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Il governo galleggia, il paese affonda

by redazione

La manovra economica di Letta non aiuta l’economia, sempre più in crisi, e non va incontro alle esigenze della parte più sofferente del paese. Non è equa, non crea lavoro, non prevede un piano di risorse per il welfare ed è in linea con l’agenda europea dell’austerità che in questi anni ha già dimostrato di non funzionare.

Già presidente di Lunaria e portavoce della campagna «Sbilanciamoci!», lo scorso febbraio Marcon è stato eletto alla Camera dei deputati nelle liste di Sinistra ecologia e libertà.

di Giulio Marcon

La crisi economica che stiamo attraversando è stata riassunta dalla nota di aggiornamento del Def (il Documento di economia e finanza) presentata a settembre dal governo. Il rapporto deficit-Pil è al 3,1%; il debito pubblico al 132,8%, il Pil cala dell’1,7%. Si tratta di previsioni, in questi anni riviste poi sempre al ribasso. Tra l’altro l’Istat ha appena rivisto dopo moltissimi mesi i dati della contabilità nazionale del 2011 e del 2012 ed emergono difformità inquietanti sui principali dati macroeconomici e della spesa pubblica. Gli altri dati economico-sociali del 2013 sono tutti negativi: aumenta la disoccupazione, che è al 12% (e quella giovanile al 40%), cresce il numero di ore di cassa integrazione, continua a salire la percentuale di povertà assoluta e relativa. Il governo continua a consolarsi con queste previsioni per il 2014 assai «ballerine» e con quegli indicatori «umorali» dell’Istat sulla fiducia di imprese, famiglie e consumatori, che sembra volgere al meglio.

In realtà sicuramente non volgono al meglio i dati reali del lavoro, della produzione industriale (gli investimenti fissi lordi calano del 5,3%), delle entrate (crollate di 3,7 miliardi quelle dell’Iva), dei consumi interni. Se siamo sopravvissuti in questi mesi è grazie all’export, mentre la domanda interna continua ad essere depressa e insufficiente a far ripartire la ripresa. Ma – come ha sottolineato l’ex presidente della Commissione europea Romano Prodi – anche se la domanda interna riprendesse, probabilmente a beneficiarne sarebbero le imprese straniere, molto più attrezzate delle nostre – a causa dell’assenza di una politica industriale – a soddisfare le richieste del nostro mercato interno.

L’aumento dell’Iva al 22% non farà che peggiorare la situazione. Né la cancellazione della prima e della seconda rata dell’Imu servirà a questo scopo: in tempi di crisi si tende a tesaurizzare – in previsione del peggio che ancora potrebbe arrivare – quel poco che si può risparmiare. Di sicuro è successo che il governo non ha cancellato l’aumento di un’imposta (Iva) che colpisce in modo regressivo e danneggia di più i ceti medio-bassi e ha invece cancellato un’imposta (Imu) di cui si avvantaggiano anche le classi di reddito più alte. Togliamo tasse sul patrimonio e con la service tax mettiamo le tasse sull’abitare.

Le condizioni strutturali del nostro paese continuano ad essere difficilissime: il Pil è caduto di 8 punti e mezzo in sei anni di crisi e, sempre dall’inizio della crisi, abbiamo perso un milione di posti di lavoro. Nei primi mesi del 2013 sono state chiuse 31mila imprese e 150 aziende sono in amministrazione controllata. Dall’inizio della crisi sono ben 700 le crisi industriali che il governo ha dovuto fronteggiare cercando di evitare chiusure e perdite di posti di lavoro. Il reddito disponibile per famiglia, secondo l’Istat, è diminuito del 4,7% ed il risparmio delle famiglie è ai minimi storici ed evidenzia un calo del 2,5% nel 2013. Va ricordata anche la situazione drammatica dell’economia meridionale, che sembra quasi inarrestabile. A partire dagli investimenti pubblici. La spesa in conto capitale della pubblica amministrazione a fronte di un obiettivo dichiarato del 45% sul totale nazionale si è ridotta dal 40,4% nel 2001 al 35,4% nel 2007, giungendo al minimo storico del 31,1% nel 2011.

La nota di aggiornamento del Def dà molte indicazioni aleatorie e riassume le principali iniziative «riformatrici» del governo, tutte di scarso e discutibile impatto: dalla riforma costituzionale (che stravolgerà la nostra Carta) al decreto sul lavoro (che crea pochi e precari lavoretti per i giovani), dal pagamento dei debiti della Pubblica amministrazione alle imprese (il cui impatto dello 0,5% sul Pil è assolutamente spropositato) ad una legge delega sul fisco che evita sistematicamente i problemi più urgenti sul tappeto: la tassazione di rendite e patrimoni, la riduzione della pressione fiscale su lavoro ed imprese, la tassazione delle speculazioni finanziarie. E per ridurre il debito – non avendo il coraggio di tagliare le spese militari e quelle delle grandi opere, delle auto blu, delle consulenze – la ricetta è nota e pericolosa: dismissioni e privatizzazioni del patrimonio pubblico, tagli alla pubblica amministrazione, riduzione (nella forma della razionalizzazione delle spese) dello Stato sociale.

Particolarmente preoccupante è l’intento di ridurre il debito attraverso un piano massiccio di dismissioni: si prevedono incassi di 7,5 miliardi l’anno mettendo nelle mani del mercato Finmeccanica, le Poste, la Rai, le Ferrovie dello Stato e magari l’Eni. E particolarmente preoccupante è l’assenza di un piano di risorse per il welfare: non una parola sulle politiche per l’assistenza e riguardo ai servizi per la salute si auspica un «sistema sanitario selettivo», un modo elegante per mandare a benedire l’impianto universalistico del nostro servizio sanitario.

Le misure previste dal governo per la lotta alla povertà sono tradizionalmente assistenzialiste e anche queste selettive: i diritti sociali sono derubricati a bisogni degli indigenti, i cittadini a poveri; o a clienti, nel caso di mercati sociali redditizi per le imprese profit.

Mancano nelle misure del governo politiche anti-cicliche: di sostegno ai redditi e alla domanda interna non c’è traccia; la politica industriale è inesistente; di un fisco re-distributivo nemmeno l’ombra; per il lavoro troviamo le solite misure (modestissime e parziali) di incentivi che non hanno mai funzionato. Non ci sono politiche pubbliche, non ci sono politiche per la domanda, non ci sono politiche di redistribuzione della ricchezza.

Facciamo esattamente l’opposto di quello che sarebbe necessario fare: riduciamo gli investimenti pubblici (meno 0,4% sul Pil) da qui al 2017 mentre bisognerebbe fare esattamente l’opposto, favorire una forte iniezione di investimenti e di spesa pubblica (di almeno 30 miliardi) per far ripartire la domanda pubblica e privata e così dare ossigeno alle imprese e ai consumi. Si tratterebbe di sostenere un programma di piccole opere, di favorire un piano per il lavoro degno di questo nome, di varare un vasto piano di economia verde fondato sulle energie rinnovabili, la mobilità sostenibile, il riassetto del territorio, un nuovo modo di produrre e di consumare. Cioè un nuovo modello di sviluppo diverso da quello che abbiamo conosciuto, meno energivoro e diseguale, più sostenibile ed equo.

L’agenda generale continua ad essere sempre la stessa: ridurre indiscriminatamente la spesa, privatizzare e liberalizzare il più possibile tutto quello che è pubblico, rendere più precario il mercato del lavoro. È sostanzialmente l’agenda europea (ed italiana) dell’austerità che in questi anni non ha funzionato e che continua a non funzionare, oltre ad essere ingiusta e a produrre povertà e diseguaglianze. Manca l’idea di una politica economica espansiva e non restrittiva, capace di crescita e non di tagli, capace di pensare un ruolo positivo dell’intervento pubblico, senza affidarsi all’inesistente ruolo taumaturgico dei mercati, che negli ultimi anni ci hanno portato alla rovina.

La legge di stabilità presentata il 15 ottobre scorso è un provvedimento che non porta equità e sollievo al paese, non combatte la crisi e non rilancia l’economia. Se con un modestissimo taglio al cuneo fiscale mette qualche euro nelle tasche dei lavoratori dipendenti, con il taglio (dal 19 al 17%) alle detrazioni per le spese mediche e scolastiche se li riprende con abbondanti interessi. Di fronte alla crescente povertà del paese, nessuna idea migliore è venuta al governo Letta se non quella del rifinanziamento della Social card un po’ più ampliata e qualche soldo in più per il fondo per le politiche sociali e il fondo per la non autosufficienza (mentre si taglia l’indennità di accompagnamento), salvo poi mettere i Comuni nelle condizioni di tagliare i servizi sociali per mancanza di risorse e trasferimenti dallo Stato. Comuni che potranno dal prossimo anno usufruire da una parte dello sblocco assai parziale del patto di stabilità interno e dall’altro potranno usufruire della Trise – la «continuazione dell’Imu con altri mezzi» – che però porterà meno soldi dell’Imu alle amministrazioni comunali e, oltre ai proprietari, colpirà anche gli inquilini in affitto. Per la copertura della rata di dicembre dell’Imu non si hanno notizie.

Di politiche per il lavoro nella legge di stabilità non c’è traccia (a parte le risorse dovute per la cassa integrazione in deroga): anzi ce n’è, ma con il segno negativo. Il blocco dei contratti dei dipendenti della Pubblica amministrazione nel 2014 e del turn over fino al 2018 significherà da una parte una perdita netta di reddito per centinaia di migliaia di lavoratori e per le loro famiglie e dall’altra una diminuzione di efficienza della Pubblica amministrazione e la perpetuazione di rapporti di lavoro precari e a tempo determinato.

Di politiche industriali c’è pochissimo (la proroga di un anno del bonus edilizio ed energetico, che ancora non viene stabilizzato) e la spesa pubblica continua ad essere massacrata: ben 7-8 miliardi di tagli (in gran parte lineari) nel 2014, ancora tutti da verificare, ma almeno la Sanità si è salvata. Però di soldi pubblici se ne stanziano per le navi da guerra (ben 5 miliardi nei prossimi 15 anni) e per altri grandi opere (3 miliardi), tra cui i 400 milioni inutili al Mose. Tra le entrate ci sono le dismissioni: nella legge di stabilità ce ne sono per 3,2 miliardi di euro.

Si era vociferato un paio di giorni prima di un aumento della tassazione delle rendite finanziarie dal 20 al 22%, ma non se n’è fatto nulla: Saccomani non ne vuole sapere, come anche a qualsiasi revisione dell’imposta sulle transazioni finanziarie, introdotta l’anno scorso con la legge di stabilità del governo Monti e che è, in quella versione, una misura modestissima. Ci si è limitatati ad alzare l’imposta di bollo (dall’1,5 al 2 per mille) sulle comunicazioni relative ai prodotti finanziari.

È una manovra economica, quella del governo, senza qualità, che più che stabilizzare l’economia stabilizza la maggioranza delle larghe intese: non dà uno scossone all’economia in crisi, non porta aiuto alla parte più sofferente del paese, non crea posti di lavoro e non ha alcun segno di equità. È una manovra economica che fa galleggiare il governo e però non impedisce al paese di continuare ad affondare. È una deriva pericolosissima, regressiva ed attendista, che deprime l’economia e impoverisce la società. Per questo la legge di stabilità del governo Letta va sostituita con altre misure che abbiano il segno del lavoro, della giustizia sociale, della sostenibilità.

(pubblicato su Confronti di novembre 2013)

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