Mondo cattolico – o, almeno, una sua parte, quella parte che potremmo definire “conciliare” – spaccato sul voto da dare nel referendum sulle riforme costituzionali sul quale si voterà a ottobre, dato che anche la Camera (il 12 aprile) ha approvato definitivamente quanto già varato dal Senato. Il 21 marzo, infatti, è stato presentato a Roma un “Appello dei Cattolici del No” che invita appunto a respingere – nel referendum – le modifiche alla Costituzione caldamente invece sostenute dal governo Renzi. Il 18 aprile, poi, è stato reso noto un altro e ben diverso Appello, che critica nel merito il precedente e, invocando il rispetto della laicità, ribadisce il rifiuto di motivazioni religiose sia per votare NO che per votare SI’.
Pubblichiamo integralmente i due testi, con le firme che fin qui hanno raggiunto; e gli indirizzi email ai quali chi lo voglia può inviare la propria adesione.
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di Roberto Bertoni (giornalista free lance e autore di saggi, romanzi e poesie)
Anche se le sue probabilità di ottenere la nomination alla presidenza degli Stati Uniti nella convention democratica di luglio sono scarse, il “socialista” Bernie Sanders sta creando qualche difficoltà alla collaudata macchina elettorale di Hillary Clinton. Il ruolo chiave della generazione dei “Millennials”.
Probabilmente, al termine delle primarie democratiche, prevarrà Hillary Clinton: più rodata, più esperta della macchina del potere, sostenuta da tutti i pezzi da novanta del partito e capace di far breccia nel cuore di quelle minoranze nere e ispaniche verso cui da anni, fin dai tempi in cui era presidente suo marito Bill, manifesta un sincero interesse. Attenzione, tuttavia, a credere che quella dell’ex first lady ed ex segretario di Stato sarà una passeggiata, perché sul suo cammino ha incrociato un rivale su cui nessuno, all’inizio della competizione, avrebbe scommesso un soldo e che invece sta mettendo in seria difficoltà una donna tanto potente quanto emblematica di tutto ciò che gli americani non sopportano più.
di Simone Maghenzani (docente di Storia moderna, Università di Cambridge)
Il referendum del 23 giugno vedrà il Regno Unito decidere della propria adesione all’Unione europea: non un fatto nuovo nella storia britannica. Già nel 1975 il paese venne chiamato alle urne per approvare la partecipazione al mercato comune europeo, con un referendum indetto dal primo ministro laburista, Harold Wilson. Oggi come allora il dibattito non coinvolge i temi dell’identità europea delle isole britanniche, o il ruolo di Londra sullo scacchiere internazionale. Se nel 1975 la decolonizzazione era fatto ancora recente, e si poteva pensare al Regno Unito come punto originale di intersezione tra la tradizionale “relazione speciale” anglo-americana, il Commonwealth, e l’Europa, oggi l’eredità dell’impero è lontana, e partner commerciali nuovi sono al centro della scena. Tuttavia, le due consultazioni sono assai simili. Se nel 1975 il referendum aveva l’obiettivo di tenere insieme il partito laburista, con una sinistra interna preoccupata che le decisioni di politica industriale sarebbero state prese a Bruxelles e non più a Westminster (tra gli oppositori di allora all’adesione al mercato comune, l’attuale leader del Labour, Jeremy Corbyn), oggi il referendum non ha altra ambizione che quella di David Cameron di mantenere l’unità del partito conservatore.
di Maria Paola Nanni
(Centro studi e ricerche Idos)
Le contraddizioni e le inefficienze del meccanismo previsto dal Regolamento Dublino. Le norme dell’Ue in materia di diritto d’asilo sono del tutto inadeguate a fronteggiare la crisi in corso e a garantire accoglienza e tutela a chi fugge in cerca di protezione.
L’eccezionale afflusso di persone in fuga, in cerca di sicurezza e protezione, che preme ai confini dell’Unione europea e attraversa i suoi territori, lungo rotte continuamente ridefinite dagli stessi indirizzi di governo dei paesi interessati (sbarrate da reti metalliche e filo spinato e poi ri-avviate da passaggi che ora si aprono ora si chiudono, sulla falsariga dei delicati equilibri politici dell’eurozona), sta segnando un’epoca, la nostra. Ma di che segno si tratta?
Senza dubbio, siamo di fronte a uno scenario “inedito”, tanto in termini qualitativi che quantitativi, che chiama le istituzioni nazionali e comunitarie a una sfida che, però, si trascina ormai da anni, spostandosi nei suoi risvolti più drammatici da una frontiera all’altra, da un muro all’altro, da Lampedusa a Ventimiglia, da Lesbo a Idomeni. E questo senza che nel frattempo si siano sviluppate risposte adeguate ed efficaci, a partire dal piano normativo e dalla sua fondamentale funzione di regolazione.
di Luca Baratto (servizio stampa, radio e televisione della Federazione delle chiese evangeliche in Italia, curatore della trasmissione “Culto evangelico” di Radio Uno)
Tra la fine di febbraio e l’inizio di marzo si sono verificati tre eventi significativi per il rapporto tra le Chiese evangeliche italiane e la Chiesa cattolica romana. Vediamoli cronologicamente. Il 29 febbraio a Roma, gli esponenti delle Chiese che fanno riferimento alla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), sono stati invitati dai responsabili dell’Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso (Unedi) della Cei per discutere insieme di un convegno nazionale sul protestantesimo, che l’Unedi organizzerà il prossimo novembre a Trento, alla vigilia del Cinquecentenario della Riforma protestante. A molti dei partecipanti evangelici questo invito, sebbene in un contesto e con modalità diverse, ha ricordato i Convegni ecumenici nazionali organizzati in passato, anche con la Sacra arcidiocesi ortodossa d’Italia, e ormai dimenticati da anni.
di Antonio Sciotto (giornalista della redazione Economia e lavoro de “il manifesto”)
Non tutti lavorano meglio al tempo del Jobs act: se da un lato nel primo anno di applicazione della nuova legge si sono registrati nuovi contratti a tempo indeterminato e stabilizzazioni, come sottolinea il governo, dall’altro però si sono moltiplicate le occasioni di precarietà e impoverite le tutele. Un esempio per tutti: il boom dei voucher, una vera e propria esplosione, visto che dai 36 milioni del 2013 si è passati a 115 milioni nel 2015. Questo perché i buoni per il lavoro a chiamata – una sorta di ticket che retribuisce le singole prestazioni – sono stati liberalizzati e quindi trovano ormai le più svariate applicazioni, soprattutto nel terziario.
Le stesse assunzioni a tempo indeterminato – peraltro senza più l’articolo 18 come deterrente contro il licenziamento ingiustificato – sono state incentivate con sgravi molto generosi: 8000 euro per ogni neo-assunto nel 2015, che però scendono a poco più di 3mila per le imprese che attivano un contratto quest’anno. Molti analisti parlano di un “mercato drogato”: finiti gli incentivi (durano tre anni) si teme che potrebbe seguire una valanga di licenziamenti.
Nella mattinata del 22 marzo abbiamo appreso, sgomenti, la notizia dei tremendi attentati che all’aeroporto e nella metropolitana di Bruxelles hanno provocato oltre trenta vittime e duecentocinquanta feriti.
Senza poter addentrarci, ora, in un’analisi approfondita dei tragici eventi, vogliamo esprimere – insieme naturalmente al cordoglio per le vittime – la nostra totale condanna per la strategia della morte e del terrore portata nel cuore dell’Europa (nella capitale belga hanno sede, infatti, le massime istituzioni dell’Ue) da terroristi collegati con il cosiddetto Califfato dell’autoproclamatosi Stato islamico.
Dopo quanto è accaduto, ancora più determinato è il nostro impegno ad unirci a tutti coloro che si battono per contrastare il terrorismo e le sue radici, ovunque esso si manifesti, e chiunque lo promuova; per difendere la democrazia; per costruire un’Europa libera, solidale, giusta e accogliente; per vigilare contro ogni forma di discriminazione, razzismo e xenofobia.
Noi rappresentanti di movimenti, associazioni e gruppi del mondo della pace e della nonviolenza siamo preoccupati delle pressioni esercitate sul nostro governo perché assuma un ruolo guida nell’intervento militare in Libia a fianco di altre potenze occidentali. Il Presidente del Consiglio ha detto che “non è in programma una missione militare italiana in Libia”. Ne prendiamo atto. Ma i problemi restano: – il contrasto all’espansione del terrorismo del sedicente Stato islamico; – una minaccia alla sicurezza del nostro paese; – la stabilizzazione della nazione nordafricana. La guerra non è il mezzo adeguato per sconfiggere il terrorismo né tantomeno per portare stabilità alla Libia. Basterebbe guardare alla storia di questi ultimi anni per capire che gli interventi militari non hanno risolto i problemi, li hanno invece aggravati.
di Daniela Mazzarella
Roma, 29 febbraio: in una sala del terminal 5 dell’aeroporto di Fiumicino si respira un’aria di felicità. Commozione e gioia hanno accolto 24 famiglie siriane con visto per motivi umanitari; 93 persone, di cui 41 bambini, hanno potuto lasciare il campo profughi libanese di Tel Abbas e raggiungere l’Italia con un regolare volo di linea.
Tutto questo è il frutto di mesi di lavoro e del progetto pilota dei corridoi umanitari promosso dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia (Fcei), dalla Comunità di Sant’Egidio e dalla Tavola valdese, in accordo con i Ministeri degli Esteri e dell’Interno.
Si tratta di un progetto-pilota, il primo di questo genere in Europa, che ha come principali obiettivi quello di evitare i drammatici e rischiosi viaggi con i barconi nel Mediterraneo, quello di impedire lo sfruttamento dei trafficanti di uomini che fanno affari con chi fugge dalle guerre e quello di concedere a persone in “condizioni di vulnerabilità” (ad esempio, oltre a vittime di persecuzioni, torture e violenze, anche famiglie con bambini, anziani, malati, persone con disabilità) un ingresso legale sul territorio italiano
di Luca Di Sciullo (Centro studi e ricerche Idos)
Grazie al primo corridoio umanitario promosso dalla Federazione delle chiese evangeliche in Italia e Sant’Egidio, centinaia di profughi hanno trovato accoglienza nel nostro paese.
I volti, finalmente. Quelli di una giovane mamma siriana e della sua bambina bisognosa di cure, atterrate a Fiumicino lo scorso 4 febbraio grazie al primo “corridoio umanitario” promosso in Italia dalla Federazione delle Chiese evangeliche e dalla Comunità di Sant’Egidio, con il sostegno, tra l’altro, dell’Otto per mille della Chiesa valdese, riservato a mille profughi in condizioni di vulnerabilità che si trovino in stati limitrofi a quelli di guerra, persecuzione, morte.
I volti, finalmente. Una carne e un incarnato. Tratti umani in cui cercarsi e possibilmente ritrovarsi, riconoscersi. Distinguersi, anche. Prendere le distanze, perfino. Distanze umane, però. È davvero troppo poco, una moneta uguale smerciata ai suoi quattro angoli, per fare identità.