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17 febbraio. Il Vangelo, il ricordo e la libertà

by redazione

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di don Cristiano Bettega (direttore dell’Ufficio Cei per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso)

Quanto fu lungimirante quel fatto storico del 1848, quando il 17 febbraio si inaugurò una stagione di riconoscimento dei diritti civili ai valdesi e agli ebrei, nell’allora Regno Sabaudo, tramite le leggi patenti di re Carlo Alberto! Un momento frutto di una lunga preparazione; e da un passato fatto di sofferenze per le discriminazioni e le persecuzioni subite. Oggi questa data ci ricorda delle libertà come un importante risultato storico ottenuto, e delle discriminazioni a sfondo religioso, che si ripresentano, purtroppo, anche ai nostri giorni.

In questo senso, far memoria per come lo vogliamo proporre qui significa saper guardare la storia, con attenzione, chiedendosi: a che punto siamo oggi per quel che riguarda la libertà religiosa? La viviamo realmente? E la desideriamo, la riconosciamo come un fattore imprescindibile anche da una testimonianza cristiana nella società? Questo saper fare memoria significa di più del semplice brindare insieme per un anniversario. Si tratta semmai della faticosa elaborazione del momento ricordato in un’attualizzazione per la vita di oggi: un vero e proprio “memoriale”, concetto ebraico prima e cristiano poi. E che riguarda proprio la capacità che un fatto storico diventi vivo e abbia significato nel presente. Cosa significa dunque quel fatto? Quali passi ci sono richiesti oggi? A quali attese dobbiamo saper tendere l’orecchio nel nostro Paese? Queste le domande che non possono mancare facendo memoria della libertà ottenuta.

La paura che aleggia per l’Italia e l’Europa non fa che attaccare pericolosamente quelle libertà, poiché essa parla alla pancia attraverso parole d’ordine quali “accerchiamento”, “invasione”; con una certa responsabilità di chi ha il dovere di fare comunicazione. La paura ha l’unico risultato di far arroccare nella propria (presunta) identità, che diviene un fantasma composto dalla “propria” lingua, i “propri” valori, la “propria” bandiera e la “propria” religione. Si presuppone che l’altro, chiunque esso sia, non possa che essere sospetto, se non addirittura dannoso per sé e la propria comunità.

Si può comprendere la paura, ma non condividerla: parlare oggi di libertà civile e religiosa significa nient’altro che saper riconoscere l’altro, che sta di fronte a me, come un soggetto alla pari, in dignità, diritti e doveri. E non come un soggetto discriminato, fosse per etnia, per religione o altro; e da confinare ai margini e nei bassifondi. Non come un soggetto obbligato a vivere nel “nascondimento” per vivere. La cristianità uscì dal nascondimento quando nel 313 Costantino col suo editto liberò i cristiani dalle catacombe, per diventare – ed è questo il passaggio fondamentale – cittadini romani, e che quindi dovettero assumersi delle responsabilità civili e sociali; ed è così che anche oggi si è chiamati nella coscienza a rendere conto sì di essere cristiani, musulmani, ebrei o altro, ma prima di tutto di essere cittadini, indubbiamente col valore aggiunto della fede: tutt’altro che secondario, ma assolutamente non autorizzato a diventare fattore di discriminazione. Per chi si riconosce nella fede cristiana, credo che sia il Vangelo stesso a chiamare a libertà. Gesù non chiude le porte nei confronti degli altri, chiunque sia stato l’altro che ha incontrato, a cui è andato incontro, o che ha accolto. Le parole, i discorsi, i miracoli e gli incontri di Gesù sono aperture, e mai chiusure. Attualizzando il Vangelo oggi, credo che esso chieda, e si aspetti da me, un atteggiamento di libertà nei confronti degli altri. Questa è la sfida che mi appassiona: scoprire cosa voglia dire oggi per un cristiano, per un discepolo del Cristo, essere coerente col Vangelo; oggi, in Italia nel 2016. Tra ricordo, memoria e libertà.

(pubblicato su Confronti di febbraio 2016)

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