Religioni ed economia. Tradizioni e nuovi modelli - Confronti
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Religioni ed economia. Tradizioni e nuovi modelli

by redazione

Copertina orizzontale

di Marisa Patulli Trythall

Quasi tutti gli articoli del dossier «Religioni ed economia» (pubblicato da Confronti nel settembre scorso) hanno suscitato in me commenti, pensieri, ricordi, curiosità, interesse per un’esposizione particolare, originale, del tema trattato e mi sono interrogata a lungo sul tipo di approccio che avrei personalmente utilizzato o che avrei desiderato leggere. Ho certamente apprezzato la presentazione, che tratteggia molto efficacemente il globale senso di disorientamento che, forse, in tutto il mondo si prova. Certamente ciascuno in modi, intensità e condizioni socio-economiche diverse. Si parla di «religioni che vogliono valere» e di sistemi economici che producono «valore». Viene lanciato insomma un macigno in uno stagno, imbevendo tutti coloro che lo leggono, lo ascoltano e osservano, di una pioggia di significati, di termini politici, economici, religiosi che coprono l’arco della storia a noi nota.

Stiamo cercando di ragionare su due parole, due significati, due contesti semantici sostanzialmente opposti: religione ed economia. Perché opposti, concentriamoci per ora sulle definizioni essenziali: l’una rimanda, almeno, ad un ambito ricompreso, definito, circoscritto e descritto, codificato e canonizzato. religio, dal latino, sta per: unire, legare insieme.

L’altro termine, «economia», pur rimandando all’astratto concetto di «mercato» come la piccola piazza di poetica e arcaica memoria, nella quale si incontrano quotidianamente un insieme di soggetti diversi quanto a provenienze, gusti, attitudini ed esigenze, si fa però per definizione «modello per il tutto» (microeconomia/macroeconomia/ o, per usare il rimando alla presentazione, «glocale»): il mercato globale, astrattamente inteso e nel quale tutti operano, nel quale astrattamente domanda ed offerta si incontrano in una condizione di perfetta «concorrenza», che mantiene un equilibrato scambio tra le parti. E non ci addentriamo qui in una disquisizione più approfondita delle variabili che possano turbare questa condizione di equilibrio teorico (una sorta di Paradiso terrestre sempre tradito, sempre abbandonato, sempre ricercato), o sui concetti di interesse marginale, sui correttivi che lo Stato possa voler ritenere necessari o altro.

Concentriamoci piuttosto su come possa essere vischioso cercare di trovare una logica o delle linee di tendenza che avvalorino una capacità di incidenza specifica sul mercato, o di condizionamento di esso, effettuabile sulla base del credo in principi etici, di una confessione religiosa rispetto ad altre, o in concorrenza con altre.

E torniamo al diverso significato delle due parole e come questo ci porti a comprendere che parlare di religione ed economia in relazione logica e consequenziale è in sé un’antinomia: l’uno tende a definire l’insieme di tradizioni, ispirazioni, norme e filosofia di un gruppo più o meno vasto di adepti/fedeli mentre l’altro, per definizione, dev’essere aperto a tutti per funzionare correttamente.

Certamente mentre per il concetto di mercato, di economia, parliamo di utili astrazioni per definire una condizione globale comune, lo stesso non può dirsi delle religioni, le quali di astratto hanno solo il riferimento ultraterreno alla divinità.

Entrambi tuttavia rispondono a norme, tradizioni, convenzioni, consuetudini che ne regolano l’andamento immediato e nel tempo, caratteristiche che condividono, come qualsiasi altra forma organica e organizzativa che il genere umano si sia dato: la società, il complesso normativo, le forme di acquisizione, tutela e gestione della proprietà privata, il concetto di sovranità e di stato. Nel passaggio da uno stato di «naturalità» (pre-familiare) ad uno di civiltà condivisa, l’uomo si è dato un complesso di norme da rispettare, inforzare, tutelare e la cui trasgressione comporti un’azione sanzionatoria inflitta da uno o più individui, o nuclei, della comunità di appartenenza.

Dunque anche il nucleo speciale nel quale si identifichi l’essere umano X, in accordanza o meno con il più ampio nucleo sociale nel quale è inscritto, è «normato», necessita cioè di un complesso di regole, ragioni, azioni rituali, scelte gestuali, di abbigliamento, di cibo, per poter svolgere un’azione ordinata verso l’interno (adepti/fedeli) e verso l’esterno (la società o stato, o comunità di stati) nei quali svolge la sua funzione di guida per pochi o molti correligionari.

Di più, entrambi necessitano di una pre-condizione per poter funzionare, agire, espandersi, progredire e raggiungere i propri fini: la fede/fiducia.

Chi non ha sentito parlare di «fiducia dei consumatori» o di fiducia nei mercati. Non intendo certo paragonare la fede di un «fedele» verso l’Entità suprema e ultraterrena, che esprime all’interno della comunità religiosa di riferimento, ma è certamente un ponte di contatto e comunicazione che permette quello scambio tra chiuso ed aperto che altrimenti condurrebbe nel medio termine all’asfissia il nucleo «religioso», per mancanza di ricambio. Un altro punto/ponte di contatto: entrambi necessitano di uno sguardo approfondito al particolare e al generale per poter prevedere e mettere in atto strategie di sviluppo e crescita, o di contenimento delle perdite, o di alleggerimento in particolari momenti di eccessiva sovrapposizione o esposizione, delle risorse necessarie ad un regolare corso.

Ecco dove le analisi di diversi autori del dossier convergono: l’uso di termini comuni, ma con significato diversamente interpretato da ciascuno. Non è poi in questo che si fonda la «differenza» tra una confessione religiosa e l’altra? Nel riuscire a stabilire uno sguardo e un’interpretazione diversi sullo stesso oggetto, principio o parola?

Pensiamo alla critica, al rigetto a parole, da più parti ricordata, dell’usura, dell’eccesso di profitto e perché no, del fondamento stesso del diverso approccio verso il danaro che ha portato alla «lacerazione originaria» tra cristiani: pensiamo alla «simonia», alla vendita di indulgenze parziali o plenarie, dietro congruo compenso, effettuato tramite i noti banchieri tedeschi Fugger, ad esempio, indulgenze acquistabili e impetrabili anche per i defunti: se si può, perché non fare del bene anche «a babbo morto»!

Qui non stiamo ironizzando o ricordando il mercimonio di cose da considerarsi «sacre», siamo ad esaminare il fatto che ci voglia una sostanziosa dose di ‘fiducia’ (oltre che di fede nell’ultraterreno) alla ennesima potenza perché, badiamo bene, anche il danaro, il suo valore, altro non è che un’astutissima invenzione/convenzione per la quale noi accettiamo di buon grado di essere remunerati non con cibo, abiti o altri primari beni, ma con pezzi di carta o di metallo con i quali, a nostra volta, acquistiamo quei beni necessari che non ci sono stati dati direttamente in cambio della nostra opera. Capite bene che ci voglia molta fede per acquistare con pezzi di metallo, o pietre, o lettere di cambio, un pezzo di carta che attribuisca lo sconto di pena futuro, in un luogo non meglio identificato che come ‘Purgatorio’ e per un arco temporale cumulabile (per essere al sicuro da ogni evenienza presente e futura) così da essere al più presto passati in un luogo ancor meno definito, ma certamente di delizie per l’animo: il Paradiso. Il tutto nonostante che il Supremo Artefice abbia sempre indicato quanto poco abbia in valore certe cose!

Quando poi si offici il rito (dietro tangibile compenso) per l’anima di uno o più defunti, siamo certamente di fronte alla caratteristica fondante dell’aggregarsi di tutti gli individui: la fiducia.

Abbiamo trasversalmente ricordato l’azione certamente molto concreta, temporale, di tutte o quasi le denominazioni religiose nei tempi, perché nessuna società può svilupparsi senza lo scambio fiduciario di beni di cui l’uno abbia bisogno e l’altro no. Ci diviene immediatamente evidente come ogni comunità abbia almeno due piani di azione: l’uno diretto diciamo verso l’interno (i suoi fedeli o adepti), l’altro verso «il resto del mondo» (dal nucleo più prossimo ma non omogeneo a sé, alle comunità

diverse per fede, organizzazione e qualsiasi altra variabile fisiognomica, di costumi, storia, lingua o tradizioni). C’è una microeconomia basata sui contributi dei consociati e una macroeconomia che esprime la loro capacità di sviluppo e contatto con altre realtà, e mercati, utili all’accrescimento dei beni e del benessere della comunità di appartenenza.

A questo punto entra una variabile non di poco conto, come tutta la storia passata ci ha insegnato: il numero fa la decisione, sposta le alleanze, smuove i mercati, vince le guerre, spaventa, crea o disfa equilibri lì dove ritenga opportuno e utile farlo. I numeri di consociati, di facenti capo a una comunità omogenea per alcune norme fondanti, ancorché disomogenea nella personale attribuzione di valori, ma restando all’interno del nucleo, crea le maggioranze, smuove le montagne. I numeri delle persone, come i numeri dei «valori» da far valere nell’interazione umana, sui mercati, o nella vita quotidiana di altri conta.

E a questo punto del mio peregrinare da Marx a Weber, ad Adam Smith, a Keynes, desidero ricordare una citazione sull’importanza della fiducia, di Smith, in La ricchezza delle nazioni: «L’uomo ha quasi sempre bisogno del soccorso dei suoi fratelli, ed

invano egli l’attenderebbe soltanto dalla loro benevolenza. Avrà più possibilità d’ottenerlo, se potrà volgere a proprio favore il loro interesse, mostrando loro che tornerebbe a loro vantaggio fare per lui quello che egli richiede da loro. Chiunque offre ad un altro un contratto di qualunque specie, fa una proposta del genere. Dà a me quello di cui io ho bisogno, e tu avrai questo, di cui tu hai bisogno».

Per arrivare ad Alan Greenspan (ex governatore della Federal Reserve) e citare la sua dichiarazione al Congresso americano nel 2008, il momento della Grande recessione, lo scoppio della bolla immobiliare e finanziaria: «Quelli tra noi che credono, come me, che le istituzioni finanziarie abbiano interesse a proteggere il valore dei loro azionisti, sono in uno stato di shock e di incredulità!».

E concludo riallacciandomi al concetto di soccorso e di fratellanza, così come lo ha declinato un altro degli autori del dossier, citando Benedetto XVI e la sua enciclica Caritas in veritate: in cui si puntualizza la sostanziale differenza tra i concetti di fratellanza e di fraternità e la sottile linea di demarcazione che rende l’una l’origine della solidarietà intesa come mera «filantropia» e l’altra la fonte della «condivisione fraterna». Glisso sul primo antecedente del concetto di «fraternità» che percorre quasi tutta la Bibbia, non si arresta neanche troppo nei Vangeli e certamente non alle soglie di Roma. Ma leghiamo questo passaggio a quello «evoluto» espresso da papa Francesco nella sua Evangelii Gaudium: «…di fatto risulta sempre più difficile individuare soluzioni a livello locale per le enormi contraddizioni globali, per cui la politica locale si riempie di problemi da risolvere. Se realmente vogliamo raggiungere una sana economia mondiale, c’è bisogno in questa fase storica di un modo più efficiente di interazione che, fatta salva la sovranità delle nazioni, assicuri il benessere economico di tutti i Paesi e non solo di pochi» (microeconomia/macroeconomia).

Cosa dicevamo delle differenze sostanziali tra religione ed economia, ma anche dei ponti necessari che debba creare ogni comunità al suo interno e verso l’esterno. Non sono fatti nuovi, nelle differenze di tempo, spazio e progresso, ma certamente è importante ricordare che anche nella più positiva delle affermazioni, nel suo dirigersi ad alcuni ma in relazione a tutti, nel suo definire il limite di applicazione, la sua importanza e differente azione, si annida il suo effetto rebound, contrario e pericoloso: ciò che delimita non solo «include» (definendo il comportamento auspicabile) ma «esclude» esplicitando ciò che «non è abbastanza». Per la regola «una rosa è una rosa è una rosa», io direi piuttosto che: Forse che quella che chiamiamo rosa cesserebbe d’avere il suo profumo se la chiamassimo con altro nome? (Giulietta: atto II, scena II, William Shakespeare).

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