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Senza futuro

by Stefano Allievi

di Stefano Allievi. Sociologo, Professore di Sociologia presso l’Università degli studi di Padova.

Nella scorsa puntata di questa rubrica abbiamo concentrato la nostra attenzione sui processi in atto di presentificazione degli orizzonti, che sempre più spesso ci portano a vivere, nei fatti, schiacciati sul presente, senza passato, senza memoria. Ma processi analoghi e speculari stanno avvenendo anche rispetto alla dimensione opposta del tempo: stiamo perdendo anche il futuro.

La perdita del futuro avviene in nome e a seguito della stessa logica di contemporaneizzazione: perché viviamo – o crediamo di vivere – “in tempo reale” (come se passato e futuro fossero irreali; e come se il nostro presente, così spesso virtuale, reale lo fosse davvero…).

Il futuro lo stiamo perdendo per ragioni strutturali: a differenza di quanto accaduto fino a tempi recenti, le generazioni più giovani – almeno nel vecchio Occidente – hanno meno prospettive di miglioramento (quantitativo: di reddito, ad esempio) di quelle che le hanno precedute. Non credono in nessun automatico sviluppo lineare e ascensionale (come la classica linea di un grafico che misura la crescita): a ragione, e forse anche a torto – perché hanno meno garanzie di crescita salariale dei loro genitori (e, anzi, stanno vivendo un evidentissimo processo di impoverimento, di
contrazione delle risorse a disposizione e delle prospettive di acquisirne, di precarizzazione, di incertezza sul futuro o di quasi certezza di non averne uno, ad esempio sul piano previdenziale) ma, comunque, saranno più istruiti, più tecnologizzati e più longevi di qualunque altra generazione precedente (dunque, qualitativamente, nonostante tutto potrebbero anche stare meglio).

Solo che non c’è alcuna certezza che questo accada: le potenzialità (tecnologiche ma anche sociali) ci sarebbero; tuttavia lo spreco attuale di risorse, i livelli di inquinamento, il cambiamento climatico – a causa delle tendenze economiche dominanti e delle politiche che, invece di guidarle, le assecondano – potrebbero rendere questo orizzonte potenziale impossibile. Non a caso il più recente movimento ambientalista fa riferimento precisamente alla necessità di agire nel presente, nell’oggi, addirittura in un giorno preciso (#fridaysforfuture) per garantirselo, un futuro, che altrimenti è a rischio.

Ci sono tuttavia anche ragioni individuali, interiori – che sommate diventano tendenze sociali – che giocano a favore della progressiva scomparsa del futuro. La principale è il desiderio di vedere soddisfatti i propri bisogni e i propri desideri subito, e non procrastinati a un domani non meglio identificato: ciò che spiega la perdita di attrattiva delle “grandi narrazioni”, dalle ideologie alle religioni, che il loro orizzonte sia il socialismo realizzato o la Gerusalemme celeste, il benessere delle future generazioni o il premio post mortem.

Ma spiega anche il ciclo sempre più breve tanto dei prodotti di consumo e delle mode quanto dei partiti e dei leader politici (anche loro, dopotutto, prodotti di consumo), la minor durata delle relazioni nate come stabili e la maggior propensione alla loro rottura (e anche la perdita di drammaticità nel produrla), il crollo delle nascite (il principale investimento sul futuro che possiamo fare) e la caduta della propensione al risparmio (anche nonni e genitori, che prima risparmiavano per nipoti e figli, oggi tendono a consumare le proprie risorse in una vecchiaia più attenta al proprio personale benessere – i nonni – quando non devono fare i conti con una concretissima maggiore penuria – i genitori).

E probabilmente gioca un ruolo anche la nostra ansiosa necessità (o bisogno culturale) di essere sempre al corrente: cioè, letteralmente, di correre, faticosamente, dietro a un presente che si fa sempre più veloce e quindi irraggiungibile. Ciò che non ci consente la tranquillità mentale di guardare al futuro, o anche solo di pensarci e di organizzarlo: a differenza del camminare, che porta all’approfondimento e alla riflessione, correre è un’attività orientata più al dispendio di energie che al loro meditato risparmio.

E il fatto che diventi un’attività quotidiana (fattualmente e metaforicamente) ci dice forse sulla nostra società, sul suo rapporto con il tempo, più di quello che ci potremmo immaginare.

[pubblicato su Confronti 07-08/2019]

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