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Tornino i volti

by redazione

di Luca Di Sciullo (Centro studi e ricerche Idos)

Grazie al primo corridoio umanitario promosso dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia e Sant’Egidio, centinaia di profughi hanno trovato accoglienza nel nostro paese.

I volti, finalmente. Quelli di una giovane mamma siriana e della sua bambina bisognosa di cure, atterrate a Fiumicino lo scorso 4 febbraio grazie al primo “corridoio umanitario” promosso in Italia dalla Federazione delle Chiese evangeliche e dalla Comunità di Sant’Egidio, con il sostegno, tra l’altro, dell’Otto per mille della Chiesa valdese, riservato a mille profughi in condizioni di vulnerabilità che si trovino in stati limitrofi a quelli di guerra, persecuzione, morte.

I volti, finalmente. Una carne e un incarnato. Tratti umani in cui cercarsi e possibilmente ritrovarsi, riconoscersi. Distinguersi, anche. Prendere le distanze, perfino. Distanze umane, però. È davvero troppo poco, una moneta uguale smerciata ai suoi quattro angoli, per fare identità. Nella sua effige avveniristica impressa su un soldo (un logo stellato, che più che mai evoca lontananze siderali, vuoti cosmici irraggiungibili), l’Europa cartolarizza il suo debito di identità. Svende se stessa, polverizzandosi. E paga così, dietro un’effige volutamente impersonale, il lavoro sporco (tre miliardi di euro) a chi (la Turchia, ndr) ha dato buona prova di spregiudicatezza per proteggere dalle nuove invasioni post-moderne la fragile bolla d’ossigeno in cui il (sempre più) vecchio continente boccheggia. Le sue “radici” seccano al sole artificiale, telematico, dei mercati finanziari. Alla dura legge della ripresa a tutti i costi, dei differenziali di rendimento, dell’austerity sì e no. Non capisce più chi sia, cosa sia. Perché non sa più, in fondo, dove sia.

Le sue frontiere, le linee che ne tracciano il profilo, che ne disegnano il volto – i con-fini insomma: quei limiti che condivide, letteralmente, con il mondo “terzo”, il concorrente della porta accanto – sono sempre più liquidi. Ma di una liquidità inversa: si ergono, solidi e gelidi come il ghiaccio, non appena il “contesto” si fa caldo, rovente. Come in estate, tempo di traversate, di barche in mare, di immersioni subacquee… e si sciolgono, fino ad appiattirsi, quando tutto si raffredda. Dublino d’estate, Schengen d’inverno. Nel mezzo: il malinconico autunno comunitario. Muraglie o distese (di sabbia o di mare): spinate o spianate. Comunque non-luoghi. Mai soglie. Morirvi significa accettare, oltre al tragico destino, l’insulto beffardo che sempre accompagna l’abitare un non-luogo: l’anonimato, la cancellazione del volto, la riduzione a cifra (prerogativa di ogni “campo” di emarginazione che la storia attesta: profughi, rom, di concentramento…). Si vive, dicono, in società complesse. Una complessità che interpola, all’interno dei rapporti intersoggettivi, una serie di mediazioni oggettive che si moltiplicano esponenzialmente con l’estendersi dell’orizzonte sociale di riferimento. Agenzie, servizi, enti “di collegamento” che intervengono a “regolare” l’incontro e la relazione a tutti i livelli: tra datore di lavoro e lavoratore, tra acquirente e venditore, tra cliente e fornitore, tra risparmiatore e investitore, tra colleghi di “categoria”, tra coinquilini. E persino tra (possibili) partner sentimentali. La continua differenziazione di queste strutture, tanto più astratte e distanti quanto più operano a livelli ulteriori di mediazione (“società di società”, “servizi di servizi”, ecc.) e in forma sempre più impalpabile (“in remoto”, online, on cloud; con sempre meno sedi “materiali” o sportelli “fisici”), non solo rende i rapporti umani tanto più indiretti e impersonali, ma anche sempre più condizionati da una rappresentazione dell’altro standardizzata, precostituita. Questa complessità ha fatto dell’assenza una forma parossistica della presenza: così, l’assenza è un assedio. L’orizzonte sociale, quello che ci dà identità, diventa tanto più inafferrabile quanto più si fa pervasivo nella spessa schermatura di infrastrutture sempre più sfuggenti, dove il “faccia a faccia” è rimandato a un altrove inimmaginabile di cui il monitor (di computer, tablet, pc, televisori onnipresenti) costituisce il nuovo fantasmagorico velo di Maia. Tornino i volti, finalmente. Quelli della piccola Falak, di sua madre Yasmine, di papà e fratellino. All’aeroporto di Fiumicino, il 4 febbraio scorso.

 

(pubblicato su Confronti di marzo 2016)

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