Perché da sinistra non si tenta di superare il complesso di inferiorità nei confronti del cosiddetto «elettorato cattolico», passando al contrattacco e incalzandolo proprio sui temi cristiani? Non quelli «vaticani» (aborto, eutanasia, morale sessuale, procreazione assistita…), ma quelli più vicini al messaggio originario di Gesù: pace, fratellanza, accoglienza, disprezzo per il lusso e gli sprechi.
Da quasi tutti gli esponenti politici italiani sono piovute critiche alla sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo sull’esposizione del crocifisso nelle aule scolastiche. Scontate le reazioni furibonde di politici di destra come Daniela Santanchè, che da tempo è solita impugnare il crocifisso come una clava per combattere «l’islamizzazione e la deriva laicista del nostro paese», o del ministro della Difesa Ignazio La Russa: «Possono morire, loro e quei finti organismi internazionali, ma il crocifisso resterà in tutte le aule!».
Dall’altra parte invece ci sono le critiche bonarie, di chi – quasi per paura di disturbare – preferisce entrare nel dibattito in punta di piedi. Appena eletto segretario del Partito democratico, Pierluigi Bersani ha dichiarato che la sentenza è sbagliata perché il crocifisso in fondo è «un’antica tradizione inoffensiva». Una posizione non conflittuale, da bravo padre di famiglia che fa appello al buon senso per evitare inutili lacerazioni nel paese (e soprattutto nel suo partito). Opporre delle argomentazioni giuridiche sarebbe stato del resto impossibile, dal momento che le tesi della Corte di Strasburgo sono difficilmente attaccabili e per certi aspetti ovvie: «Il rispetto per le convinzioni dei genitori – si legge nella sentenza – deve essere possibile attraverso una formazione in grado di assicurare un ambiente scolastico aperto e che favorisca l’inclusione piuttosto che l’esclusione, indipendentemente dall’origine sociale degli studenti, dalle convinzioni religiose o dall’etnia. La scuola non dovrebbe essere la scena di proselitismo o di predicazione, dovrebbe essere un luogo di incontro di diverse religioni e convinzioni filosofiche, dove gli allievi possano acquisire conoscenze sui loro pensieri e sulle rispettive tradizioni».
Fermo restando il principio della laicità dello Stato – dato giustamente per scontato in molti altri paesi… privi di Vaticano – secondo cui in nessun ufficio pubblico o scuola deve esserci un simbolo religioso, vale comunque la pena riflettere su un fatto: è proprio in virtù della sua «inoffensività» che, secondo alcuni, il crocifisso può essere oggi esposto in una scuola. Ma se al contrario questo simbolo recuperasse il suo significato originario e genuino, quindi anche «offensivo» (non nel senso violento, ma polemico e «di lotta»), di sicuro verrebbe immediatamente bandito proprio da chi oggi vuole mantenerlo nelle aule scolastiche. Se di colpo cominciasse a significare che non si può contemporaneamente «servire Dio e mammona», che «è più facile che un cammello passi per la cruna di un ago piuttosto che un ricco entri nel Regno dei cieli» e che i mercanti vanno cacciati via dal tempio, probabilmente diventerebbe all’improvviso un simbolo scomodo, addirittura sovversivo.
Chi glielo spiega a tutti coloro che oggi utilizzano strumentalmente il crocifisso in chiave identitaria e xenofoba (per esaltare le radici giudaico-cristiane dell’Europa) che «ero forestiero e mi avete ospitato» ha qualcosa a che vedere con colui che è morto proprio su quella croce che oggi viene brandita contro gli «infedeli» provenienti da altre culture?
Un pessimo spot elettorale del Psi definiva Gesù «il primo socialista della storia». Naturalmente è riduttivo e fuorviante accostare la figura di Gesù – che lo si consideri figlio di Dio o solamente grande personaggio storico – a un ideale politico. Se non altro perché si può essere socialisti senza necessariamente essere cristiani. Così come si può essere cristiani senza per forza essere socialisti. Un fatto però è certo: non si possono benedire le guerre in nome di una religione, così come non si possono accettare le ingiustizie sociali provocate da un sistema economico disumano fondato sul neoliberismo selvaggio e pretendere che tutto questo sia coerente con il messaggio cristiano.
È sicuramente di cattivo gusto arrogarsi il diritto di affermare che «Gesù avrebbe fatto così», tuttavia non si può ignorare che molte azioni di esponenti politici che nominalmente si definiscono cristiani contrastano nettamente con i principi cui essi dicono di ispirarsi. E infatti in Italia la politica sembra molto attenta, più che a questi principi, a non contraddire le gerarchie vaticane. Naturalmente poi le direttive e gli anatemi sono sempre relativi ai cosiddetti «temi eticamente sensibili» (morale sessuale, procreazione assistita, aborto, eutanasia…) piuttosto che alle piccole questioni «di dettaglio» quali la guerra, le ingiustizie economiche o i diritti umani.
È evidente che il timore principale di quasi tutti i partiti non è tanto quello di apparire in contrasto con il messaggio evangelico, quanto di risultare sgraditi alla Cei e perdere così i consensi di quella fetta di cittadini che essa riuscirebbe a condizionare. Indipendentemente dal suo peso effettivo (probabilmente un po’ sovrastimato), il cosiddetto «voto cattolico» è comunque importante per vincere le elezioni. Ma perché non provare ad agire proprio su questo elettorato che si dice cattolico – o più genericamente cristiano – per richiamarlo alla coerenza su alcuni principi piuttosto che all’obbedienza verso una gerarchia così irrimediabilmente lontana dal messaggio originario di Gesù?
Adriano Gizzi