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Nella Verona del Congresso lo “scontro” è globale

by Asia Leofreddi

di Asia Leofreddi. Redazione Confronti.

 

Come sottolineato da molti osservatori, una delle caratteristiche del Congresso mondiale delle famiglie di Verona (World Congress of Families) è stato il suo essere oggetto di una protesta così larga. Fino a quest’anno, infatti, in nessun paese il Congresso era riuscito a spaccare così profondamente società e istituzioni politiche.
Il sostegno ricevuto da tre ministri del nostro governo, da deputati di alcuni partiti di destra, dal governatore regionale e dal sindaco della città, nonché la constatazione della saldatura tra organizzazioni pro-vita italiane, mondiali e alcuni governi europei populisti, ha spinto larga parte della nostra società civile a organizzarsi e a reagire, preoccupata davanti al pericolo di una deriva reazionaria in merito, soprattutto, ai diritti umani sessuali e riproduttivi.
A guidare la protesta è stato il gruppo veronese del movimento femminista “Non una di meno”, ma ad esso si sono unite numerose altre realtà grandi e piccole, legate in particolare alle lotte per i diritti delle donne e LGBTQI.
Oltre alla manifestazione che sabato 30 marzo ha inondato la città, portando in piazza migliaia di persone e seguita dai media di tutto il mondo, a Verona si sono susseguite giornate intense e poco mediatizzate che, come in un festival, hanno leopardizzato la città con incontri, assemblee, mostre, proiezioni cinematografiche e laboratori tutt’intorno a Piazza Bra.

Tuttavia, la contrapposizione avvenuta a Verona non è stata un affare nazionale, ma la riproduzione contestuale di uno scontro da tempo attivo a livello internazionale. Già definita un “laboratorio politico per le destre nazionali”, in virtù dei suoi innesti tra istituzioni, destra da strada e integralisti cattolici, Verona lo è diventata anche per la battaglia transnazionale sui diritti sessuali e di genere in cui, da anni, sono coinvolti diversi gruppi, movimenti e Organizzazioni non governative (Ong) europee e mondiali.
Dalla metà degli anni Novanta, infatti, quando le due conferenze Onu del Cairo e di Pechino aprirono a un’interpretazione più liberale dei diritti umani, il Vaticano e alcune Ong cristiane di varie denominazioni iniziarono a dare una struttura più coerente alla loro opposizione al liberalismo individualista occidentale, entrando così a pieno titolo nel dibattito globale.

Da quel momento si organizzarono in reti transnazionali e globali, definirono le loro visioni su donne, genere e famiglia e iniziarono a inquadrarle utilizzando il linguaggio dei diritti umani.

Nello stesso tempo, come ci spiega David Paternotte – professore associato di sociologia all’Université Libre di Bruxelles e autore, insieme a Roman Kuhar, del libro Anti-gender Campaigns in Europe: Mobilising Against Equality – lo svilupparsi progressivo di un’opposizione “tradizionalista” credibile, soprattutto in Europa, spinse anche le reti progressiste ad approfondire molte delle loro battaglie e a investire un maggior numero di energie, tempo e risorse economiche per contrastare questi gruppi, creando una sorta di dinamica relazionale tra movimenti; una vera e propria novità.

Molto si è parlato dell’internazionalizzazione delle reti politiche ultra conservatrici italiane e della trasformazione della strategia discorsiva delle organizzazioni pro-vita e pro-famiglia europee e mondiali. Poco, invece, si è riflettuto sull’impatto che il Congresso ha avuto sui movimenti di protesta nazionali i quali, per rispondere a quest’evento, sono stati spinti a lavorare sulle loro identità politiche, sulla ricerca di nuovi linguaggi e nuove alleanze.
Già a partire dall’anno scorso Non Una di Meno Verona aveva dovuto confrontarsi con alcuni dei temi e dei personaggi che hanno caratterizzato l’edizione italiana del World congress of families e, per farlo, aveva intensificato la sua attività assembleare, coinvolgendo anche altre realtà locali attive sugli stessi temi.
Ad ottobre, il consigliere leghista Alberto Zelger aveva presentato la mozione anti aborto 434, approvata con 21 voti favorevoli e 6 contrari, scatenando la protesta di alcune attiviste che, vestite da ancelle – come le protagoniste del racconto di Margaret Atwood – si erano presentate in consiglio comunale per assistere alla seduta. Sulla stessa onda, il 26 novembre, giorno in cui a Roma aveva luogo la manifestazione nazionale contro la violenza maschile sulle donne, a Verona Forza Nuova dichiarava la città “Vandea d’Europa”.
Tuttavia, prima della notizia dell’arrivo del Congresso in Italia, anche se iniziava a delinearsi quella che Emanuele Del Medico ha definito una “veronesizzazione” della politica italiana, ai movimenti nazionali non era chiara la dimensione transnazionale né del dibattito, né delle reti politiche che attorno ad esso si erano costruite. Non era chiaro, insomma, che quel modello veronese potesse diventare anche un modello europeo e globale. In risposta a questo cambio di prospettiva, movimenti e associazioni fino al giorno prima concentrati sull’azione territoriale si sono agganciati a realtà internazionali da tempo coinvolte nelle battaglie sui diritti umani, delle donne e LGBTQI.

Un attivista europeo ci spiega: «Quello che è accaduto a Verona è interessante perché ha messo insieme Ong internazionali ed europee, organizzazioni nazionali e locali, le quali si sono unite per dire: “Dobbiamo fare qualcosa, assicurarci che queste persone non s’incontreranno pacificamente, senza alcun disturbo e senza nessuno che controlli quello che stanno dicendo”».
Nell’ultima settimana di marzo a Verona sono arrivate centinaia di ricercatrici e ricercatori, attiviste e attivisti provenienti da varie parti d’Europa e del mondo. Alcuni hanno partecipato come osservatori silenziosi, altri sono intervenuti personalmente alle iniziative cittadine, permettendo di creare collegamenti tra gli avvenimenti italiani e internazionali e di confrontarsi sulle strategie di opposizione sperimentate nei diversi paesi.

Se per i movimenti italiani, infatti, il contesto politico aperto dal Congresso mondiale delle famiglie era nuovo, la maggior parte degli attivisti presenti avevano già fatto esperienza degli effetti nazionali che potevano avere reti ultra conservatrici come quelle giunte a Verona e già da diversi anni avevano dovuto organizzarsi per rispondere alle loro influenze locali. Nel 2013, in Croazia, un referendum costituzionale, promosso dal gruppo ultraconservatore O ime obitelij (In nome della famiglia), sanciva il divieto di sposarsi per gli omosessuali; nel 2014, in Spagna, il Parlamento approvò una legge che rendeva l’aborto un reato, per poi revocarla grazie alla forza delle proteste di piazza; nel 2016, in Polonia, Ordo Iuris proponeva il divieto d’aborto e la pena carceraria per le donne, portando in strada centinaia di migliaia di persone; in Uganda, dal 2012, l’omosessualità è un crimine per cui il “recidivo” rischia l’ergastolo.

Mentre alla Gran Guardia veronese si discuteva di famiglia “naturale”, crisi demografica e utero in affitto, tutt’intorno nella città si affrontavano dibattiti speculari in un processo in cui, oltre a smascherare le reali intenzioni del Congresso – perché come ha spiegato un’attivista polacca di Women Strike: «Spesso quello che fanno è dividere ciò che dicono in pubblico da quello che dicono in privato» –, si cercavano di fondare i presupposti di una diversa mobilitazione “progressista”, partendo soprattutto dall’elaborazione di un nuovo quadro concettuale.
Il 29 marzo, nell’aula civica Elisabetta Lodi, Eva von Redecker diceva: «Possiamo vincere portando avanti non una diversa idea di famiglia ma una diversa analisi della società e una diversa visione politica». Al contro-convegno di sabato 30 marzo, – Verona laica, Verona libera, organizzato dall’Uaar, da Rebel Network e dall’Ong internazionale Ippf – Marina Skrabalo, attivista croata di Solidarna ringraziava il Congresso «per aver cambiato il nostro modo di mobilitarci» e affermava: «Le politiche progressiste devono essere proattive, consapevoli e connesse. Dobbiamo riappropriarci della tradizione della famiglia e della sicurezza». E sempre nella stessa aula, Gilian Kane, americana di Ipas esortava: «Dobbiamo continuare a fare quello che facciamo, a sostenere i meccanismi globali su cui ci poggiamo. Dobbiamo raggiungere le famiglie e difendere la democrazia».

Tuttavia, anche il Congresso mondiale delle famiglie, per la prima volta, ha dovuto fare i conti con un contesto ostile e, sempre secondo la logica della dinamica relazionale tra movimenti, anch’esso ha cambiato parte della sua liturgia per reagire ai suoi oppositori. Anche se, come detto da Neil Datta – ricercatore dello European Parliamentary Forum on Population and Development – nell’intervista a Internazionale del 27 marzo 2019: «Hanno organizzato il Congresso nella città che si è autoproclamata città per la vita e hanno il sostegno del governo, sembrerebbe che siano in cerca di credibilità». Questa visibilità ha portato dei rischi, costringendo i congressisti a un cambio di strategia organizzativa, tra cui l’innalzamento dei livelli di sicurezza e di militarizzazione del Congresso.
Tuttavia, i giornalisti chiusi in una stanza separata, le disposizioni per i relatori al no comment, il respingimento di Forza Nuova sulla soglia della Gran Guardia, se da una parte hanno tutelato il programma del Congresso, dall’altra hanno reso visibile quello che doveva restare segreto: il doppio livello pubblico/privato su cui si gioca la strategia ultra-conservatrice.

La stessa che costringe i “tradizionalisti” a tradurre le proprie istanze in un linguaggio positivo, riconoscendone la natura “estremista”, e ad appropriarsi di concetti tipici del discorso progressista per rendere più credibile la propria identità sociale e politica.

Nello stesso tempo, la protesta è stata anche l’occasione per insistere su alcune rappresentazioni sociali portate avanti dal Congresso, a cui il contesto veronese ha offerto (a loro avviso) prove concrete.  Le migliaia di persone in piazza e l’attenzione, spesso ostile, di molte testate e televisioni, hanno permesso ai congressisti di enfatizzare il loro ruolo di minoranza in un mondo governato da forze liberali promotrici di una “società dell’indistinto” (cit. Matteo Salvini) e di rilanciare concetti come quello di “cristianofobia” per rappresentare la discriminazione contro i religiosi operata dal laicismo integralista occidentale.

Da Verona si torna sempre più convinti della necessità e dell’appropriatezza di una risposta larga al Congresso delle famiglie. Svelando biografie, precedenti storici, connessioni politiche e finanziarie si è capito infatti che solo una società civile vigile e determinata può evitare il rischio di una retrocessione in materia di diritti la quale, nonostante le conquiste ottenute, è sempre possibile. È stato infatti grazie alla nostra società civile che Salvini è stato costretto a dire, in un contesto come quello veronese: «La 194 non si tocca». Un’affermazione che, anche se soggetta a quella dinamica pubblico/ privato di cui prima, dimostra chiaramente che un consenso su quel tipo di orizzonte sociale è ancora lontano a formarsi.
Tuttavia, come già detto da Kristina Stoeckl nell’intervista pubblicata su Confronti (n.1/2019), bisogna impegnarsi per evitare il rischio di una polarizzazione sociale. Nonostante, infatti, la risposta italiana ed europea al Congresso sia stata impressionante per forza e civiltà, troppe volte si sono sentite le parole “battaglia”, “tattica” e “nemici”, lasciando intravedere una guerra di posizionamento ideologica che rischia di spingere anche i movimenti progressisti verso il desiderio di una realizzazione integralista delle proprie istanze, senza lasciare spazio alle differenze interstiziali.
Bisogna invece costruire strategie discorsive e visioni sociali capaci d’integrare chi, pur condividendo l’orizzonte democratico e pluralista del progressismo europeo, ancora si riconosce nella famiglia “tradizionale”, i religiosi progressisti e chi ancora nutre dubbi verso nuove pratiche come l’utero in affitto. E bisogna farlo non solo per principi di ordine etico, ma anche per vincere questa “battaglia”, senza rischiare di creare noi stessi nuove minoranze, che verrebbero facilmente spinte nelle braccia di un pensiero reazionario e pericoloso.

 

[pubblicato su Confronti 05/2019]

 

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