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Emmanuel Carrère: io ho creduto

by redazione

di Mario Campli

L’ho incontrato  nella piazza dell’Auditorium, a Roma. Era in corso «Libri come 2015», di cui era uno degli ospiti d’onore. Se lo contendevano come una star. Un fotografo di professione faceva il suo lavoro: Emmanuel Carrère, pazientemente seguiva le sue indicazioni, spostandosi sul piazzale.

Mentre riconsegnava a mia moglie e a me la copia (Le Royaume – Il Regno) sulla quale gentilmente aveva scritto una dedica, gli ho chiesto: «Possiamo e dobbiamo considerarlo autobiografico»? «Assolutamente sì», mi ha risposto, guardandomi dritto negli occhi. (Pour Bice et Mario avec toute ma sympathie).

Il libro

Avevo già completato la lettura della prima parte: Prologo. Parigi, 2011 e Una crisi. Parigi 1990-1993. Seguiranno: Paolo. Grecia, 50-58; L’inchiesta. Giudea, 58-60; Luca. Roma, 60-90; Epilogo. Roma, 90-Parigi, 2014.

Nel Prologo. Parigi 2011, penso di aver individuato il filo di Arianna: «Quando mi occupo di un argomento, mi piace aggredirlo su più fronti». I fronti, in effetti, sono molteplici. Il percorso sempre autobiografico, anche nelle ultime righe, quando – non più cristiano, «sono stato cristiano» – si interroga: «Il libro che termino ora l’ho scritto in buona fede […]. E nel momento di lasciarlo mi chiedo se questo libro tradisca il giovane che sono stato, e il Signore in cui quel giovane ha creduto o se invece vi sia rimasto, a suo modo, fedele». E risponde: «Non lo so».

«L’argomento», in fondo, è Emmanuel Carrère, un contemporaneo post-cristiano. «Aggredito» con dolcezza e senza pietà: analisi ed autoanalisi; psicanalisi e storia; conscio e inconscio, fino alle soglie di un possibile suicidio. «Be’, ha risposto Roustang, lei ha parlato di suicidio. Oggi non gode di ottima fama, ma qualche volta è una soluzione. Detto ciò, è rimasto in silenzio. Anch’io. Poi ha aggiunto: in alternativa, può vivere».

Non proprio deciso a suicidarsi ma convinto che lo avrebbe fatto, saggiata anche la resistenza del gancio sopra il letto, scritta una lettera alla moglie, un’altra ai figli, una terza ai genitori; ripulito il computer, esita davanti a uno scatolone che lo aveva seguito in parecchi traslochi; dentro vi aveva riposto i quaderni del periodo cristiano, quelli dove scriveva ogni mattina i commenti al Vangelo secondo Giovanni.

Aveva cominciato a scrivere delle prime comunità cristiane e, in parallelo, coltivava l’idea di un reportage su cos’era diventata la loro fede duemila anni dopo. Poteva intrufolarsi in una di quelle crociere «sulle orme di san Paolo». In mezzo ai turisti religiosi, li avrebbe interrogati a dovere: «Voi ci credete, ma come ve lo figurate?», ecc. Poi, ci ripensa: «Un cristiano l’ho avuto a portata di mano per parecchi anni, più vicino di chiunque altro al mondo, ed ero io».

Quindici anni dopo aver chiuso l’ultimo quaderno («Pasqua 1993… Cristo è risorto, ma non ci crederò più… Ti abbandono, Signore. Tu, non abbandonarmi»), lo scettico Carrère, «un agnostico, nemmeno abbastanza credente da essere ateo», riconosce che il capitolo non è chiuso e gli viene «voglia di girare di nuovo intorno a questo momento centrale e misterioso della nostra storia, della mia storia. Di tornare ai testi, cioè al Nuovo Testamento». Da romanziere? Da storico? Ma che gl’importa dell’etichetta! Da «investigatore»; e precisa: «Della nostra storia, della mia storia».

Il percorso

Ha ancora, dopo tanti anni, paura (un termine che usa spesso) a confrontarsi: «io ho creduto», scrive usando il corsivo. Poi prende una strada obliqua: «Gesù è una figura che, se non illumina, acceca. Non voglio affrontarlo direttamente». E allora: Paolo, Luca, gli Atti degli apostoli; Marco-Giovanni, e Giovanni; La fonte Q e Le guerre giudaiche di Flavio Giuseppe; le Lettere apocrife e “quelle che si sarebbero scritte Paolo e Seneca». E Roma.

E studia, Emanuel Carrère; studia molto e ci tiene a informarne, dettagliatamente, il suo lettore: le note della Bibbia di Gerusalemme e della Traduzione ecumenica della Bibbia; tiene a portata di mano anche quella protestante di Louis Segond, quella di Lemaitre de Sacy, detta Bibbia di Port-Royal, e la traduzione più recente, uscita da Bayard, detta Bibbia degli scrittori, a cui lui stesso ha collaborato. Eppure non si raccapezza del tutto e, allora, adotta come compagno di lettura e di studio, Ernest Renan («per fortuna c’è una versione più razionalista della faccenda»).

E bisogna dirlo: Carrère è un ottimo scrittore. Ascoltiamolo.

«La scena si svolge a Corinto, nel laboratorio di Priscilla e Aquila, una delle botteghe che si vedono ancora nei quartieri poveri delle città mediterranee […]. Calvo e barbuto, la fronte solcata da rughe, Paolo è curvo sul telaio. Penombra. Raggio di luce sotto la porta. Il giovane Timoteo, che non si è ancora tolto la polvere del viaggio, finisce il racconto della sua missione a Tessalonica. Paolo decide di scrivere ai Tessalonicesi. […] Paolo ha lasciato la spola. Leva lo sguardo al cielo e inizia a dettare. Il Nuovo Testamento comincia qui».

E seguiamolo ancora quando – dopo averci  messo in guardia che «fare supposizioni sulle fonti dei vangeli non è uno sport moderno» e spiegato con rapide ed efficaci pennellate che la famosa  fonte Q (Quelle, fonte in tedesco) «doveva essere una specie di bignami per i missionari ebraico-cristiani in Palestina e in Siria» – aggiunge: «Ho scritto all’inizio di questo libro : Nessuno saprà mai chi fosse Gesù, né, a differenza di Paolo, che cosa abbia detto veramente, lo ribadisco. Bisogna resistere alla tentazione di leggere questo documento virtuale, risultato di un’ipotesi filologica, come trascrizione verbatim. Tuttavia mai come qui siamo vicini all’origine. Mai come qui sentiamo distintamente la sua voce. Ascoltate».

E in una pagina e mezza, spigolando tra i Vangeli, lo scrittore Carrère tratteggia egli stesso un potente bignami odierno della buona notizia. Poi commenta: «Ho tradotto liberamente, scelto ciò a cui oggi torno più spesso. E mi sembra che anche questo piccolo “digest” evangelico giustifichi la frase delle guardie andate ad arrestare Gesù: Mai un uomo ha parlato così».

L’approccio non è mai intimistico – seppure diretto e spesso intimo e toccante – e pur avendo un debole per Luca («il caro medico») come persona e anche come scrittore, non manca di osservare, di quel mondo antico, i contrasti profondi: «Quando sentiva Paolo dire peste e corna di Giacomo, il Luca che immagino io […] non poteva fare a meno di pensare nel suo intimo che Giacomo aveva un po’ ragione».

Colpisce e farà discutere la serenità con cui l’agnostico Carrère – giunto alla conclusione del suo viaggio – tratteggiando il passaggio epocale («il fatto è che dopo la conversione di Costantino, per il cristianesimo ha smesso di essere vera la frase di Tertulliano : Cristiani non si nasce, si diventa. La setta è diventata una chiesa. La Chiesa. Oggi questa Chiesa è vecchia. Ha un passato pesante»), giudica (da storico? Da romanziere? Non da «investigatore», forse semplicemente da contemporaneo) il soggetto e la configurazione Chiesa («Non mancano motivi per rimproverale di aver tradito il messaggio del rabbino Gesù di Nazareth, il messaggio più rivoluzionario di tutti i tempi. Ma rimproverarglielo non significa rimproverarle di aver vissuto?»).

Chi e cosa è il Regno

E, infine, «il Regno». Scrive: «Stavo terminando questo libro, e non posso negare: ne ero soddisfatto […]. Al tempo stesso avevo il tarlo di non essere arrivato al nocciolo della questione […]. Il fatto è che quando si affrontano argomenti simili l’unico modo per non finire fuori strada sarebbe schierarsi dalla parte della fede – cosa che io non volevo fare, e non voglio fare tuttora».

Accetta l’invito di un amico; questa nuova esperienza di vita (non gli studi appassionati e puntuali) gli permetterà di «dire su questa fede qualcosa che non avevo detto». Nella fattoria ristrutturata, entra in un ritiro cominciato il giorno prima: messe quotidiane che lo annoiano, canti religiosi che lo irritano, periodi di silenzio che gli piacciono. Gli torna in mente quel Giovanni l’Evangelista (Carrère mette sempre le maiuscole, che mi stupiscono ma che rispetto), forse l’apostolo o Giovanni il Vecchio. «Era ebreo o greco? Mi ci sono arrovellato molto […] e ora me ne infischio». Da un vicino paesino dell’Oise, dove c’era un ospedale psichiatrico, un manicomio, un parcheggio per gli incurabili, l’amico Jean Venier aveva adottato due ammalati per farli vivere con lui nella fattoria: Philippe e Raphael. Ora sono lì. «Ci togliamo le scarpe e i calzini, arrotoliamo l’orlo dei pantaloni. Comincia il direttore delle risorse umane, si inginocchia davanti al preside, versa con la brocca acqua tiepida sui suoi piedi, li strofina […]. Poi tocca al preside inginocchiarsi davanti a me e lavarmi i piedi prima che io lavi quelli della funzionaria della Caritas. Guardo i suoi piedi, non so che cosa sto pensando».

Il giorno dopo, il ritiro finisce. «Mi dico che è questo, il cristianesimo. Comunque non vorrei, per il fatto di aver lavato dei piedi, essere toccato dalla grazia e tornare a casa convertito come ventiquattro anni fa. Per fortuna, non succede niente del genere». Ma qualcosa succede: «Devo ammettere che quel giorno, per un attimo, ho capito che cos’è il Regno».

Post scriptum

Dialogando con Sandro Veronesi – autore di Non dirlo-il vangelo di Marco – Carrère osserva: «Trovo che vada ad onore della Chiesa primitiva avere conservato i quattro vangeli principali, e non avere unificato tutto. Prova di una vera onestà intellettuale, e anche di una intuizione letteraria, magari inconscia: il racconto evangelico, con le sue differenze e contraddizioni, è molto più profondo in quattro versioni che in una sola» (La Lettura-Corriere della sera, 17/5/2015).

Questa invasione di campo e il naso arricciato di esegeti ed esperti, antichi e recenti, mi ricordano la polemica sul grande Pavarotti quando, anni fa, iniziò a portare in piazza, fuori dai templi laici e contaminandosi con i cantanti di musica leggera, la grande e blasonata lirica italiana.

Scrive, a tale proposito, Veronesi: «Quanto alle ragioni per cui, pur non conoscendo né il greco né l’aramaico, pur non essendo un biblista né un teologo, e nemmeno un credente, mi sono sentito spinto a mettere beccosu un testo come il Vangelo, dirò che sono sostanzialmente due. La prima ragione si chiama entusiasmo […]. La seconda si chiama “Dei Verbum”, cioè il documento più autenticamente rivoluzionario prodotto dal Concilio Vaticano II – se, come l’ho inteso io, esso rappresenta l’apertura della tradizione cristiana a chiunque senta di avere qualcosa da aggiungervi, indipendentemente dai titoli che possiede, dal ruolo che ricopre e addirittura dal fatto che creda o no in Dio” (Sandro Veronesi, Non dirlo – il vangelo di Marco, Bompiani, maggio 2015).

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