Non c’è solo il petrolio: anche l’acqua è da sempre al centro di tensioni e contese in tutto il mondo. Negli ultimi anni poi si sono moltiplicate le spinte che arrivano dal mercato – incoraggiate da Banca mondiale e Fmi – verso una privatizzazione sempre più capillare dei servizi idrici anche nei paesi poveri.
Sin dall’antichità l’uomo ha scelto di uccidere per accaparrarsi risorse che scarseggiavano, anziché mettersi d’accordo con i suoi simili per organizzare meglio l’utilizzo e la distribuzione di queste risorse. Il saccheggio violento è stato utilizzato come una scorciatoia rapida ed efficace per risolvere problemi di approvvigionamento, una soluzione miope che ha sempre danneggiato tutte le popolazioni coinvolte.
Nel 2003, a poche settimane dall’inizio delle azioni militari contro l’Iraq, tonnellate di rifiuti non trattati sono state riversate nei fiumi della Mesopotamia come diretta conseguenza dei bombardamenti. Il risultato è stata una proliferazione del fitoplancton, che ha impoverito di ossigeno le acque, rendendole inadatte alla sopravvivenza della fauna marina.
Quello dell’Iraq non è un caso isolato: molte guerre per il controllo delle materie prime si combattono in zone di grande valore ambientale e naturalistico, caratterizzate dalla loro grande biodiversità e dalla presenza di aree verdi molto estese. Le foreste del Congo, che ospitano elefanti e gorilla, le foreste di mangrovie nel delta del Niger, che costituiscono l’area umida più vasta dell’Africa, le terre fertili del Borneo sono alcuni esempi di paradisi naturali trasformati in campi di battaglia dalla stupida avidità della razza umana.
Tra questi conflitti spiccano le guerre per l’acqua, che hanno una lunga storia alle spalle: già nel 1790 avanti Cristo il «codice» del re babilonese Hammurabi, una fra le più antiche raccolte di leggi conosciute nella storia dell’umanità, cercava di regolare i conflitti per le risorse idriche attraverso disposizioni sull’irrigazione.
Per venire a tempi più recenti, nel 1503, durante lo scontro tra Pisa e Firenze, Leonardo da Vinci e Machiavelli avevano elaborato un piano per deviare le acque dell’Arno in modo che non raggiungessero Pisa; e anche la storia contemporanea è costellata di conflitti tra popoli che usano lo stesso fiume pur appartenendo a nazioni differenti.
In tutto il mondo i fiumi e i laghi sono un duro terreno di scontro geopolitico: il sistema idrico formato dal Nilo e dal Lago Vittoria è condiviso da nove tra i paesi più poveri del mondo: Egitto, Etiopia, Sudan, Tanzania, Kenya, Uganda, Burundi, Rwanda e Repubblica Democratica del Congo.
Da più di venti anni l’India e il Bangladesh si contendono le acque del fiume Gange, e il Mekong è al centro di tensioni che coinvolgono Cina, Birmania, Thailandia, Laos, Cambogia e Vietnam, l’ultima nazione a ricevere le acque del Mekong nel suo tortuoso percorso. Cosa accadrà alla popolazione vietnamita quando questo fiume verrà strozzato dalle dighe? Esistono più di cento progetti relativi a dighe, deviazioni di flussi idrici e sistemi di irrigazione per il Mekong, e ognuno è stato redatto come se gli altri novantanove non esistessero.
Nel gestire l’utilizzo dei fiumi e delle acque, i governi scelgono spesso di applicare tacitamente la legge del più forte o del primo arrivato, senza curarsi delle conseguenze e delle possibili reazioni (anche militari) dei paesi «a valle» espropriati dai paesi «a monte» delle loro risorse idriche.
Le dighe non producono acqua, perché non possono generarla dal nulla: possono solo accumularla o dirottarla altrove, sottraendola alle popolazioni che si trovano a valle della diga. È per questo motivo che l’accaparramento delle risorse idriche da parte di nazioni che condividono lo stesso fiume con altri paesi non genera solo siccità e sete, ma innesca processi di migrazione forzata che costringono intere comunità locali e popolazioni indigene a fuggire dai territori che hanno abitato da sempre.
Anche paesi come la Cina e gli Stati Uniti, ricchi di fiumi e bacini che scorrono interamente sul territorio nazionale, non sono immuni dalle conseguenze di uno sfruttamento insensato delle risorse idriche. Le pompe moderne permettono di raggiungere falde acquifere sempre più profonde, estraendo acqua ad un ritmo ben più rapido di quello necessario alla natura per riempire nuovamente le falde attraverso la pioggia.
Negli ultimi anni il livello delle acque si è inesorabilmente abbassato nella pianura cinese del nord; negli Stati Uniti il fiume Colorado è spesso in secca e non arriva a sfociare nell’oceano, e in Asia centrale (tra Turkmenistan e Uzbekistan) il fiume Amu Darya non riesce più ad alimentare a sufficienza il lago d’Aral, sfruttato oltre ogni capacità di rigenerazione, e la cui lenta scomparsa dalle carte geografiche è una delle catastrofi ecologiche più gravi del pianeta.
L’elenco potrebbe continuare a lungo: i paesi del Nord Africa e del Medio Oriente come Algeria, Egitto, Iran e Marocco, ma anche lo Yemen, il lago Ciad, la regione indiana del Punjab, il Bangladesh e il lago Baikal (in Siberia) sono tutte zone colpite dalla siccità, e dove il consumo di risorse idriche è superiore alla naturale capacità di rigenerazione delle falde acquifere.
L’acqua è una risorsa sempre più scarsa e contesa tra le nazioni, dal momento che i fiumi non rispettano le suddivisioni geopolitiche: almeno venti stati nel mondo ricevono più del 50% dell’acqua che consumano da fiumi che attraversano i confini nazionali, e quattordici paesi ricevono almeno il 70% delle loro acque di superficie da fiumi che si trovano in altri stati.
Oggi questi conflitti non sono più regolati dal codice di Hammurabi, ma da oltre tremilaottocento dichiarazioni, convenzioni o trattati sull’acqua sottoscritti da singole nazioni o da gruppi di paesi. Ciò nonostante, il mondo è ancora ben lontano dal gestire l’acqua nel modo migliore.
Questa risorsa è più rara, preziosa e ambita di quel che potremmo pensare guardando gli oceani: solo il 2,5% dell’acqua presente sul pianeta rientra nella categoria delle acque dolci potenzialmente utilizzabili dall’uomo, e a sua volta solo una minima frazione delle acque dolci è disponibile in superficie e nell’atmosfera.
Lo spreco di risorse idriche, la difficoltà di accesso all’acqua e le tensioni che ne derivano sono complicati dalla dimensione economica e dalle spinte che arrivano dal mercato verso una privatizzazione sempre più capillare dei servizi idrici. Un percorso avviato già alla fine degli anni Novanta dal governo britannico con una massiccia campagna di privatizzazione dell’acqua.
Le istituzioni internazionali come la Banca mondiale e il Fondo monetario internazionale hanno incoraggiato la vendita dell’acqua pubblica alle compagnie private da parte dei governi come soluzione di breve periodo per ridurre il debito pubblico, ma questo rimedio si è rivelato peggiore del male.
A Cochabamba, in Bolivia, il costo dell’acqua si è triplicato dopo la privatizzazione senza nessun miglioramento del servizio, innescando quella che è stata definita come la «prima guerra dell’acqua» boliviana, un duro conflitto sociale che nel 2000 ha visto contrapporsi i cittadini di Cochabamba alla compagnia che aveva ottenuto il controllo delle acque locali.
Il risultato di quelle mobilitazioni fu la decisione unilaterale del governo boliviano di rescindere i contratti stipulati con le compagnie multinazionali ai quali era stato affidato il controllo dell’acqua, e nel 2005 una «seconda guerra dell’acqua» è riuscita a bloccare nuovi contratti che avrebbero generato profitti per pochi dalle risorse idriche di tutti.
Ma il problema non è stato risolto definitivamente, e ancora oggi nel Sud del mondo la corsa alla privatizzazione delle acque nazionali minaccia la sicurezza idrica di paesi come Argentina, Cile, Messico, Malesia e Nigeria, dove i più poveri rischiano di essere penalizzati dalle leggi di mercato anche nell’accesso all’elemento fondamentale per la sopravvivenza della razza umana. In Ghana, ad esempio, la vendita regolata dal mercato ha obbligato la fascia più povera della popolazione a spendere fino al 50% del guadagno mensile per l’acquisto dell’acqua.
Il tema dell’acqua pubblica non è più un problema limitato al Sud del mondo, e inizia a toccare da vicino anche il Nord, e in esso anche il nostro paese. Se in Bolivia si è riusciti a fare una parziale marcia indietro sulle privatizzazioni idriche, in Italia la tendenza è totalmente opposta. Il 19 novembre scorso, infatti, la Camera dei deputati ha approvato in via definitiva il disegno di legge già approvato dal Senato che contiene le norme sulla liberalizzazione dei servizi pubblici locali e sulla privatizzazione dell’acqua.
Quali che siano le conseguenze di questa decisione, quello che è certo è che ricadranno anche sulle generazioni future e saranno difficilmente reversibili.
Carlo Gubitosa e Annalisa Ippolito