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L’odio non è un’opinione

by redazione

di Claudio Paravati

Parole d’odio, lo hate speech, non è più questione solo da bar. Dal 21 marzo, con lo slogan «Silence hate – Changing words changes the world» e l’hashtag #silencehate, ha preso il via la campagna europea contro l’hate speech on line. Di che si tratta? Delle parole d’odio che costellano la rete internet, sui social network, nei blog, nei commenti agli articoli, nelle condivisioni di testi, foto o altro. Parole che ci raggiungono quotidianamente perché “socializzate” nella rete, dove incontriamo, talvolta quasi assuefatti, xenofobia, islamofobia, discorsi antisemiti e rigurgiti razzisti. Le vittime? Chiunque. Adolescenti a scuola vittime di “cyberbullismo”, personaggi pubblici, e poi, tristemente ancora una volta, chiunque sia minoranza, o “diverso”, o “altro”.

La ricerca “L’odio non è un’opinione. Hate speech, giornalismo e migrazioni”, promossa dall’associazione Cospe, ha messo in luce proprio queste dinamiche, dopo aver monitorato testate giornalistiche, blog, siti. Nel 2015, anno in cui le testate giornalistiche europee hanno dovuto affrontare lo scenario delle crisi umanitarie in corso, le espressioni razziste online sono cresciute, secondo la ricerca. L’Unar – Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali, nel 2014 ha registrato 347 casi di espressioni razziste sui social (Facebook, Twitter etc.), di cui 185 su Facebook e le altre su Twitter e Youtube. A queste se ne aggiungono altre 326, per un totale di 700 episodi di intolleranza. Si tratta, è facile immaginarlo, di dati molto lontani dalla reale grande massa di parole quotidiane. Un fenomeno impossibile da monitorare e intercettare in tutta la sua portata.

Chi fa delle parole la propria professione è chiamato in prima persona a interrogarsi. Qualche risposta c’è stata: «È responsabilità etica dei media cancellare i messaggi razzisti, discriminatori, che incitano alla violenza o irrispettosi della dignità delle persone e “bannare” i loro autori», ha dichiarato la Federazione europea dei giornalisti, rifacendosi alla campagna #nohatespeech (no ai discorsi d’odio) dell’Associazione Carta di Roma (http://www.cartadiroma.org/). Fare oggi giornalismo e più in generale prendere la parola nei luoghi “pubblici”, o “sociali”, ci mette di fronte al dovere di usar bene le parole. Certo, l’etica della comunicazione è il fondamento della professione. Ma ora, di fronte alla rivoluzione digitale, che entra nelle vite di tutti noi, senza parlare di quelle delle generazioni digitali (gli adolescenti di oggi), serve anche un nuovo sapere. Se «il medium è il messaggio», non si può e non si deve sottovalutare che ogni parola d’odio ha ricadute politiche, talvolta biopolitiche, su uomini e donne. Su questo piano non ci è permesso di distrarci neanche per un secondo, neanche per un “tweet”.

 

(pubblicato su Confronti di aprile 2016)

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