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Iran: la sfida delle riforme e delle sanzioni

by redazione

di Mostafa El Ayoubi (caporedattore Confronti)

A fine dicembre i cittadini iraniani erano scesi in piazza per protestare contro il carovita e la politica di austerità del Governo Rohani, ma la protesta è degenerata in violenza e la reazione delle forze dell’ordine non si è fatta attendere. Il bilancio è di centinaia di arresti e decine di morti, compresi alcuni poliziotti.

 

L’Iran è stato per diversi giorni, a partire dal 28 dicembre scorso, sotto i riflettori dei media per via delle manifestazioni di piazza che hanno coinvolto diverse città del Paese, tranne Teheran che è stata partecipe solo marginalmente. Inizialmente i motivi delle proteste erano legati alle condizioni di vita dei cittadini, scesi in campo per contestare la politica di austerità dell’attuale Governo di Hassan Rohani, che ha portato al progressivo aumento dei prezzi dei prodotti di prima necessità. A simbolizzare il malcontento è stato il rincaro delle uova. Inoltre i manifestanti hanno scandito slogan contro gli istituti di credito privati, alcuni dei quali avevano dilapidato i soldi dei piccoli risparmiatori.

Ma, subito dopo i primi raduni, queste manifestazioni si sono trasformate in scontri con le forze dell’ordine a causa di atti di vandalismo contro proprietà pubbliche e private e di violenza contro la polizia che ha reagito, per stanare i manifestanti facinorosi, con altrettanta violenza. Ciò ha provocato decine di morti tra cui alcuni poliziotti e l’arresto di centinaia di persone.

In questa fase gli slogan dei manifestanti erano contro l’intero establishment iraniano, ivi compreso il guardiano della rivoluzione islamica, Ali Khamenei, e l’intero regime teocratico degli ayatollah. E la singolarità di queste proteste violente è il fatto che gran parte di esse avvenivano di notte e i protagonisti erano in maggioranza giovani maschi.

Il premier Rohani aveva subito riconosciuto la legittimità delle proteste pacifiche e le difficoltà economiche delle classi meno abbienti colpite dal taglio delle sovvenzioni ai prodotti alimentari e agli idrocarburi. Ma ha condannato quella parte violenta considerandola fuorilegge.

Con il suo arrivo al potere nel 2013, Rohani – che fa parte del clan “riformista” aperto al dialogo con l’Occidente, in contrapposizione a quello “conservatore” di cui fa parte l’ex presidente Ahmadinejad – ha messo in atto una politica economica liberista con diverse iniziative di liberalizzazione e di tagli alla spesa pubblica. Il Fondo monetario internazionale, che predilige e spesso impone questo tipo di politica economica, ha elogiato il Governo iraniano per i risultati ottenuti. Negli ultimi tre anni la crescita del Pil si aggira intorno al 6% e il rapporto debito/Pil è contenuto al 34%.

Ma questa politica di austerità ha provocato molti danni in termini di welfare sociale: tasso di disoccupazione complessivo intorno al 12% e quello giovanile al 30%; tagli drastici alle sovvenzioni passati dal 27% del Pil nel 2008 al 3,4% nel 2016; secondo un rapporto della Banca mondiale; ciò ha portato ad un notevole rialzo de prezzi dei prodotti di prima necessità e dei combustibili, mettendo in grande difficoltà la classe dei lavoratori che alla fine aveva deciso di manifestare pacificamente e legittimamente per chiedere provvedimenti urgenti al riguardo.

Ma tafferugli provocati da gruppi estranei alla gente che rivendicava i propri diritti sacrosanti ha minato la genuinità delle proteste, che cominciavano così ad assomigliare sempre di più a quella sommossa popolare del 2009, il cui obiettivo era quello di provocare un cambio di regime in Iran. Memori del caos che essa provocò, centinaia di migliaia di iraniani, uomini e donne, hanno sfilato per le strade delle più importanti città del Paese a sostegno dell’establishment e della Repubblica islamica, chiedendo delle riforme ma condannando la piega che hanno preso le recenti manifestazioni e denunciando il tentativo orchestrato dall’estero di destabilizzazione del Paese.

Nel giugno 2009, in occasione delle elezioni presidenziali che riconfermavano Ahmadinejad per un secondo mandato, scoppiò una rivolta a Teheran – guidata da giovani della classe borghese – battezzata dai media occidentali e da molte organizzazioni internazionali con il nome di “rivoluzione verde”. Lo scopo di quell’evento fu di provocare la caduta del regime e «l’instaurazione della democrazia» auspicata dalle grandi potenze occidentali, Stati Uniti in primis, che sostennero – mediaticamente, diplomaticamente e anche finanziariamente – i gruppi di opposizione al regime teocratico al potere. Lo schema di quella rivolta fu lo stesso di quello utilizzato precedentemente in altri Paesi: la “rivoluzione delle rose” in Georgia nel 2003, quella “arancione” in Ucraina nel 2004, quella dei “tulipani” in Kirghizistan nel 2005 e anche la “rivoluzione dei cedri” in Libano sempre nel 2005. Sono sostanzialmente dei colpi di Stato soft contro i governi che non ruotano nell’orbita d’influenza Usa. In effetti i primi tre Paesi sopra indicati, in seguito a quelle “rivoluzioni”, sono passati dal clan russo a quello americano. Di norma sono le Ong umanitarie, come la Ned e la Usaid, finanziate dell’establishment americano, i media mainstream e i social network a fungere da cavallo di Troia per rovesciare i governi “nemici”.

Nel 2009 tale operazione non ebbe successo in Iran. Ahmadinejad fu riconfermato per altri quattro anni a capo del Governo. I 30 anni di embargo e sanzioni economiche e otto anni di guerra per procura (1980-1988) affidata da Washington a Saddam Hussein non fecero altro che rafforzare il nazionalismo iraniano, sia laico che religioso.

Durante la recente crisi politica Rohani aveva accusato gli Usa, l’Arabia Saudita e Israele di fomentare direttamente o indirettamente quella parte violenta delle proteste con l’intento di destabilizzare il suo Paese. La troika da egli indicata è in effetti in un intenso conflitto geopolitico con l’Iran sin dal 1979, anno dell’instaurazione della Repubblica islamica, per il timore che questo Paese diventasse un’influente potenza regionale, quindi potesse compromettere i suoi interessi nel Medio Oriente.

 

Usa, Arabia Saudita e Israele versus Iran

Il presidente americano aveva in effetti accusato il Governo iraniano di «violazione dei diritti umani», dichiarandosi vicino al popolo iraniano. Ma nello stesso tempo ha usato le recenti manifestazioni come pretesto per ventilare possibili nuove sanzioni economiche contro Teheran. E ciò rappresenta una grande contraddizione: come ben si sa, le sanzioni portano regolarmente ad impoverire la popolazione e non l’establishment del Paese “sanzionato”; e l’Iran è sotto embargo economico imposto dagli Usa da circa 39 anni. Ciò stride palesemente con le dichiarazioni del presidente Usa circa la sua solidarietà con gli iraniani, intesi come popolo. Inoltre se Trump si considera un filantropo nei confronti degli iraniani e auspica la loro libertà, perché li ha messi nella lista nera – con il pretesto della prevenzione contro il terrorismo – dei cittadini di sei Paesi a maggioranza musulmana? Vi sono tanti cittadini iraniani che non si sentono liberi a casa propria!

L’attuale inquilino della Casa Bianca considera l’Iran il principale sponsor del terrorismo: «L’Iran è lo stato che più di tutti al mondo sponsorizza il terrore, con numerose violazioni dei diritti umani», ha scritto in un tweet il 31 dicembre scorso. E ciò nonostante il parere di molti ex agenti della Cia e della National Security Agency i quali, in una recente lettera aperta al presidente, hanno affermato che i maggiori sostenitori dei gruppi jihadisti armati nel mondo sono i sauditi, ricordandogli che 15 dei 19 terroristi dell’11 settembre provenivano dall’Arabia Saudita, grande alleato degli Usa (“Is Iran the World’s Leading Sponsor of Terrorism?”, Consortiumnews, 21 dicembre 2017).

Gli al Saud, sin dalla caduta dello scià Mohammad Reza Pahlavi nel 1979 e l’instaurazione della Repubblica islamica iraniana sciita, tramano contro il regime degli ayatollah, considerato una minaccia per il proprio regno. I sauditi furono tra i finanziatori della Guerra dell’Iraq contro l’Iran negli anni Ottanta.

Durante le recenti manifestazioni in Iran, i media e l’establishment sauditi hanno accusato il Governo e la guardia rivoluzionaria di questo Paese di compiere atti di oppressione del proprio popolo e di violazione dei diritti umani. E anche di finanziare il terrorismo internazionale. Da quale pulpito viene la predica! Per l’Arabia Saudita brucia ancora la vittoria recente dell’Iran in Siria – come anche la propria disavventura nella guerra nello Yemen contro il movimento sciita degli Houthi alleato di Teheran – e la sua conferma come potenza regionale, che sta mettendo in questione gli interessi geopolitici del regno saudita nel mondo arabo: Teheran esercita una sua influenza politica su Damasco, Baghdad, Sana’a e Beirut. E ciò ha costretto Riyad a rafforzare ancora di più il suo legame con Washington e a stringere alleanze strategiche con Tel Aviv, anche se nella storia passata non è mai corso buon sangue tra l’Arabia Saudita e Israele. Ma vale sempre la massima secondo cui «il nemico del mio nemico è mio amico».

Di fatto, di questa alleanza ne ha un forte bisogno anche Israele, che considera l’Iran una minaccia per la sua sicurezza e lo accusa di sostenere i movimenti terroristi. Per l’Establishment israeliano questi gruppi sostanzialmente sono Hamas e Hezbollah. È vero che l’Iran sostiene e arma sia Hamas che Hezbollah, ma è altrettanto vero che questi due movimenti non sono considerati terroristi dai palestinesi e dai libanesi: il primo è considerato dai palestinesi come un movimento di resistenza contro l’occupazione israeliana, il secondo un movimento politico che fa parte dell’attuale Governo libanese e del Parlamento e il cui braccio armato si coordina con l’esercito regolare per la sicurezza del Libano ed è stato determinante nella lotta contro il terrorismo di Daesh e altri surrogati di al Qaeda.

Il problema che il Governo israeliano attuale – come i precedenti – ha con Hezbollah deriva dalla stretta alleanza di quest’ultimo con l’Iran, considerato la vera minaccia per Israele. Il Mossad è impegnato da decenni in campagne di destabilizzazione e indebolimento dell’Iran. Come è ormai noto, ha collaborato con cellule terroristiche del Khalq nelle operazioni di assassinio di scienziati iraniani per ostacolare il programma nucleare iraniano. Il primo ministro israeliano Netanyahu – che ha pubblicamente rivolto al popolo iraniano l’invito a ribellarsi contro il regime iraniano durante le proteste di questo inizio anno – critica fortemente da sempre l’accordo sul nucleare siglato nel luglio 2015. E oggi si trova in perfetta sintonia con Trump che vuole mettere in discussione lo stesso accordo.

All’interno di questo quadro complesso, l’Europa sembra aver intrapreso una via politica lungimirante. I principali Paesi dell’Unione europea difendono il trattato sul nucleare con l’Iran. E riguardo alle manifestazioni in piazza il presidente francese Macron ha dichiarato che si tratta di un problema interno a quel Paese, come ha anche confermato Federica Mogherini, responsabile degli affari esteri dell’Unione europea.

L’Iran necessita certamente di riforme politiche in termini di libertà di espressione, di coscienza e di diritti umani. La pena di morte in questo paese rappresenta uno dei principali nodi da risolvere. Ma senza un’apertura geopolitica seria dell’Occidente nei confronti degli iraniani, fuori dalla logica del “regime change” e che riconosca all’Iran il suo importante ruolo politico nel Medio Oriente, questo paese tenderà sempre di più a chiudersi in se stesso rimandando le riforme alle calende greche.

(pubblicato su Confronti di febbraio 2018)

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