intervista a Joseph Tobji (a cura di Mostafa El Ayoubi)
Abbiamo intervistato l’arcivescovo di Aleppo per farci raccontare la drammatica situazione in cui vive la popolazione della città siriana, provata da anni di guerra e di privazioni, ma anche per analizzare le questioni geostrategiche sul tappeto e il ruolo giocato nella guerra dalle varie potenze e dai media.
Mostafa El Ayoubi
di Mostafa El Ayoubi
Le persone di fede musulmana che vivono in Europa fanno fatica a vedersi riconosciute come parte integrante del futuro del continente. Che siano in Europa da pochi anni o da più generazioni, vengono spesso avvertite – dal resto della popolazione, ma anche dalle stesse istituzioni – come un “corpo estraneo”.
intervista di Mostafa El Ayoubi ad Ibrahm Farhat (direttore generale della televisione libanese Al Manar)
Le complesse vicende politiche del Libano, un paese da sempre oggetto di ingerenze esterne. Il caso di un canale televisivo “scomodo”: la libanese Al Manar, come spiega il suo direttore in questa intervista, ha subito tentativi di oscuramento da parte di vari paesi.
Il Libano vive da diversi anni una crisi politica e sociale preoccupante. Ad oggi le varie fazioni politiche non riescono a mettersi d’accordo per l’elezione del presidente della Repubblica, il parlamento è paralizzato, l’economia è al tracollo e il terrorismo comincia a prendere piede anche in questo paese. In un’intervista esclusiva a noi di Confronti, il direttore generale della tv libanese “Al Manar”, Ibrahm Farhat, delinea le principali cause di questa impasse.
di Mostafa El Ayoubi
La Turchia è un Paese in concorrenza sia politico-militare sia religiosa con le altre potenze del Medio Oriente, in particolare Arabia Saudita e Iran. Con la prima, si trova in conflitto sulle questioni che riguardano un altro importante paese dell’area, l’Egitto: la Turchia sostiene i fratelli musulmani, defenestrati dal colpo di Stato del generale al-Sisi, mentre l’Arabia Saudita appoggia – anche economicamente – il governo dei militari. In Siria, invece, gli interessi della Turchia e dell’Arabia Saudita convergono. L’Iran resta comunque l’avversario più difficile.
La Turchia, per la sua storia e per la sua posizione geografica, è un attore politico di rilievo nello scacchiere geopolitico del mondo islamico, in quello arabo in particolare. Essa si contende oggi, con l’Arabia Saudita e l’Iran, il primato nella regione del Medio Oriente sia dal punto di vista politico-militare che da quello religioso.
Mostafa El Ayoubi
Il 30 giugno prossimo dovrebbe essere siglata l’intesa raggiunta ad aprile sul nucleare iraniano. La preoccupazione dei paesi arabi del Golfo, in particolare l’Arabia Saudita, e soprattutto la contrarietà assoluta di Israele, che vede l’Iran come una minaccia gravissima. Soddisfatto Obama, ma la maggioranza repubblicana del Congresso è contraria alla linea di apertura all’Iran. Le ragioni che hanno portato gli Stati Uniti a cambiare strategia e le importanti trasformazioni geopolitiche nella regione mediorientale.
L’accordo preliminare sul nucleare tra l’Iran e il gruppo 5+1 (i cinque membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu più la Germania), firmato a Losanna all’inizio di aprile, costituisce un nuovo elemento importante da tenere in considerazione nel complesso puzzle geopolitico del Levante e del Golfo. Salvo imprevisti, il 30 giugno prossimo verrà siglata l’intesa che metterà fine a più di trent’anni di sanzioni ed embarghi imposti dagli Usa e dall’Ue al governo di Teheran, con l’impegno di quest’ultimo di rinunciare alla produzione del nucleare per scopi militari, l’atomica in sostanza!
di Mostafa El Ayoubi
È ormai evidente – anche agli ottimisti più irriducibili – che le speranze suscitate in tutto il mondo dalle cosiddette primavere arabe sono rimaste del tutto disattese. Piuttosto, oggi assistiamo a una rigogliosa «primavera jihadista», che spiana la strada alla realizzazione del progetto statunitense di egemonia sul Medio Oriente.
Il mondo arabo continua a non trovare pace. Il linguaggio delle armi, con tutto ciò che comporta in termini di ingenti perdite di vite umane, di instabilità politica, sociale ed economica, è quello che la fa da padrone in Paesi come l’Iraq, la Siria e la Libia. La repressione è il sistema più consono ai regimi che «governano» Paesi come il Bahrein e l’Egitto. E lo Yemen – da tanti anni oggetto di operazioni militari americane mediante i droni, lontano dai riflettori dei media – versa oggi nel caos totale: dopo decenni di sottomissione al regime saudita, Sana’a è passata in mano ai ribelli houthi, sciiti, vicini all’Iran.
di Mostafa El Ayoubi
Improvvisamente il mondo ha scoperto il problema «Stato islamico» dell’Iraq, ma in realtà esso era già operativo in Siria dal 2013, quando ha occupato diverse aree del Paese. Quando i jihadisti combattono in Siria sono considerati dei combattenti per la libertà, mentre quando si espandono in Iraq sono considerati dei terroristi. E intanto i mezzi d’informazione contribuiscono ad incrementare il terrore tra l’opinione pubblica internazionale ma non aiutano a inquadrare meglio questo fenomeno.
Il macabro gesto di decapitazione dei tre giornalisti occidentali da parte dei jihadisti dell’Isis, questa estate, documentato da video postati nella rete, ha creato in seno alla comunità internazionale un forte senso di terrore e insicurezza.
A partire da giugno, e nel giro di pochi mesi, lo Stato islamico dell’Iraq e del levante, Isis (sigla inglese per indicare il movimento), rinominato in seguito Stato islamico, è diventato di punto in bianco una grande minaccia per il mondo intero.
L’approccio sensazionalista dei media al fenomeno Daesh – così viene chiamato in arabo questo gruppo jihadista – ha contribuito ad incrementare il terrore tra l’opinione pubblica internazionale.
di Mostafa El Ayoubi
Tunisia, Egitto, Libia, Siria, Iraq: con pochissime eccezioni, sia i paesi che hanno vissuto un periodo di rivolte a favore di una svolta in senso democratico sia quelli che non hanno vissuto un cambiamento di regime si trovano ad affrontare problemi vecchi e nuovi a cui è sempre più difficile trovare soluzione.
La grave crisi in cui sono sommersi diversi paesi arabi non sembra avere fine. Il deterioramento della situazione in Iraq, invaso di recente in modo massiccio dai jihadisti, ne è la prova. Dopo le cosiddette «primavere arabe», il vuoto politico lasciato dalle dittature deposte non si può di certo colmare in tempi brevi in mancanza di un terreno culturale in cui possano germogliare i valori della democrazia: i dittatori deposti avevano trasformato in deserti socio-culturali e politici i paesi che avevano «governato» per decenni. È lecito tuttavia interrogarsi sui passi fatti in avanti (o indietro) nel processo di cambiamento politico ispirato alla democrazia. Qual è oggi la situazione politica e sociale in Tunisia, il primo paese in cui i cittadini sono riusciti a cacciare via un dittatore? Come si presenta oggi il panorama politico in Egitto? Che ne è oggi della Libia post-Gheddafi? Ancora più impellenti sono gli interrogativi sulla situazione in Siria…
di Mostafa El Ayoubi
Quando il 3 luglio 2013 l’islamista Mohamed Morsi, eletto presidente dell’Egitto nel giugno 2012, è stato deposto per mano di Abdel Fattah al Sisi, capo delle forze armate, ministro della Difesa (e attuale vice primo ministro), non tutti gli osservatori erano d’accordo nel definire quell’operazione un colpo di stato militare. Secondo la narrazione ufficiale, la rimozione di Morsi è stata voluta da 30 milioni di egiziani scesi in piazza il 30 giugno 2013 e il Consiglio supremo delle forze armate (Csfa) è intervenuto in nome del popolo e della democrazia. In realtà è stato l’esercito a strumentalizzare la piazza per riprendere il potere che aveva ceduto per un anno agli islamisti. Infatti il generale al Sisi – che di fatto gestisce l’attuale fase di transizione – si è ufficialmente candidato nel marzo scorso, dopo aver lasciato il suo incarico di capo del Csfa, alle elezioni presidenziali del 26-27 maggio prossimo. E salvo clamorosi colpi di scena l’ex generale verrà incoronato a giugno come nuovo rais dell’Egitto. In questo paese, avere al vertice dello Stato un militare è una tradizione iniziata nel 1952, anno in cui l’esercito con un colpo di Stato strappò il potere al monarca Farouk.
di Mostafa El Ayoubi
Il Medio Oriente è una delle arene geopolitiche dove Usa e Russia si combattono per difendere o estendere ognuno i propri interessi. Anche l’attuale crisi ucraina contribuirà a complicare la situazione in questa martoriata regione del mondo.
L’attuale grave crisi diplomatica tra Washington e Mosca scoppiata intorno alla questione ucraina avrà delle conseguenze dirette sulla situazione geopolitica nel Medio Oriente. In particolare questo scontro si rifletterà sulla guerra in Siria, sul nucleare dell’Iran e anche sul conflitto israelo-palestinese. Quando tre anni fa è scoppiata la ribellione armata in Siria, gli Usa/Nato avevano calcolato che nel giro di pochi mesi al Assad sarebbe caduto, come è avvenuto per Gheddafi in Libia. Ma la reazione della Russia (e della sua alleata Cina) ha scombinato tali calcoli. Diversamente da quanto ha fatto nel caso della Libia, il Cremlino si è opposto fermamente all’intervento militare in Siria. La mossa di Mosca è stata ovviamente dettata dai suoi interessi geopolitici nel Medio Oriente. La destabilizzazione della Siria – messa in atto dal governo americano e dai suoi alleati – aveva come obiettivo togliere di mezzo al Assad e sostituirlo con un governante alleato ed estendere quindi la sua totale egemonia sull’intero Medio Oriente. Questa operazione avrebbe ridotto a zero l’influenza della Russia nella regione. Occorre ricordare che l’unica base militare russa che le consente di essere presente nel Mar Mediterraneo si trova a Tartus, in Siria.