intervista di Claudio Paravati a Nadia Urbinati (docente di Teoria politica alla Columbia University di New York e giornalista)
Più che il linguaggio e i modi volgari di Trump, su cui si sono focalizzati i media, il pericolo maggiore viene dalla concentrazione di tutto il potere – Camera, Senato, Presidenza e Corte suprema – nelle mani dei repubblicani.
Stati Uniti
intervista a Harvey Cox (teologo statunitense, ministro della chiesa battista)
a cura di Serena Piovesan, sociologa
La controversa figura del presidente eletto Donald Trump produce divisioni anche all’interno del mondo protestante statunitense: anche nell’ala più di destra, non tutti lo hanno appoggiato.
di Roberto Bertoni
Come cambieranno i rapporti fra Europa e Stati Uniti in seguito all’elezione del miliardario newyorkese.
di Marco Mazzoli (professore di Politica economica, Università di Genova)
Il Transatlantic Trade and Investment Partnership è costituito da una serie di negoziazioni di trattati commerciali, condotti prevalentemente in segreto tra l’Unione europea e gli Stati Uniti d’America, con la motivazione ufficiale di «ridurre le barriere commerciali» tra Unione europea e Stati Uniti. Già il fatto che i contenuti della negoziazione, i suoi contorni e i suoi obiettivi siano segreti è di per sé inaccettabile per una democrazia rappresentativa (teoricamente dovrebbe esserlo anche l’Unione europea e, teoricamente, dovrebbero essere democratiche le sue istituzioni) e richiama, nel metodo, i trattati segreti tra le monarchie assolute, dove i governanti guidano sudditi e non cittadini.
Soprattutto, questa assenza di trasparenza non è certamente saggia in una fase in cui le istituzioni europee non godono esattamente di grande popolarità. Una forte impostazione ideologica già caratterizza l’architettura istituzionale dell’Unione europea, che prevede una moneta unica, non solo senza una politica fiscale “federale” europea, ma, per di più, senza il minimo coordinamento né la minima armonizzazione tra le politiche fiscali nazionali.
di Roberto Bertoni (giornalista free lance e autore di saggi, romanzi e poesie)
Anche se le sue probabilità di ottenere la nomination alla presidenza degli Stati Uniti nella convention democratica di luglio sono scarse, il “socialista” Bernie Sanders sta creando qualche difficoltà alla collaudata macchina elettorale di Hillary Clinton. Il ruolo chiave della generazione dei “Millennials”.
Probabilmente, al termine delle primarie democratiche, prevarrà Hillary Clinton: più rodata, più esperta della macchina del potere, sostenuta da tutti i pezzi da novanta del partito e capace di far breccia nel cuore di quelle minoranze nere e ispaniche verso cui da anni, fin dai tempi in cui era presidente suo marito Bill, manifesta un sincero interesse. Attenzione, tuttavia, a credere che quella dell’ex first lady ed ex segretario di Stato sarà una passeggiata, perché sul suo cammino ha incrociato un rivale su cui nessuno, all’inizio della competizione, avrebbe scommesso un soldo e che invece sta mettendo in seria difficoltà una donna tanto potente quanto emblematica di tutto ciò che gli americani non sopportano più.
di David Gabrielli
Dopo Cuba (19-22 settembre) Francesco ha visitato per cinque giorni gli Usa, costellando il suo pellegrinaggio di incontri importanti. Particolarmente significativi i discorsi da lui tenuti al Congresso statunitense, all’Assemblea generale delle Nazioni Unite, all’Incontro mondiale delle famiglie svoltosi a Philadelphia. I temi geopolitici ed ecclesiali emersi, evidenziano prospettive di grande portata ma manifestano anche asperità data la complessità dei problemi incombenti la stessa difficoltà di attuare in concreto i princìpi a cui ci si appella.
La tappa statunitense del pellegrinaggio americano di papa Francesco ha avuto quattro picchi in altrettanti discorsi: al Congresso, all’Onu, all’episcopato degli Usa e alla conclusione dell’Incontro mondiale delle famiglie, a Philadelphia. Insieme questi testi rappresentano, ci pare, un corpus che riassume il pensiero geopolitico e quello ecclesiale e pastorale di Bergoglio.
di Jenn Lindsay
Dzhokhar Tsarnaev, l’attentatore della maratona di Boston del 15 aprile 2013, è stato condannato a morte lo socorso 15 maggio. In quell’attentato erano morte tre persone: Krystle Campbell (29 anni), Lu Lingzi (23 anni), e Martin Richard (8 anni). Tsarnaev e suo fratello maggiore Tamerlan Tsarnaev (poi morto in uno scontro a fuoco con la polizia) avevano collocato una «pentola-bomba» in mezzo agli spettatori della maratona; una quarta vittima, Sean Collier (27 anni), addetto alla sicurezza presso il Massachusetts Institute of Technology, è stato ucciso nell’inseguimento dei due fratelli. Più di 240 altre persone sono rimaste ferite, alcune delle quali in modo grave. L’8 aprile Tsarnaev è stato condannato per una trentina di capi d’accusa, 17 dei quali reati capitali. La giuria ha ritenuto che la morte fosse la punizione adeguata per sei di questi 17 capi.
Negli Stati Uniti, l’applicabilità della pena di morte è decisa Stato per Stato. Il Massachusetts (dove è stato commesso il reato) non la prevede e non esegue sentenze di morte da quasi 68 anni. Secondo il Death Penalty Information Center, sono 1408 le persone giustiziate negli Stati Uniti dal 1976 a oggi. Gli Stati Uniti sono uno dei 22 paesi del mondo – e l’unico del continente americano – ad aver eseguito sentenze di morte nel 2014.
intervista ad Alessandro Portelli
(Portelli ha insegnato Letteratura americana alla facoltà di Scienze umanistiche dell’Università La Sapienza di Roma)
I recenti episodi che hanno visto cittadini afroamericani – quasi sempre disarmati – uccisi da agenti di polizia, le reazioni della comunità nera, la condanna delle discriminazioni razziali espressa dal presidente Obama alle celebrazioni del cinquantesimo anniversario di Selma e il conflitto tra il Congresso e la Casa Bianca.
«Un cittadino nero statunitense ha più probabilità di essere ucciso nel suo quartiere che in Afghanistan. Sono infatti circa 400 le persone uccise ogni anno dalla polizia negli Stati Uniti, mentre la media dei soldati americani che muoiono in Iraq o in Afghanistan è di 385 l’anno». A parlare è Alessandro Portelli, che ha insegnato Letteratura americana alla Sapienza di Roma ed è impegnato da sempre a diffondere la cultura «dell’America a cui vogliamo bene», come lui stesso la definisce, «quella di Woody Guthrie, Pete Seeger, Bob Dylan, Bruce Springsteen, Malcolm X, Martin Luther King, Cindy Sheehan, Mark Twain, Don DeLillo, Spike Lee e Woody Allen».
intervista a Domenico Losurdo
(Filosofo e storico, ha insegnato Filosofia della storia all’Università di Urbino)
«In tutto il Medio Oriente, nella lotta contro i regimi laici scaturiti dalle rivoluzioni anticoloniali (che hanno fatto seguito alla Seconda guerra mondiale) e contro i movimenti di liberazione nazionale collocati su posizioni laiche, l’Occidente ha fatto appello alla religione e al fondamentalismo religioso: così in Iraq, Libia, Siria, Palestina, dove Israele a suo tempo appoggiò Hamas contro l’Olp di Arafat».
«Prima che si accentui il loro declino, gli Usa tentano di perpetuare la loro egemonia mondiale, avvalendosi della loro permanente superiorità militare al fine di estendere e rafforzare il controllo sulle aree geopoliticamente decisive del pianeta».
di Paolo Naso
Con il risultato delle elezioni di midterm che si sono svolte a inizio novembre, si può considerare concluso il ciclo politico di Barack Obama. Gli restano ancora due anni di presidenza, difficilissimi, nei quali sia la Camera dei rappresentanti sia il Senato sono nelle mani dei repubblicani.
«Giudico potere esser vero, che la fortuna sia arbitra della metà delle azioni nostre», affermava Machiavelli per spiegare che il destino di un principe solo per metà dipende dalla sua virtù; per la metà restante dipende dalla fortuna. E Barack Obama, di fortuna ne ha avuta poca. Forse più netta del previsto, la sconfitta dei democrats alle elezioni di mid-term del 4 novembre pronosticata in tutti i sondaggi è puntualmente arrivata ed ha consegnato il Congresso ai repubblicani.
I dati sono così evidenti e corposi che ci costringono ad affermare quello che in cuor nostro non avremmo mai voluto ammettere, ovvero che con questo risultato si è concluso il ciclo politico del primo presidente nero degli Stati Uniti, l’uomo che soltanto sei anni fa ci aveva stupito con la sua vision dinamica e globale e che aveva saputo restituire una speranza ad ampi strati dell’elettorato ormai rassegnati all’idea che, chiunque fosse andato alla Casa Bianca, nulla sarebbe cambiato nella qualità della loro vita.