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Informazione: basta bavagli e autocensure

by redazione

Per il presidente della Federazione nazionale della stampa italiana, l’obiettivo della manifestazione del 3 ottobre per la libertà di informazione era quello di provare a dissolvere questa aria fetida che grava sull’informazione italiana, per cui le domande sono assimilate a provocazioni politiche, i giornali scomodi vanno colpiti togliendo loro la pubblicità, la Tv pubblica deve magnificare le opere del Capo e i critici sono da sottoporre a pestaggio mediatico.

Sarà bene non archiviare presto, nella nostra memoria, le immagini del giudice Mesiano seguito dalle telecamere di Canale 5 mentre «fuma nervosamente» e sfoggia calzini turchese che attestano una delle sue «stravaganze». Non si tratta semplicemente di un caso di pessimo giornalismo. È la prova evidente dell’anomalia italiana in Europa, di una concentrazione di potere politico e mediatico senza pari e senza argini. Il presidente del Consiglio annuncia in pubblico che sul magistrato che ha condannato Fininvest al pagamento di 750 milioni di euro per la vicenda del lodo Mondadori «presto ne vedremo delle belle», e subito parte la campagna: sulle sue tracce vanno insieme Mediaset, il Giornale di famiglia e il settimanale Chi, anch’esso della casa, solitamente dedito al gossip sui personaggi dello spettacolo ma all’occorrenza dirottabile su azioni di «massaggio» a mezzo stampa. Una vicenda che, da sola, basterebbe a spiegare quanto concrete, attuali e pericolose siano le conseguenze della mancata legge sul conflitto di interessi. E che illumina ancora meglio le ragioni della straordinaria manifestazione del 3 ottobre in piazza del Popolo. Chi voleva banalizzarla continua a ripetere che «non ha senso manifestare perché un uomo politico cita in giudizio due giornali», come Berlusconi ha fatto con Repubblica eUnità; ma evita di guardare alle altre cento ragioni che hanno convinto a scendere in strada decine e decine di migliaia di persone. Ragioni riassumibili in una: provare a dissolvere questa aria fetida che grava sull’informazione italiana, per cui le domande sono assimilate a provocazioni politiche (non solo le famose 10 domande di Repubblica), i giornali scomodi vanno colpiti togliendo loro la pubblicità, la Tv pubblica deve magnificare le opere del Capo (vedi serata speciale per la riconsegna delle prime case ai terremotati, con «Ballarò» soppresso perché nulla deve turbare il racconto fiabesco di «Porta a porta»), i critici sono da sottoporre a pestaggio mediatico (anche quando esprimano critiche molto misurate: Dino Boffo non aveva certo schierato Avvenire sulle barricate dell’antiberlusconismo). Una pressione mai vista prima, che fa salire di molto anche la temperatura del confronto dentro l’informazione: l’aspra polemica che ha opposto il Corriere della sera alla Repubblica sulla «terzietà» che dovrebbe avere il buon giornalismo è anch’essa figlia dell’anomalia italiana, con un premier che, incapace di concepire una qualsiasi autonomia, mette sotto tiro ogni testata che non appartenga esplicitamente alla corte dei sudditi (il Corriere è «di sinistra» come sono «di sinistra» i giudici della Corte costituzionale che hanno bocciato il lodo Alfano).

La gente di piazza del Popolo lo ha capito meglio di ciascun giornale o di ciascun importante giornalista, tentato di attribuire in esclusiva a se stesso il titolo di campione della buona informazione da difendere. La novità della manifestazione non è emersa granché dai resoconti, concentrati soprattutto sulle dichiarazioni dei politici presenti e di quelli assenti. Sul palco, però, gli esponenti di partito non hanno parlato: non per cedimento ad un qualunquismo di moda, ma perché l’articolo 21 della Costituzione è una cosa più grande delle pur legittime posizioni di parte. Così come non hanno parlato solo o principalmente gli esponenti dell’informazione. Sul palco hanno avuto voce i temi solitamente oscurati: la scuola che viene smantellata, il lavoro che manca, i rischi di razzismo, l’oppressione di vivere sotto le mafie. Quello che più colpiva è che in tantissimi fossero lì non per applaudire volti famosi (che certo hanno avuto le loro meritate ovazioni, quando sono stati citati al microfono), ma perché sentivano leso il loro diritto di sapere: quando già si era fatta sera, tre ore abbondanti dopo l’inizio della maratona di parole, la piazza ancora gremita ha riservato applausi scroscianti all’intervento che denunciava la reticenza e la retorica del nostro giornalismo (soprattutto televisivo) sulla presenza delle truppe italiane in Afghanistan. Non è stata una manifestazione di solidarietà ad una categoria. È stata la manifestazione di una parte importante della società italiana – inclusa una parte importante dell’informazione – che ha saputo resistere al modello televisivo dominante e che vede bene come, nell’epoca del populismo mediatico, la comunicazione sia nodo essenziale della democrazia. Vuole fermare i tentativi scoperti o striscianti di censura, ma al tempo stesso chiede a noi giornalisti di fare molto di più contro l’autocensura, contro quei bavagli che talvolta ci mettiamo prima ancora che altri provino a farlo.

Questo capitale di ricchezza civile, di maturità democratica, di rabbia, di voglia di partecipare sarà una risorsa fondamentale anche nei prossimi mesi. È chiarissimo che Berlusconi porterà alle estreme conseguenze l’attacco alle due funzioni di garanzia: magistratura e informazione. Il disegno di legge sulle intercettazioni, già approvato alla Camera in una versione pericolosa e ora in calendario al Senato, sarà solo uno degli strumenti dell’offensiva, in un panorama nel quale la legge Gasparri consentirà a Mediaset, fra appena un anno, di entrare formalmente nella proprietà dei quotidiani. Ma ora sappiamo con certezza di poter contare su un altro protagonista: la partita non sarà soltanto tra addetti ai lavori.

Roberto Natale

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