Amos Luzzatto, Giuseppe Laras, Piero Terracina: pur se non maggioritarie, all’interno del mondo ebraico non mancano certo le voci critiche sull’incontro che Benedetto XVI ha avuto con gli ebrei romani, il 17 gennaio scorso, nel Tempio maggiore (la grande sinagoga di Roma).
Lo storico Bruno Segre è direttore di «Keshet», rivista di vita
e cultura ebraica.
Nell’agosto 2005 Joseph Ratzinger, pontefice da soli quattro mesi, compì una storica visita alla sinagoga di Colonia. Amos Luzzatto, che all’epoca presiedeva l’Unione delle comunità ebraiche italiane, stimò quell’iniziativa un evento ricco di significato, destinato ad aprire una prospettiva «radicalmente diversa per gli ebrei d’Europa». Nelle parole e nei gesti di un papa tedesco che si diceva preoccupato per il risorgente antisemitismo e che stringeva le mani ai sopravvissuti dei lager, Luzzatto vide un segnale positivo per le comunità ebraiche del Vecchio continente. Significava che gli ebrei potevano impegnarsi a fianco dei cattolici nelle battaglie di civiltà, contro ogni discriminazione razziale e religiosa e ogni negazione della dignità umana.
Ben diverso è stato l’umore con il quale lo stesso Luzzatto ha salutato l’incontro che Benedetto XVI ha avuto con gli ebrei romani il 17 gennaio scorso: «Non vado in sinagoga per un imbarazzante vertice diplomatico che nulla ha a che fare con il dialogo interreligioso – ha affermato –, su che cosa potrei confrontarmi con Ratzinger? Sulla riesumazione della preghiera per la conversione degli ebrei, sul ritorno nella Chiesa dei lefebvriani che negano la Shoah, sulla beatificazione di Pio XII che scomunicò i comunisti ma ignorò le persecuzioni naziste?». E ha aggiunto: «Incontro ogni giorno cattolici amareggiati quanto me per i passi indietro della Chiesa rispetto al Concilio. Wojtyla in sinagoga nel 1986 recitò un salmo e fu un gesto storico. Questa visita è una copia dannosa, una ripetizione inservibile».
Alle manifestazioni di dissenso, non numerose fra gli ebrei italiani ma tutte ampiamente motivate, hanno fatto séguito alcune defezioni clamorose. Oltre a quelle di Luzzatto e di Piero Terracina, un romano superstite della «retata» del 16 ottobre 1943, l’assenza più notevole è stata quella di Giuseppe Laras, presidente dell’Assemblea dei rabbini italiani: una personalità che in qualità di rabbino capo di Milano ebbe a svolgere una funzione rilevante nel dialogo ebraico-cristiano quando alla guida della diocesi ambrosiana era il cardinale Martini. In un’intervista al giornale tedesco «Juedische Allgemeine Zeitung» rav Laras ha ricordato, stigmatizzandola, la causa di beatificazione di Pio XII, il papa del quale la Curia vanta ora le «eroiche virtù», e ha tra l’altro affermato di ritenere che nel breve periodo l’incontro fra Ratzinger e gli ebrei romani «non avrà conseguenze positive sul dialogo ebraico-cattolico, e solo la Chiesa ne trarrà dei benefici, soprattutto con uno sguardo ai propri ambienti più retrivi. Potrà servirsi dell’evento per esibire la propria “sincera amicizia” nei nostri confronti».
Quali spinte, allora, hanno mai indotto la comunità ebraica di Roma a compiere la scelta unilaterale di confermare l’invito a Ratzinger, pur dopo la decisione della Sede apostolica di procedere alla beatificazione di papa Pacelli? Probabilmente Amos Luzzatto ci ha offerto la chiave di lettura corretta allorché ha bollato la visita come «un imbarazzante vertice diplomatico che nulla ha a che fare con il dialogo interreligioso».
In realtà la visita papale si è tradotta in una grandiosa passerella mediatica, proprio come desideravano i registi e i vari figuranti che vi hanno preso parte: un’iniziativa di facciata seguita a raggio mondiale da seicento giornalisti, nella quale si sono sciorinati molti discorsi e la retorica ha fatto ampio sfoggio di sé. Ma si badi, non tutti i discorsi intendevano essere «aria fritta». Benedetto XVI, mediante sapienti citazioni bibliche, ha esposto la sua agenda per il «dialogo con i fratelli maggiori» fissandola attorno ai nuclei tematici che più gli sono congeniali: difesa della vita, sviluppo della famiglia, lotta al relativismo.
Sull’altro versante si è presentato – quale portavoce della classe dirigente politica israeliana, oggi più isolata che mai – il vice primo ministro d’Israele Silvan Shalom, scortato dagli ambasciatori Mordechai Levy e Gideon Meir. Shalom, venuto a Roma per preparare gli incontri israeliani di Silvio Berlusconi, ha affermato che quella di Benedetto XVI era «una visita di importanza storica». E con ciò ha lasciato intendere che il peso dell’evento era tale da investire globalmente l’intero mondo ebraico, al centro del quale sta Israele che è impegnato da anni a portare avanti con la Santa Sede un negoziato privo per ora di sbocchi.
A giocare di sponda con Shalom ha provveduto Riccardo Pacifici, presidente degli ebrei di Roma, che ha ricordato al papa i principali temi sui quali Israele intende richiamare l’attenzione della diplomazia vaticana: la minaccia dell’Iran, il terrorismo, il fondamentalismo islamico, le sorti del caporale israeliano Gilad Shalit, prigioniero di Hamas a Gaza da oltre milletrecento giorni.
Bruno Segre