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La passione secondo Gaza

by redazione

Cronaca di una visita di trenta ore nella Striscia, ad un anno esatto dall’operazione «Piombo fuso»: desolazione, rabbia verso Israele, dubbi della gente su Hamas, speranza in un intervento di Barack Obama. La vicenda dei «pacifisti». Il punto di vista del governo Netanyahu e di israeliani critici.

Ad un anno esatto dall’operazione «Piombo fuso» lanciata dalle Forze di difesa israeliane (Idf) contro la Striscia, e mentre anche l’Egitto decide se, come e quando far entrare o uscire gente e materiale dal territorio di Gaza, trenta ore di concitata visita in questo singolare «deserto dei tartari» non bastano certo ad avere una visione esaustiva della drammatica situazione in cui è costretto a vivere un milione e mezzo di persone stipate in 363 chilometri quadrati di superficie; tuttavia, i contatti avuti, le testimonianze ascoltate e, soprattutto, quello che abbiamo potuto vedere con i nostri occhi, ci hanno dato elementi importanti per meglio comprendere una tragedia.

Un confine invalicabile

Arriviamo ad Erez – il passaggio tra lo Stato di Israele e la Striscia – il 5 gennaio, alle otto del mattino, quando aprono la frontiera. Salvo un altro occidentale, non vi è nessuno; dunque, eseguite le necessarie formalità con la frontiera israeliana, passiamo dall’altra parte del muro (perché lungo la frontiera corre un alto muro): non vi è nessuno! Per arrivare al controllo palestinese – in mano ad Hamas, il Movimento di resistenza islamica che dal 2006 controlla la Striscia, dalla quale l’anno dopo ha completamente estromesso al-Fatah, il partito del presidente Mahmud Abbas (Abu Mazen), il quale di fatto ha il potere solo in Cisgiordania – dobbiamo infatti percorrere un corridoio vuoto, una specie di serpentone, ai due lati chiuso da sbarre di ferro, che si addentra per oltre un chilometro. Al termine di esso una donna, con un velo che ricopre il volto, salvo una minuscola fessura per gli occhi, apre i nostri bagagli e li esamina accuratamente.

E finalmente possiamo andare: pochi metri e, con gli amici palestinesi che ci aspettavano, entriamo a Gaza city. Ovunque ci sono bandierine verdi (il colore che rinvia al profeta Muhammad, adottato come simbolo da Hamas). Il traffico è caotico: macchine si alternano a carretti trascinati da asinelli e sui quali stanno bambini e capre insieme, i sorpassi sono micidiali, e ogni momento abbiamo l’impressione di sfiorare un incidente. Infine, eccoci arrivati alla sede locale del Near East Council of Churches Committee for Refugee Work Gaza Area (Necccrw, Comitato per i rifugiati dell’area di Gaza, del Consiglio delle Chiese del Vicino Oriente), a sua volta legato al Middle East Council of Churches (Mecc, Consiglio delle Chiese del Medio Oriente). Scopo precipuo della nostra breve visita a Gaza, infatti, era quello di conoscere più da vicino la situazione dei circa tremila cristiani che vivono in un territorio massicciamente musulmano: una scelta, la nostra, dovuta solo a ragioni contingenti, non riuscendo ad adire alle autorità di Hamas.

«La radice della tragedia? L’occupazione israeliana»

«Israele ha diritto alla sicurezza; e noi no? Noi vogliamo la pace, ma non possono pensare di metterci i piedi sulla testa. Non abbiamo la libertà di muoverci: diciamo “basta!”. Accettiamo Israele nei confini del 1967, vogliamo la pace con esso, ma deve ottemperare alle risoluzioni dell’Onu. È per la salvezza stessa di Israele che l’Occidente, Stati Uniti d’America in testa, deve convincerlo a ritirarsi dai nostri Territori e starsene nel 78% della Palestina storica, mentre noi ci accontentiamo del 22%». A parlarci è Constantine Dabbagh, direttore della sede del Necccrw a Gaza.

«In Occidente molti dicono che la causa di questa nostra durissima situazione è Hamas. Ma il Movimento di resistenza islamico ha vinto – e tutti hanno potuto constatare la regolarità delle consultazioni – le elezioni politiche del gennaio 2006. Si dovranno annullare elezioni democratiche? L’Occidente fa un grande errore a tenere Hamas chiuso in gabbia come un gatto feroce. Lo stesso Occidente che ha riconosciuto l’indipendenza del Kosovo, pur respinta dalla Serbia, non riconosce la nostra indipendenza! Un atteggiamento che potrebbe aprire la strada, qui, a gente ben più estremista di Hamas, a uomini di al-Qaeda. Perciò se l’Occidente non si assumerà fino in fondo le sue responsabilità per risolvere con una pace, una pace giusta, il contenzioso israelo-palestinese, esso dovrà amaramente rimpiangere di aver perso un’occasione storica. L’Occidente – prosegue Dabbagh – parla della nostra situazione; parla ma non agisce. E intanto Israele continua impunemente a costruire insediamenti e a controllare la parte Est di Gerusalemme; continua a prendersi la nostra terra, sostenendo che è stato Dio a dargliela. La radice del conflitto è dunque la brutale occupazione coloniale e militare israeliana dei Territori palestinesi».

A proposito poi del Mecc, Dabbagh ci ricorda che la sua direzione generale è tornata da Cipro a Beirut; del Consiglio fanno parte tutte le Chiese del Medio Oriente, ivi compresa la Chiesa cattolica che, invece, non è poi membro del Consiglio ecumenico delle Chiese di Ginevra. Nel Mecc confluiscono quattro famiglie cristiane: Chiese ortodosse, Antiche Chiese orientali (armeni, siri e copti), Chiese protestanti storiche (anglicani, luterani e riformati), e Chiese cattoliche dei vari riti. A Gaza la grande maggioranza dei circa tremila cristiani appartiene al patriarcato greco-ortodosso di Gerusalemme; i cattolici latini sono una piccola minoranza. Vi sono poi, da pochi anni, dei minuscoli ma battaglieri gruppi battisti, legati alla statunitense Southern Baptist Convention, i quali «purtroppo fanno proselitismo, e cercano di convertire alla loro Chiesa fedeli di altre Chiese. E questo, qui, è pericolosissimo, anche perché tale “politica” – sostiene Dabbagh – suscita nei musulmani il sospetto che i cristiani siano qui per sgretolare, poi, perfino l’islam».

Tornando al Necccrw, esso, come attività per aiutare la gente nella Striscia, ha messo in piedi laboratori di falegnameria e lavorazione del ferro per i ragazzi che hanno abbandonato la scuola e corsi di computer per le ragazze e di taglio e cucito per le donne in generale. Vi è un settore nel quale donne vedove o mai sposate lavorano al taglio e cucito. Ma il settore più delicato è un ambulatorio clinico per assistere donne partorienti e bambini.

Un «Ground Zero» là ove stava l’ambulatorio clinico

«Perché? Perché lo hanno fatto? Ancora non lo sappiamo; sappiamo solo che qui, dove vedete questo “Ground Zero”, questo buco e questo piccolo terreno spoglio, sorgeva il nostro ambulatorio clinico. Gli israeliani l’hanno completamente distrutto con una bomba, il 10 gennaio 2009. I danni, solo per i macchinari, ammontano a duecentomila dollari, ma nessuno, poi, ci ha risarciti». Si commuove ancora, raccontandoci questa vicenda, il dottor Salim Al Abadlah, responsabile della clinica.

L’edificio, incuneato tra due case, è stato colpito con precisione chirurgica; per fortuna non vi sono state vittime, perché di notte nel laboratorio non vi era nessuno. «Lo hanno forse distrutto per punire il proprietario dell’edificio, che ce lo aveva affittato? Noi sappiamo poco di quella persona, ma per quel che sappiamo era un uomo tranquillo», prosegue Al Abadlah. Intanto, l’ambulatorio è stato rimesso in piedi, per quanto possibile, e in modo più ridotto, in alcune piccole stanze di una casa vicina. La visitiamo, mentre donne con bambini si affollano per un controllo pediatrico, soprattutto per verificare la malnutrizione infantile; dopo «Piombo fuso» cura anche i traumi legati alla guerra. Tutte le donne sono, come di norma, con un velo in testa, ma diverse hanno un velo che ricopre totalmente il volto, lasciando da una fessura trasparire solo gli occhi che guardano amorevolmente il bambino tenuto in braccio.

Donata dalla Chiesa luterana danese, il Necccrw ha anche a disposizione una clinica dentistica viaggiante a bordo di un’autoambulanza. Vediamo un dentista all’opera, mentre cura una paziente.

Un sacerdote argentino per 206 cattolici

Fino all’aprile scorso il parroco del piccolo gruppo dei cattolici di Gaza, che dipendono dal patriarcato latino di Gerusalemme, era il padre Manuel Musallam, sacerdote palestinese coraggioso che, durante «Piombo fuso», è rimasto nella Striscia per condividere le sofferenze di tutti. Poi egli è stato sostituito da un argentino, padre Jorge Hernandez.

Un prete argentino a Gaza, un caso davvero singolare… «Sì – ci risponde padre Jorge – sono nato in Argentina, e appartengo all’Istituto del Verbo Incarnato, una congregazione missionaria che lavora, tra l’altro, in Tunisia, Egitto, Giordania, Iraq, Pakistan… Ho studiato arabo due anni in Egitto, poi ho svolto attività pastorale nello stesso paese e quindi in Tunisia. Ho studiato anche a Roma. Sono parroco, qui, dalla Pasqua scorsa. Forse, il patriarca latino, Fouad Twal, ha scelto un sacerdote straniero perché per un palestinese è difficilissimo uscire dalla Striscia, mentre Israele non fa difficoltà a concedere tale permesso a religiosi occidentali. Nelle nostre due scuole della Sacra Famiglia – una maschile e una femminile – abbiamo nel complesso circa mille alunne e alunni, di cui il 90% musulmani e il 10% cristiani. In tutto, nella Striscia i cattolici ora sono 206! Collaborano con la parrocchia – ma i nostri servizi sociali sono per l’intera popolazione, quasi tutta musulmana – Suore della Carità di madre Teresa, Petites soeurs di padre De Foucauld, Suore del Rosario. Da alcuni mesi è con me un confratello del mio istituto. Oltre l’attività pastorale in senso stretto, abbiamo anche un oratorio, luogo importante di aggregazione per i giovani».

E la situazione generale? «Essa è difficile per tutti, qui. Gaza è come una grande prigione a cielo aperto: per i palestinesi è quasi impossibile entrare o uscire dalla Striscia. Poi, quello di cui abbiamo bisogno – dal computer al cibo, dal materiale edilizio alla benzina – viene in piccola parte da Israele, e in massima parte da tunnel tra la Striscia e l’Egitto. Così, ad esempio, quando vi è una festa musulmana, la carne, che passa dai tunnel, scarseggia, perché tutti la vorrebbero; e allora costa molto. Qualche volta è mancato, per un certo tempo, sia il caffè che il tè. Ma quello che più manca è la possibilità di trovare un lavoro, e questo genera gravi conseguenze. Se, in una famiglia, una ragazza che ha terminato l’università non trova lavoro, e magari anche suo papà è disoccupato, come vivranno? Data la situazione geopolitica, manca la speranza, anche nei giovani. Pure nella nostra scuola – una scuola prestigiosa, qui molto stimata – dopo “Piombo fuso” la capacità di rendimento dei ragazzi è diminuita, costretti come sono ad affrontare problemi così complessi, e turbati dalla guerra».

Padre Jorge vuole dare una pennellata di luce su un panorama così fosco: «Pochi giorni fa ho chiesto alle autorità israeliane di lasciare che un bambino, gravemente ammalato, potesse essere trasportato in Israele. In sole tre ore ho ottenuto il permesso!».

Tra le tende e la raccolta del ferro da costruzione

Presso Gaza city, la zona della Striscia vicino al confine con Israele è stata particolarmente colpita da «Piombo fuso». Vi sono interi palazzi che, bombardati, si sono ammucchiati, e formano delle piramidi brulle dalle quali spuntano i ferri del cemento armato di sostegno. Ora, poiché tali ferri entrano assai difficilmente dai tunnel, nell’intera Striscia vi è tutto un lavorio per riutilizzare questo prezioso materiale. E anche noi vediamo all’opera dei giovani che, con mazze, si danno da fare per spaccare i blocchi, staccare il cemento e liberare i ferri che, ammucchiati in grandi pile, a poco a poco vengono caricati o su camion o, più spesso, su carrette trainate da asinelli, e portati altrove per essere utilizzati. Ma, per costruire case, il ferro non basta; occorre il cemento, e anche questo viene soprattutto dai tunnel. Ma non ne arriva abbastanza dall’Egitto e perciò, adesso, uno dei più gravi problemi per l’edilizia a Gaza (nuove costruzioni e ricostruzioni degli edifici abbattuti dagli israeliani) è proprio la scarsità di cemento.

Accanto ai palazzi distrutti – qui, a circa un chilometro dal confine israeliano – sorgono tende e baracche dove sono riparate famiglie la cui casa è stata distrutta da «Piombo fuso»; chi vi abita ci racconta la sua disperazione. Ragazzi e bambini sono ovunque (più della metà del milione e mezzo degli abitanti di Gaza ha meno di diciotto anni!); alcuni di loro, giocando, si arrampicano sui monconi del ferro del cemento armato delle case distrutte.

Ma, più che il cemento, ci dicono, a Gaza manca il lavoro: il 40% della gente (fonti Onu; ma nella Striscia si parla del 64% e, per certi settori, addirittura dell’80%) è disoccupato. E poi scarseggiano acqua ed elettricità. L’acqua è razionata, e d’estate per diverse ore manca; l’elettricità arriva in parte da Israele, in parte dall’Egitto, in parte da un generatore che si trova a Gaza. Ma spesso la corrente salta. In certi periodi scarsissima è stata la benzina, che arrivava a costare tredici dollari al litro, «il prezzo più alto del mondo», ci precisa un tassista, aggiungendo: «Per fortuna vi è l’Unrwa – agenzia dell’Onu per i profughi palestinesi – che nella Striscia dà lavoro a molti e aiuti a tanti».

Tra «Piombo fuso» e le perplessità su Hamas

Con chiunque si parli a Gaza il discorso arriva immediatamente a «Piombo fuso», l’operazione lanciata dalle Idf il 27 dicembre 2008 e terminata il 18 gennaio 2009, allo scopo – questa la motivazione ufficiale – di distruggere alla radice la possibilità che dalla Striscia venissero lanciati razzi per colpire le città israeliane vicine. L’operazione di guerra provocò circa mille e quattrocento vittime palestinesi, un quarto delle quali bambini e ragazzi. Il governo israeliano – allora ancora guidato da Ehud Olmert, del partito Kadima, creato dal suo predecessore Ariel Sharon – sostenne la legittimità politica e morale dell’operazione, per farla finita con la pioggia di razzi, undicimila, dal 2001 al dicembre 2008 lanciati dalla Striscia (che ha provocato 15 vittime). Identico il parere di Benjamin Netanyahu, leader del Likud, allora all’opposizione e, dopo le elezioni politiche anticipate del 10 febbraio 2009, nuovo premier.

Il Consiglio dell’Onu per i diritti umani istituì una missione, guidata da Richard Goldstone (ebreo sudafricano), per accertare i fatti di Gaza. Nel Rapporto presentato il 15 settembre, essa ha sentenziato: «Vi è la prova per dire che Israele ha commesso gravi violazioni dei diritti umani, secondo il diritto internazionale, e di leggi umanitarie, durante il conflitto di Gaza, e cioè che esso ha commesso azioni equivalenti a crimini di guerra e forse crimini contro l’umanità. E vi è prova che gruppi palestinesi armati hanno commesso crimini di guerra e forse crimini contro l’umanità nel loro ripetuto lancio di razzi e mortai nel sud di Israele» (vedi Confronti, 11/2009).

Il governo israeliano ha respinto le conclusioni del Rapporto Goldstone, giudicandole «prevenute»; e le hanno respinte le autorità di Hamas sostenendo l’inammissibilità di paragonare la potenza di fuoco israeliana con i limitatissimi armamenti dei palestinesi di Gaza, la cui popolazione è impedita, da Israele, di vivere normalmente. Nella Striscia, unanime e asperrimo è il giudizio su «Piombo fuso»; ma quando abbiamo chiesto un parere sulla politica complessiva di Hamas, le risposte sono state piuttosto critiche. La nostra, naturalmente, è solo un’impressione, non generalizzabile, che ci siamo fatti da brani di risposte e da incontri del tutto casuali con la gente; un’indagine più rigorosa darebbe, forse, esiti differenti.

«Sì, nel 2006 ho votato Hamas, ma ora non lo farei. Favorendo il lancio di razzi contro Israele, doveva pur sapere che prima o poi avrebbe sprigionato la durissima risposta dell’Idf»: questa la risposta di Ahmad (chiamiamolo così), un muratore trentenne. Fatma, studentessa: «Khaled Meshaal [il leader di Hamas] dà ordini standosene però a Damasco; e qui siamo noi, qui è la povera gente che paga il prezzo delle sue scelte». Ranya, maestra: «Sono stata fermata da uomini di Hamas i quali, “per garantire la moralità”, ogni tanto verificano se l’uomo con cui esci sia il marito o il fidanzato. Ma chi gli ha dato il diritto di controllare la mia vita?». Nouri: «Ho un giardino a casa che coltivavo con amore, adesso odio il verde (il colore di Hamas), perciò ho abbandonato il giardino». Bashir, tecnico: «Tre carcerieri hanno la chiave di Gaza: Israele che ci tiene in questa prigione; l’Egitto – il fratello arabo! – che non ci apre le sue frontiere; e infine Hamas che fa la sua politica sulla testa della gente. Sì, lo so, la gran maggioranza di noi, stanchi della corruzione di al-Fatah e del fallimento delle trattative di Abu Mazen con Israele, nel 2006 votò per il Movimento di resistenza islamico. Ma ora stiamo peggio di prima e non ci possiamo muovere».

Aspettando Barack Obama, mentre aumentano i muri

Attraversando Gaza city si è colpiti dall’alternarsi di segni di normalità e di progresso con segni di degrado e di miseria: qui vedi un palazzotto molto elegante, poi un giardino ben curato, poi un condominio fatiscente, poi mucchi di rovine che ancora testimoniano l’attacco israeliano. L’ampia sala da pranzo dell’albergo dove alloggiamo, in riva al mare, potrebbe ospitare duecento persone, ma la sera ci ritroviamo in sette-otto. Questi non sono tempi di vita notturna, a Gaza! Sono tempi di grandi domande che, infine, si riducono ad una: è possibile la speranza?

E la speranza, qui, ha un nome: Barack Obama. Infatti – ci dicono i nostri interlocutori – Netanyahu non darà mai, se non costretto da Washington, quello che chiedono i palestinesi: il ritiro di Israele entro i confini del 1967, una soluzione giusta per i profughi, uno Stato che comprenda la Striscia, la Cisgiordania senza insediamenti e Gerusalemme Est. E l’Egitto? Il presidente Hosni Mubarak per ora tollera, entro certi limiti, l’attività dei tunnel dai quali entra la maggior parte del cibo e del materiale di ogni genere che serve per vivere e per lavorare (e anche le armi per Hamas); ma sta già adottando una misura per chiudere ermeticamente Gaza. Infatti, lungo il confine Striscia-Egitto, è iniziata la costruzione di un muro di acciaio, lungo undici-dodici chilometri, alto diversi metri sulla linea del deserto e profondo nella sabbia fino a venti-trenta metri, che taglierà i tunnel esistenti e renderà impossibile ogni contrabbando. La barriera, a quanto si dice, dovrebbe essere completata entro diciotto mesi, e sarebbe composta da una lega di metalli, prodotta negli Usa, a prova di bomba. Da parte loro, a pochi chilometri dalla costa motovedette israeliane chiudono Gaza dal Mediterraneo. Così, da prigione a cielo aperto, quando anche il muro di acciaio egiziano sarà completato, la Striscia sarà un carcere di massima sicurezza. Netanyahu, intanto, ha annunciato la costruzione di un nuovo muro tra Israele ed Egitto, al fine, ha precisato, di impedire l’accesso di immigrati clandestini dall’Africa, e di terroristi; e, secondo alcune fonti, starebbe progettando un altro muro, nella valle del Giordano, per annettere di fatto anche quel territorio palestinese ricco di acque e fertilissimo, e costellato di insediamenti israeliani.

In tale contesto a Gaza – ma anche in Cisgiordania – si guarda al presidente statunitense con speranza, ma velata da un certo scetticismo, perché per ora non si sono visti fatti concreti nella «nuova» politica statunitense. Arriviamo nella Striscia proprio il giorno nel quale il giornale israeliano Maariv annuncia il piano della Casa Bianca per risolvere il conflitto israelo-palestinese. Esso prevede(rebbe) l’imminente ripresa in due fasi della trattativa tra Netanyahu e Abbas: nei primi nove mesi si dovrebbero stabilire i confini del futuro Stato di Palestina, e nei successivi quindici mesi risolvere le altre questioni-chiave: lo status di Gerusalemme e il problema dei profughi (più di quattro milioni). Gli Usa rilascerebbero ai palestinesi una lettera per garantire che il periodo di due anni non è prorogabile e che, in caso di insuccesso delle trattative, Washington sosterrà la loro richiesta di un territorio nazionale che rispetti i confini antecedenti la Guerra dei sei giorni del 1967. Con lettera analoga, Obama «garantirebbe» al premier israeliano che il trattato di pace «terrà però conto dei cambiamenti verificatisi in Cisgiordania negli ultimi quarant’anni».

Scetticismo e smentite hanno accolto in Israele le «rivelazioni» del Maariv. A Gaza, i nostri interlocutori si sono domandati che significhi la «garanzia» di Obama: Israele si annetterebbe la maggior parte dei centocinquanta insediamenti in Cisgiordania? Il muro di separazione, costruito ben all’interno del territorio cisgiordano, si trasformerebbe in confine definitivo tra i due Stati, così ulteriormente amputando i palestinesi della loro terra? E come potrebbe Gerusalemme Est diventare capitale della Palestina, con tutti i quartieri ebraici costruiti là, e ad est dell’est, così da separare del tutto la parte est della città dalla Cisgiordania?

La mattina del 6 gennaio, vigilia del Natale ortodosso, assistiamo ad una parte della liturgia nella cattedrale greco-ortodossa di Gaza. Ci dirà, poi, Majed Tarazi, un laico responsabile delle attività scout rivolte ai giovani del suo patriarcato: «Lavoro molto con i giovani e insegno loro ad amare il proprio paese e soprattutto a non abbandonarlo. La guerra di “Piombo fuso” ci ha distrutti socialmente ed economicamente. Guardate, voi occidentali, la nostra sofferenza e fate qualcosa per aiutarci ad uscire dalla Striscia almeno per curarci e per far studiare i nostri figli!».

«Fino a che Israele avrà dagli Usa l’impunità per fare quello che vuole non vi sarà soluzione ai nostri problemi. Ma è il diritto, il diritto internazionale che deve guidarci, non la legge della giungla. L’occupazione dei Territori palestinesi deve finire!». Così ci dichiara l’avvocato Raji Sourani, direttore a Gaza del Centro palestinese per i diritti umani. Quello con lui è il nostro ultimo incontro nella Striscia. Ora dobbiamo correre per rientrare in Israele: il valico di Erez chiude inesorabilmente alle 15. Un sole meraviglioso illumina la giornata e, malgrado i molti segni di morte che abbiamo visto, ci induce a sperare che la pace giusta che tutti qui invocano diventi presto realtà. Una speranza difficile.

Lucia Cuocci e David Gabrielli

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