Per qualcuno la sinistra in Europa è in una crisi irreversibile, per qualcun altro è definitivamente morta. Ma accanto al fallimento del modello blairiano, di una sinistra liberista che si sposta sempre più verso il centro, assistiamo all’ascesa di forze politiche antagoniste che – pur tra difficoltà e contraddizioni – tentano di mettere in discussione i dogmi del riformismo europeo moderato e di governo.
Da più parti si parla di un declino ormai inarrestabile delle socialdemocrazie del Vecchio continente. I disastrosi risultati delle elezioni europee del giugno scorso (socialisti francesi e laburisti inglesi crollati entrambi al 16%, socialdemocratici tedeschi e svedesi ai minimi storici: rispettivamente al 21 e al 24%) hanno fatto apparire quasi un successo il magro risultato del Partito democratico in Italia: 26%, sette punti in meno rispetto alle politiche del 2008. Il centrosinistra italiano poteva così dirsi, nonostante tutto, uno dei più forti d’Europa.
In realtà, c’è una parte consistente del Pd che proprio non accetta di vedersi associare al socialismo europeo. E infatti, proprio per accontentare i vari Rutelli, Letta e Marini che ripetevano continuamente di non voler «morire socialdemocratici», si era riusciti a convincere tutto il gruppo socialista a cambiare nome in «Alleanza progressista dei socialisti e dei democratici europei». Ma ora è proprio Rutelli a sentirsi stretto in questa famiglia e ad abbandonarla. Insomma: a 26 partiti e mezzo su 27 andava benissimo il vecchio nome, ma lo hanno cambiato proprio per venire incontro a quei settori più moderati del Pd che ora però vogliono mandare tutto a monte. Immaginiamo la figuraccia: un’intera comitiva accetta di cambiare il programma della gita (magari perdendo anche i soldi dei biglietti) pur di accontentare l’amico più difficile, ma poi proprio il giorno della partenza quest’ultimo decide di restarsene a casa.
Nel 2000 il centrosinistra governava in 12 paesi su 15 dell’Unione europea, mentre attualmente sono solo sette su 27 quelli guidati da un premier socialista o socialdemocratico. E molto probabilmente questo numero scenderà a sei, dopo le elezioni della primavera prossima in Gran Bretagna.
All’inizio dell’autunno si sono tenute elezioni in tre paesi dell’Ue: il 27 settembre in Germania e Portogallo, il 4 ottobre in Grecia. Il dato più clamoroso è il crollo dei socialdemocratici tedeschi dell’Spd. Ma pochi hanno notato che in queste elezioni, che hanno visto il successo della coalizione fra democristiani e liberali, le sinistre nel loro complesso non sono andate poi così male. Se al 23% della Spd si somma il 12% della Sinistra (Linke) e il 10,7% dei Verdi, arriviamo quasi al 46%: poco meno dell’attuale coalizione di governo (48,4%). Certo, si potrebbe obiettare che questi tre partiti non si erano presentati come alleati di fronte all’elettorato (in campagna elettorale la Spd aveva detto che non avrebbe governato con la Linke), ma il processo di avvicinamento è già cominciato. A Berlino, per esempio, il sindaco socialdemocratico Klaus Wowereit (omosessuale dichiarato e senza complessi, proprio come il leader nazionale dei liberali Guido Westerwelle, vicecancelliere e ministro degli Esteri: tanto per riflettere sul fatto che in Europa le destre non sono tutte becere come quella italiana) governa già da tempo con la Linke e pare ormai probabile che le opposizioni lavoreranno insieme anche a livello nazionale per cercare dei punti di convergenza.
In Portogallo i socialisti di José Socrates hanno vinto di nuovo le elezioni, perdendo però la maggioranza assoluta dei seggi. Ma anche qui il panorama delle forze politiche che almeno nominalmente si richiamano alla sinistra non si esaurisce nel pur consistente 36,5% del Ps. Sommando anche il 10% del Blocco di sinistra e l’8% dell’alleanza tra comunisti e verdi, si supera addirittura il 54% dei voti. La formazione del governo non è stata cosa semplice (e infatti si va verso un governo monocolore socialista di minoranza), dal momento che queste due forze della sinistra antagonista sono divise su molte cose tra di loro, ma soprattutto si dichiarano entrambe lontanissime dalla linea politica dei socialisti, giudicata troppo neoliberista.
Situazione analoga in Grecia, dove alla sinistra di un forte partito socialista riformista si raccolgono delle consistenti forze più radicali. La differenza sostanziale sta nel fatto che qui il Pasok di George Papandreou, con il 44% dei voti, ha ottenuto la maggioranza assoluta dei seggi, quindi governa da solo senza problemi. Ma il fatto che vari partiti di opposizione (tra cui i comunisti del Kke – un po’ troppo «vetero», per la verità – e la coalizione della sinistra radicale, Syriza) abbiano preso complessivamente quasi il 15% dei voti, porta le sinistre – almeno nominalmente tali, ma di questi tempi non è poco – vicine al 60%.
Se torniamo poi ai risultati delle scorse europee, così disastrosi per le socialdemocrazie, ci accorgiamo che le sinistre spagnole e quelle francesi, pur divise e litigiose, hanno ottenuto nell’insieme percentuali attorno al 45%. E in particolare in Francia, dove il 16% dei socialisti alle europee è sembrato una campana a morto, negli ultimi sondaggi le varie anime della gauche (anche qui, non automaticamente «sommabili» e in qualche caso addirittura incompatibili) navigano comunque attorno al 50%.
E da noi? In Italia alla sinistra del Pd abbiamo vari partiti, partitini e movimenti che dal 2008 non riescono più ad esprimere una rappresentanza parlamentare e purtroppo procedono sempre più divisi, autoreferenziali e imbrigliati nelle recriminazioni reciproche, nelle gelosie e nei personalismi. Chi proprio non si rassegna a considerare il Partito democratico «il massimo della sinistra possibile» oggi si trova costretto a dover scegliere tra i riflessi identitari, spesso nostalgici e poco aperti al nuovo, e le evoluzioni fumose e un po’ ambigue della sinistra ermetica e «nichi-lista», quella del «sentimento oscuro di spaesamento, perdita del peso specifico dei nostri alfabeti, esodo dagli universi simbolici della nostra vita».
Adriano Gizzi