una medaglia bifronte, perché inevitabilmente induce a dare due valutazioni, l’una sullo straordinario gesto in sé, e l’altra sul suo pontificato complessivo, anche se tra i due aspetti vi è una indissolubile connessione.

Dopo Gregorio XII, nel 1415, le prime dimissioni di un papa

Benedetto XVI, nel concistoro dell’11 febbraio, dopo aver parlato dell’oggetto formale della riunione, già noto, e cioè la canonizzazione di due suore e dei martiri di Otranto (ottocento cristiani che, quando nel 1480 i turchi presero la cittadina pugliese, rifiutarono di convertirsi all’islam, e perciò furono tutti uccisi), con una inaspettata dichiarazione (vedi scheda a pagina 7) annunciava la sua rinuncia al pontificato. Motivo? La diminuzione in lui, a causa dell’età, del «vigore del corpo e dell’animo necessario per esercitare in modo adeguato il ministero petrino»; una rinuncia che sarebbe diventata effettiva alle ore 20 del 28 febbraio. Stupiti – alcuni impietriti, altri commossi – i porporati presenti, del tutto ignari delle intenzioni papali; ma probabilmente alcuni di essi, dal segretario di Stato, Tarcisio Bertone, al decano del collegio cardinalizio, Angelo Sodano, lo sapevano già da un paio di giorni. Non appena risaputa, la notizia ha scosso come un terremoto la Curia romana, l’insieme della Chiesa cattolica ed i media mondiali.

Seppur rarissime, dimissioni di papi ci sono state; e lo stesso nuovo Codice di diritto canonico, varato da Giovanni Paolo II nel 1983, le prevedeva: «Nel caso che il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio, si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti» (canone 332, § 2).

Nei primi undici secoli della Chiesa ci sono stati quattro o cinque casi di dimissioni di papi, anche se non è facile stabilire se sempre si trattò di rinuncia volontaria, o imposta (vedi pagina 40). Un caso davvero accertato successe nel XIII secolo. Pietro, un monaco che viveva su un costone del monte Morrone, vicino a Sulmona, in Abruzzo, fu scelto come papa da un conclave che, riunito infine a Perugia, a causa di rivalità interne da oltre due anni non riusciva ad eleggere un successore a Niccolò IV, morto nell’aprile 1292. L’«outsider», eletto il 5 luglio 1294, essendo semplice prete, il 29 agosto fu consacrato vescovo, all’Aquila, e così divenne a tutti gli effetti Celestino V. Il quale non andò mai a Roma, ma si stabilì a Napoli dove – o spaventato dagli intrighi curiali e dalle contese politiche, o ritenendo di non avere le forze fisiche per affrontare problemi tanto complessi – il 13 dicembre successivo, dopo nemmeno cinque mesi di regno, si dimise. E il 24 dicembre fu eletto papa il cardinale Benedetto Caetani, Bonifacio VIII.

Da qualche parte, allora, si insinuò il dubbio che Celestino non si fosse dimesso volontariamente, ma spinto dal Caetani, che dunque da alcuni fu considerato un usurpatore. Per evitare il pericolo che la gente continuasse a ritenere vero papa Celestino, e non se stesso, Bonifacio fece rinchiudere il predecessore nel castello di Fumone (Frosinone), ove visse in un angusta cella, e là morì nel maggio 1296. Anche allora le dimissioni del papa monaco turbarono la cristianità. Dante, suo contemporaneo, ne diede un giudizio negativo, e forse (forse!) si riferiva a lui quando nella Divina commedia, ponendolo nella dannazione, scriverà: «Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto / vidi e conobbi l’ombra di colui / che fece per viltade il gran rifiuto» (Inferno III, 58-60).

L’altra rinunzia papale rinvia ad un periodo ferrigno, quando, durante il Grande Scisma d’Occidente, iniziato nel 1378, nella Chiesa romana ben tre papi contemporaneamente giunsero a contendersi il trono: Benedetto XIII, l’avignonese; Giovanni XXIII, il pisano (successore di Alessandro V, eletto nel 1409 dal Concilio di Pisa per chiudere lo scisma); Gregorio XII, il romano. Il Concilio di Costanza – città ai confini tra Svizzera e Germania – nel 1415 dichiarò decaduti i tre papi/antipapi; Gregorio, obtorto collo, il 4 luglio di quell’anno rinunziò al regno, ma sempre considerandosi lui il vero papa, e… convocando il Concilio che già era in atto; un’Assemblea che, con il decreto Haec sancta del 6 aprile precedente, aveva proclamato la superiorità del Concilio sul papato. Poi, l’11 novembre 1417, il Concilio elesse papa il cardinale romano Oddone Colonna, Martino V; e così terminò il Grande Scisma d’Occidente. Da allora passeranno sei secoli prima che, in circostanze storiche ed ecclesiologiche del tutto diverse, un pontefice, Benedetto XVI, rinunziasse al ministero di vescovo di Roma.

La tesi di Ratzinger sulla «continuità» del Vaticano II

Il papa ha spiegato le ragioni del suo gesto; sono certamente ragioni valide anche se, ci sembra, altre ce ne sono, inespresse ma altrettanto decisive; e forse sono soprattutto queste che, infine, hanno pesato sulla clamorosa decisione. E una di queste ragioni è stata, probabilmente, la constatazione di non essere riuscito a governare la Chiesa così come avrebbe voluto; e il motivo di questo scacco sta nella «resistenza» di molta parte della Chiesa romana alla comprensione e attuazione del Vaticano II così come intese e volute da lui. La martellante tesi ratzingeriana, espressa con particolare solennità nel suo discorso alla Curia del 22 dicembre 2005, è che il Concilio vada letto in sostanziale continuità – e mai in radicale discontinuità – con il magistero papale e conciliare precedente. Una parte della gerarchia ecclesiastica, del mondo teologico, e di gruppi di fedeli ha dato pieno consenso a questa idea: in Italia, l’intera Conferenza episcopale in quanto tale e i suoi vertici, prima con il cardinale Camillo Ruini, e poi con il cardinale Angelo Bagnasco. Nella Curia romana, poi, ardenti sostenitori della linea papale sono stati, in particolare, monsignor Agostino Marchetto e il cardinale Mauro Piacenza. Ma un’altra parte di vescovi, teologi, cenacoli di studio e gruppi di base hanno respinto, apertamente o di fatto, questa tesi.

Il Vaticano II, naturalmente, su molti punti si è posto in perfetta continuità con il precedente magistero; su altri ha vistosamente innovato, ma in una linea di coerente sviluppo con semi già crescenti; su altri ancora ha messo in luce angolazioni non ignote all’antica tradizione, ma oscurate negli ultimi cinque secoli, dal Concilio di Trento fino a Pio XII. Ma, ed ecco il punto nevralgico, su altri temi il Vaticano II si è collocato in evidente discontinuità con il magistero precedente. Affermando, nella dichiarazione Nostra aetate, che gli ebrei sono «sempre carissimi a Dio», e demolendo le basi della «teologia del disprezzo» verso il popolo ebraico, con annessa accusa generalizzata di «deicidio», il Concilio si è radicalmente contrapposto ad un quasi bimillenario magistero papale e conciliare, per non parlare della mentalità radicata nel popolo cristiano da una insistente predicazione intrisa di antisemitismo.

E, nella dichiarazione Dignitatis humanae, affermando il principio della libertà religiosa, il Concilio ha smentito il magistero precedente che tale principio negava. È infatti un insulto all’intelligenza, oltre che alla verità storica, affermare che vi sia continuità tra un magistero papale e conciliare che riteneva legittimo, e perfino doveroso, in nome di Dio, mandare al rogo «eretici» e «streghe» (tali definiti e definite dal potere dominante), ed un magistero che proclama il dovere di rispettare la libertà religiosa anche dei cattolici disomogenei al pensiero del magistero ecclesiastico. Lo sforzo titanico di Ratzinger di negare discontinuità invalicabile tra queste due visioni dell’ortodossia e dell’ortoprassi è crollato, per la sua insita contraddizione. E, diciamolo con franchezza, lascia allibiti che fior di vescovi, di teologi e di laici-doc – compiacenti o meschinamente silenti – non abbiano alzato la voce per dissentire pubblicamente da quella improponibile tesi, seppure «necessaria» per l’impalcatura stessa del ratzingerismo.

Ma Benedetto XVI non poteva fare altrimenti, per coerenza con la sua interpretazione riduttiva del Vaticano II, e nell’estremo tentativo di convincere i seguaci di monsignor Marcel Lefebvre a tornare all’obbedienza di Roma. Per quanto limati con abilità curiale, i due punti citati sono rimasti però insuperabili: per Ratzinger, che non poteva formalmente demolirli; e per i «tradizionalisti» che non potevano accogliere né le due citate dichiarazioni conciliari né tanto meno il tentativo indifendibile di Ratzinger di svuotarle del loro senso «rivoluzionario» rispetto alla «Chiesa di sempre» sognata da un Lefebvre totalmente ignaro di che cosa fu la Chiesa, e l’ecclesiologia, nel primo millennio. Perciò, Ratzinger ha cercato di bypassare questo sbarramento manomettendo la riforma liturgica per compiacere i lefebvriani, e così facendo vacillare il Concilio e reintroducendo le venature di antisemitismo della liturgia in vigore prima del 1962.

Il ferreo no di Ratzinger alle riforme

Su molti altri temi il pontificato ratzingeriano è stato evasivo – o riduttivo, o silente – rispetto a temi portanti del Concilio o a problemi sorti negli anni più recenti e apertamente dibattuti nell’agorà ecclesiale: non ha sviluppato la collegialità episcopale (lasciando sempre «consultivo», come già papa Wojtyla, il Sinodo dei vescovi); non ha accettato di ridiscutere le procedure per la nomina dei vescovi, sottraendo questa alla Curia e «restituendola» alle Chiese locali (del resto, non era proprio così nella prima Chiesa?); ha respinto, come già il predecessore, l’ipotesi di inverare l’affermazione conciliare della Chiesa come «popolo di Dio» istituendo una specie di Senato nel quale due o trecento cattolici, uomini e donne di ogni parte del mondo, dessero formalmente «consigli» al pontefice e una loro rappresentanza fosse presente in conclave; ha respinto, come Wojtyla, la richiesta di ripensare lo status del presbìtero; ha riconfermato il monolitismo teologico, non inserendo anche rappresentanti della Teologia della liberazione, delle teologie africane ed asiatiche e delle teologie femministe, nei dicasteri curiali e nella Commissione teologica internazionale; ha continuato, come Giovanni Paolo II, a respingere una profonda ridiscussione sui ministeri ecclesiali, per aprirli anche alle donne; imperiosamente ha voluto, da papa, ribadire la dichiarazione Dominus Iesus, da lui firmata nel 2000 come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, nella quale affermava che quelle della Riforma «non sono Chiese in senso proprio» e che le religioni non-cristiane sono «oggettivamente deficitarie»; ha fondato la difesa di problematici «princìpi non negoziabili» su una interpretazione più che discutibile della «legge naturale», soprattutto riguardo alla sessualità. E, infine, egli si è opposto a un vero confronto con la modernità.

Ratzinger, su un altro versante, ha affrontato apertamente lo scandalo dei preti pedofili (dal predecessore, e anche da lui, sotto Wojtyla, tacitato) e nei suoi viaggi più volte ha incontrato vittime delle violenze sessuali del clero. E, soprattutto, nei suoi discorsi ha parlato in modo avvincente di Dio, del suo primato, della relatività di tutto di fronte al Mistero ineffabile e incombente. Ma, ci sembra di poter dire (altri avranno altre opinioni, e avranno le loro ragioni): cercare, come ha fatto Benedetto XVI, di parlare di Dio per derubricare le necessarie riforme della Chiesa romana, ritenendole irrilevanti, è stata una scelta di grande debolezza. Infatti, proprio da chi afferma il primato di Dio ci si aspetta che – rispetto alla povertà, alla ricchezza e alla condivisione del potere – abbia quell’audacia che chi è abbracciato a Mammona non ha. E, invece, torbide manovre curiali (appesantite dall’operato del cardinale Bertone) che Ratzinger non è stato in grado di domare, hanno rallentato moltissimo, per non dire cancellato, il suo sforzo di rendere trasparente lo Ior (la banca vaticana) e, nel suo insieme, la gestione finanziaria ed economica della Santa Sede.

E adesso? Far fiorire il Vaticano II, avviare il Concilio Vaticano III

Rinunziando al pontificato, il pontefice ha fatto un gesto dirimente, che avrà moltissime conseguenze ecclesiali e istituzionali. Con esso il ratzingerismo implode, scompigliando le schiere dei ratzingeriani, diventati quasi orfani (per quanto agguerritissimi, come presto si vedrà anche sotto il nuovo pontificato). E lui, Benedetto, con il suo gesto di abbandonare il trono dà obiettivamente un colpo di maglio alla «papolatria» che sempre nella storia ha oscurato l’Evangelo; umanizza i ministeri ecclesiali (di «eterno», egli sembra suggerire, dovrebbe esserci solo il desiderio di porsi al discepolato di Gesù, accettando o abbandonando compiti di ministero – di servizio! – nei limiti delle proprie capacità fisiche e intellettuali); implicitamente invita chi verrà dopo di lui a imboccare quella strada delle riforme, audacissime, ma tutte evangelicamente fondate, che lui non poté o non seppe osare. Nel dopo-Ratzinger è tempo, dunque, di porre l’intera Chiesa romana in stato di Concilio. Il che significa – ci sembra – sprigionare le potenzialità del Vaticano II e, per favorire questa fioritura, e affrontare temi cinquant’anni fa dormienti, avviare la preparazione del Vaticano III.

Il nodo della riforma non è tanto, seppure sia importante, la scelta di questo invece di quel vescovo di Roma, come è chiamato a fare il conclave, quanto piuttosto la riforma del papato, fatta balenare da Wojtyla e da Ratzinger, ma mai attuata. Il ministero del vescovo di Roma – per essere cardine dell’unità della Chiesa, come esso rivendica – non potrà non passare attraverso una dolorosissima spoliazione del potere (che inevitabilmente incrocia anche il «chi è» dello Stato della Città del Vaticano, e la sua plausibilità evangelica). Questa spoliazione comporta, tra le altre, quattro conseguenze: un vescovo di Roma che faccia concretamente il vescovo di questa città (dunque, andando ad abitare abitualmente al Laterano, dove sta la sua cattedra, per incontrare i suoi preti e i suoi fedeli); un Sinodo deliberativo, aperto anche ai laici uomini e donne, per affrontare i maggiori problemi della Chiesa e insieme deliberare; una «restituzione» alle Chiese locali di poteri e diritti, dal papato «sequestrati» per motivi di supplenza o per emergenze storiche; l’ascolto del grido degli impoveriti come angolazione dalla quale leggere l’Evangelo e cercare di viverlo.

Privo di paludamenti preziosi ma ingombranti, restituito alla sua radicale povertà, ma ricco di fede, un vescovo di Roma al servizio della comunione delle Chiese potrebbe essere il dono inatteso che, ponendo fine al ratzingerismo, ha offerto Ratzinger. Non dunque felix culpa, la sua, ma felix virtus; egli, comunque, passerà alla storia non per il suo pontificato, ma per averlo abbandonato. Vedremo presto se la riforma evangelica della Chiesa romana che potrebbe essere indotta da questa rinuncia comincerà a delinearsi all’orizzonte, o se rimarrà il sogno di una notte di mezzo inverno. E un’utopia.

Luigi Sandri

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