Le elezioni europee del 6 e 7 giugno – intese come votazioni per eleggere i deputati al Parlamento europeo – sono andate molto male per le sinistre nel loro complesso (il buon successo dei verdi non è riuscito a compensare le perdite dei partiti di sinistra, soprattutto quelli della famiglia socialista) e benissimo per tutto quell’arcipelago di partiti di estrema destra, nazionalisti, xenofobi ed euroscettici che spuntano ormai come funghi in tutto il continente.
In Italia, grazie al nostro provincialismo ma – a parziale giustificazione – anche a causa di una situazione del tutto particolare (una grave anomalia di cui la metà dei nostri concittadini da ormai tre lustri continua a non rendersi conto), queste erano solo incidentalmente delle elezioni europee. In realtà si è trattato di una specie di referendum, indetto dal presidente del Consiglio, sulla sua stessa persona: una moderna ordalia, nella quale il giudizio del popolo avrebbe dovuto decretare in modo incontestabile l’assoluta innocenza di Berlusconi da qualsiasi accusa (giudiziaria, politica o «morale» che sia) presente, passata e futura. Un’assoluzione «a furor di popolo», un plebiscito che mettesse a tacere definitivamente le opposizioni, la società civile e quel poco di informazione libera e critica che ancora sopravvive. Ecco, in realtà l’unica notizia positiva di queste elezioni è che questo non è avvenuto: fino alla vigilia del voto, papi ha insistito molto sul fatto che i suoi sondaggi davano il Popolo della libertà tra il 40 e il 45% dei voti, ma la risposta degli elettori alla domanda del referendum («volete voi Berlusconi padrone assoluto di questo paese?») è stata decisamente negativa. Certamente non ci siamo liberati di lui e la strada sarà ancora lunga, ma almeno per ora abbiamo evitato il peggio.
Per una volta è stato proprio il premier a darsi la zappa sui piedi da solo indicando una soglia, suggerendo così indirettamente che sotto tale soglia si sarebbe trattato di un flop. E sono state proprio le elezioni amministrative, che al contrario delle europee hanno certificato la buona salute della sua coalizione, a sottolineare il calo di consensi del suo leader. In passato infatti, ogni volta che Forza Italia perdeva un’elezione locale, era solito tirare fuori la stessa spiegazione: «Certo, perché quando non scendo in campo io in prima persona il nostro elettorato è meno motivato», diceva. Ma ora questa giustificazione gli si ritorce contro, perché questa volta una parte dei suoi elettori ha preferito votare anonimi amministratori locali rispetto al capo carismatico, candidato in tutte le circoscrizioni. Quindi il mancato successo alle europee non è stato causato da una perdita di consensi della sua parte politica, ma proprio dall’appannamento della sua immagine agli occhi di alcuni suoi stessi elettori. Un Pdl senza Berlusconi (guidato magari dal più civile e democratico Fini) potrebbe diventare un avversario leale da contrastare nel merito delle questioni politiche, ma superando finalmente questa specie di scontro di civiltà voluto per primo proprio da Berlusconi quando parla di «esercito del bene» (il suo) contrapposto a una parte politica che sa solo esprimere odio e invidia sociale. A quel punto gli elettori di centro-sinistra si sentiranno finalmente liberi di fare come negli altri paesi – dove si sceglie di votare per la propria parte politica solo quando si è convinti, astenendosi tranquillamente quando si vuole lanciare un messaggio critico – senza diventare complici di una pericolosa deriva antidemocratica.
Detto questo, è ovvio che in un paese normale questo personaggio non avrebbe più del 10%. Anzi: in un paese normale non si sarebbe neanche potuto candidare. Ma appunto: in un paese normale. E forse, finalmente, sempre di più nel centro-sinistra ci si sta rendendo conto che non si può continuare a ragionare «come se niente fosse», cioè come se questo fosse un paese come tutti gli altri. Forte del 45% (che avrebbe portato la coalizione di governo ben al di sopra della soglia, psicologicamente importante, del 50% dei voti), Berlusconi avrebbe potuto tentare la carta delle elezioni anticipate per andare incontro a una vittoria ancora più schiacciante di quella precedente e indebolire ancor di più l’opposizione, in Parlamento e nella società. A quel punto si sarebbe verificata una condizione fondamentale per la realizzazione del suo sogno – il Quirinale – che consiste nello spostare in avanti la fine della legislatura. Naturalmente non è ancora escluso che questa circostanza possa comunque realizzarsi in futuro e fino all’ultimo dovremo stare con il fiato sospeso. La scadenza naturale della legislatura cade immediatamente prima della fine del mandato del presidente della Repubblica. Se non ci saranno elezioni anticipate, quindi, nella primavera del 2013 voteremo per il Parlamento e subito dopo saranno appunto le nuove Camere ad eleggere il successore di Napolitano. Certo, è possibile che anche in quel Parlamento ci sia una maggioranza berlusconiana, però al momento – almeno – possiamo ancora sperare che non sarà così. Ma se in questa sorta di «sondaggio» costituito dalle elezioni europee il Pdl avesse trionfato, la tentazione di tornare alle urne per un nuovo plebiscito sarebbe stata molto forte.
Passando all’altro campo, nel complesso c’è stato un leggero ma significativo incremento rispetto alle elezioni dell’anno scorso, anche se le divisioni restano tutte e per certi versi sono anche aumentate. Ma forse questa volta aumenta anche la volontà di superarle. Chissà, forse è solo l’effetto «scampato pericolo» rispetto al plebiscito berlusconiano, ma pare che le varie forze dell’ex Unione (passate, nel loro assieme, dal 41,5% del 2008 al 43% di oggi: poco sotto il 45,5% dell’attuale maggioranza di governo) si stiano dando da fare per tentare di riorganizzare una coalizione credibile che possa sfidare Berlusconi.
Il fattore psicologico non va mai sottovalutato in politica: fino a ieri il capo del governo sembrava invincibile e l’opposizione non osava neanche ipotizzare di mettersi a cercare una soluzione per batterlo. Oggi tutto sembra possibile e ognuno avanza ipotesi e proposte. Il problema è che – ancora una volta – le soluzioni ipotizzate sono una diversa per ogni forza politica dell’opposizione. Anzi: una per ogni corrente interna dei vari partiti. Il gioco delle alleanze (che impegnerà l’opposizione, parlamentare ed extraparlamentare, da qui alle prossime elezioni, distraendola così dall’affrontare i problemi del paese e i propri) somiglia molto al noto dilemma della capra e dei cavoli. Se il Partito democratico si allea con l’Udc (non fate quella faccia: alcuni dei leader che molti di voi hanno votato lo auspicano apertamente e vedrete che, magari dopo un po’ di mal di pancia, finirete per accettarlo), perde una buona fetta degli altri potenziali alleati, rischiando un risultato peggiore di quello del 2008. Alcuni suggeriscono una riedizione della vecchia Unione prodiana (quindi senza Udc, che però a quel punto potrebbe tornare con il centro-destra, portandolo così sopra il 50%), ma magari senza una parte della sinistra (i comunisti «brutti, sporchi e cattivi»), sempre nel disperato tentativo di rassicurare e conquistare questo fantomatico centro moderato e cattolico. Insomma: se il Pd imbarca la «capra» Udc, non può portare contemporaneamente il «lupo» Di Pietro (ma neanche i «cavoli» radicali), se invece si sposta a sinistra perde voti al centro e così via.
In ogni caso, una cosa è quasi certa: le varie forze politiche si guarderanno bene dall’interrogare i propri elettori sulle scelte da compiere. Le decisioni più importanti vengono sempre prese da pochi dirigenti, con dinamiche spesso incomprensibili ai propri stessi elettorati di riferimento. Anche nel caso migliore, quando un partito lascia decidere i propri iscritti attraverso un congresso, non dobbiamo dimenticare che si tratta comunque di percentuali minime rispetto a quanti votano quel partito. Solo per fare un esempio, la decisione di non allearsi con gli altri partiti a sinistra del Pd in una lista unica è stata presa da poche migliaia di persone: secondo un principio ineccepibile dal punto di vista democratico, 23mila persone iscritte a Rifondazione hanno prevalso su altre 20mila, vale a dire l’uno o il due per cento degli elettori totali della sinistra. Così come, per completezza, va ricordato che la decisione di Vendola di scindersi dal Prc e allearsi con gli altri partiti è stata anch’essa presa – giusta o sbagliata che fosse, non è questo il punto – da alcune centinaia di persone. E questo esempio può essere esteso un po’ a tutte le forze politiche. Perché non ipotizzare delle primarie anche per decidere sui programmi e le alleanze, per evitare che anche alle prossime elezioni siano i soliti interessi di bottega, le ambizioni, i narcisismi, le incompatibilità personali e i risentimenti reciproci a prevalere su quel desiderio di unità che in linea di massima si riscontra nell’elettorato di sinistra? Non sarebbe male poi se si provasse a cercare l’unità proprio sui contenuti delle lotte da condurre nel paese ogni giorno, non solo nel mese della campagna elettorale: sarà forse un’idea un po’ naif, ma la politica non può essere sempre ridotta a un gioco per conquistare poltrone e potere. In ogni caso – capra o cavoli che sia – non dimentichiamoci mai che la barchetta è stretta e rischia sempre di andare giù. E in acqua poi – per chi si fosse distratto – c’è un Caimano ancora vivo e vegeto, che aspetta con le fauci spalancate.
Adriano Gizzi