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Santità. Se le virtù private non bastano ad un papa

di redazione

La proclamazione delle «virtù eroiche» di Pio XII e Giovanni Paolo II – il passo che apre la via alla loro beatificazione – ha riaperto il dibattito sul «silenzio» di Pacelli a proposito della Shoah, e su alcuni aspetti del pontificato di Wojtyla. La questione teologica sul fondamento biblico della canonizzazione in se stessa.

La proclamazione delle «virtù eroiche» di Pio XII e di Giovanni Paolo II ha riaperto un dibattito che, partendo dai casi singoli, si allarga all’istituto stesso delle beatificazioni e delle canonizzazioni, cioè al gradino meno solenne, e più solenne, sul quale una persona viene proposta ai fedeli cattolici, dal papa, come esempio da imitare, e, con la canonizzazione almeno, affermando con assoluta certezza che quella tal persona è stata salvata ed è nel regno di Dio. Un dibattito che investe una questione di fondo: che cosa significa, per la Chiesa cattolica, indicare a modello di tutti i fedeli una persona? E, per chi ha avuto in vita grandi responsabilità di governo, ed ha compiuto scelte che hanno diviso l’opinione pubblica e il giudizio degli storici, come distinguere le intenzioni soggettive dalle oggettive conseguenze (positive, discutibili o negative) di certe sue scelte? Interrogativi di sempre ma che, oggi, per la maturazione di sensibilità un tempo meno evidenti, si ripropongono in maniera più alta e forte.

È lecito anticipare sulla terra, qui e ora, il giudizio di Dio?

Di solito – nei tempi recenti, almeno – è nei giorni prima di Natale che ogni anno la Congregazione delle cause dei santi (il dicastero della Curia romana che si occupa di tali problematiche) promulga, su mandato del papa, decreti che riguardano appunto l’iter cui sono giunti alcuni candidati/e per essere proposti alla pubblica venerazione. Così, il 19 dicembre scorso Benedetto XVI ha autorizzato monsignor Angelo Amato, prefetto del citato organismo, a promulgare decreti riguardanti miracoli attribuiti all’intercessione di dieci uomini e donne, di vari paesi, vissuti in secoli assai differenti, dal Quattrocento al Novecento; alcuni, già beati, con l’attribuzione del nuovo miracolo saranno canonizzati; altri, solamente «servi-serve di Dio», diverranno beati. È stato quindi proclamato un martirio (quello del «servo di Dio» Jerzy Popieluszko, «ucciso in odio alla Fede», nel 1984, da agenti del regime comunista polacco); e, quindi, le «virtù eroiche» di dieci persone, otto delle quali del tutto sconosciute al grande pubblico; ma due notissime: Eugenio Pacelli, nato a Roma nel 1876, eletto papa Pio XII il 2 marzo 1939 e morto il 9 ottobre 1958; e Karol Wojtyla, nato a Wadowice, in Polonia, il 20 maggio 1920, eletto papa Giovanni Paolo II il 16 ottobre 1978, morto il 2 aprile 2005.

Proclamare le «virtù eroiche» significa, nel linguaggio curiale, affermare che una determinata persona ha vissuto in modo eminente le tre virtù teologali (fede, speranza e carità) e poi le quattro cardinali (prudenza, giustizia, fortezza e temperanza): cioè, sempre volendo compiere solamente la volontà di Dio e servire al bene delle anime, e mai lasciandosi guidare dallo spirito mondano o dal tornaconto personale. Una tale proclamazione è l’ultimo passaggio prima della beatificazione, ed è il pontefice che decide quando fissare la data della relativa cerimonia e dove tenerla (Ratzinger si è riservato le canonizzazioni, di solito a Roma, mentre usualmente delega un cardinale a presiedere la cerimonia della beatificazione, nel paese ove il beato ha operato ed è morto. Wojtyla, invece, di solito faceva anche le beatificazioni).

L’istituto delle canonizzazioni pone naturalmente problemi teologici cruciali, ai quali qui accenniamo soltanto: infatti, nelle parabole e nelle similitudini che, nell’Evangelo di Matteo (capo 13), Gesù usa per descrivere il Regno – il campo ove crescono il frumento buono e la zizzania, la rete che raccoglie pesci buoni e pesci cattivi – Egli rinvia alla fine dei tempi la separazione del buono dal tristo e il giudizio del Signore sull’uno e sull’altro. Dunque, se le autorità di una Chiesa (il discorso vale anche per l’Ortodossia, perché anch’essa, con una sua autonoma procedura, «canonizza») proclamano con certezza che una determinata persona è salva, di fatto anticipano qui e ora il giudizio di Dio. Per evitare questo azzardo, da qualche parte si suggerisce che, invece che usare la categoria di «santo canonizzato» (ma nella prima Chiesa con «santo» si intendeva ogni seguace del messaggio di Cristo), si preferisca quella di «testimone». Il che significa che una comunità di cristiani ritiene di aver sentito risuonare l’Evangelo in modo particolare nella vita, le opere e/o gli scritti di una determinata persona. Però, dicendo «testimone», la comunità ritiene che quella persona le ha parlato di Dio in modo coinvolgente, ma non anticipa il giudizio escatologico. Del resto, nei primi secoli della Chiesa era chiamato esattamente «martire», che in greco significa «testimone», chi avesse affrontato la morte pur di non venir meno alla propria fede nel Dio di Gesù.

Tra convinzioni soggettive e conseguenze oggettive

A prescindere da tali considerazioni, che sollevano un problema generale, vediamo più da vicino che cosa possa significare, per un papa, aver vissuto in modo «eroico» le virtù teologali e cardinali («mutatis mutandis», analogo problema si porrebbe per un re o un uomo politico che ha guidato un paese). In questione non è, ovviamente, l’intima convinzione di coscienza e la motivazione interiore, sulle quali solo Dio può giudicare; in questione sono le conseguenze oggettive e pubbliche – umane, sociali, ecclesiali, geopolitiche – di certe scelte, di certe affermazioni, di certi atti. E qui si pone una domanda inevitabile: se un pontefice fa una scelta che ha gravi conseguenze su alcune persone, queste la patiscono anche se egli ha agito in buona fede. Perciò quale senso ecclesiale e «geoecclesiale» può avere porre sugli altari questa persona? Se la «prudenza» e la «fortezza» di un papa non sono state all’altezza di ciò che la situazione richiedeva e, anzi, il suo deficit di discernimento pone dubbi fondati sul suo agire obiettivo, come ci si potrebbe riparare semplicemente sostenendo che quel papa aveva una grande pietà, o era convinto di fare il bene operando come ha operato, o omettendo come ha omesso?

Nei tempi recenti, la questione è esplosa con il caso di Pio IX. Il 20 dicembre 1999, su mandato di Giovanni Paolo II, la Congregazione per le cause dei santi aveva promulgato un decreto su un miracolo attribuito all’intercessione del «servo di Dio» Pio IX (†1878), e un altro sulle «virtù eroiche» di Giovanni XXIII (†1963). L’annuncio attirò l’attenzione sul papa dell’Ottocento e, tra l’altro, fonti ebraiche riaprirono una pagina non ignota, ma quasi dimenticata dal grande pubblico: quel pontefice, nel 1858 aveva benedetto il rapimento, a Bologna (allora negli Stati pontifici), di un ragazzino ebreo, Edgardo Mortara, perché questi era stato battezzato di nascosto da una cameriera cattolica. Dunque, ormai il piccolo doveva essere sottratto alla famiglia per essere portato a Roma ed educato cattolicamente. «I diritti del Padre celeste vengono prima dei diritti del padre terreno», sostenne Pio IX che, malgrado le proteste innescate dalla vicenda, anche in Europa, difese a spada tratta il suo operato (vedi Confronti, 3/2000).
Pio IX agì, si può presumere, in perfetta buona fede, e traendo le conseguenze dalla teologia che gli avevano insegnato; e con ciò, si porta ad esempio dei fedeli un papa che benedisse il rapimento di un bambino? La questione si arroventò ancor più quando fu annunciato che papa Wojtyla il 3 settembre del 2000 avrebbe beatificato, contemporaneamente, Pio IX e Giovanni XXIII: un papa che negava il principio della libertà religiosa e fomentava il disprezzo dell’ebraismo, e un altro papa che aveva voluto il Concilio Vaticano II anche per affermare il principio della libertà religiosa e recidere, nella Chiesa cattolica, il disprezzo teologico verso l’ebraismo. Cattolici critici e comunità ebraiche – partendo da punti di vista differenti, ma infine convergenti – protestarono. Ma Wojtyla tirò dritto. Rispondendo ai critici, il giorno della beatificazione puntualizzò: «La santità vive nella storia e ogni santo non è sottratto ai limiti e condizionamenti propri della nostra umanità. Beatificando un suo figlio la Chiesa non celebra particolari opzioni storiche da lui compiute, ma piuttosto lo addita all’imitazione e alla venerazione per le sue virtù, a lode della grazia divina che in esse risplende». Insomma, quello che conta sono le virtù private; se un papa, in buona fede, benedice il rapimento di un bambino, non esiste problema e, in un tempo nel quale tale decisione appare intollerabile, lo si propone a modello.

Il «silenzio» di Pio XII sulla Shoah

La questione del comportamento di Pio XII riguardo alla Shoah – la decisione nazista di sterminare programmaticamente il popolo ebraico – è ormai posta da tempo nelle sue linee essenziali. Senza riandare ad una polemica quarantennale (innescata nel 1963 dall’opera teatrale di Rolf Hochhuth, «Il Vicario», che accusava appunto Pio XII per il suo «silenzio»), riprendiamo la questione così come è stata condensata il 17 gennaio scorso, in occasione della visita di Benedetto XVI al tempio maggiore (la grande sinagoga) di Roma.

Il presidente della comunità ebraica romana Riccardo Pacifici, dopo aver ricordato «con immensa riconoscenza» un istituto di suore che, durante la guerra, salvò alcuni della sua stessa famiglia, disse a Ratzinger: «Questo non fu un caso isolato né in Italia né in altre parti d’Europa. Numerosi religiosi [cattolici] si adoperarono, a rischio della loro vita, per salvare dalla morte certa migliaia di ebrei, senza chiedere nulla in cambio. Per questo, il silenzio di Pio XII di fronte alla Shoah duole ancora come un atto mancato. Forse non avrebbe fermato i treni della morte, ma avrebbe trasmesso un segnale, una parola di estremo conforto, di solidarietà umana, per quei nostri fratelli trasportati verso i camini di Auschwitz. In attesa di un giudizio condiviso, auspichiamo, con il massimo rispetto, che gli storici abbiano accesso agli archivi del Vaticano che riguardano quel periodo e tutte le vicende successive al crollo della Germania nazista».

E il pontefice, nella sua risposta: «In questo luogo, come non ricordare gli ebrei romani che vennero strappati da queste case, davanti a questi muri, e con orrendo strazio vennero uccisi ad Auschwitz? Come è possibile dimenticare i loro volti, i loro nomi, le lacrime, la disperazione di uomini, donne e bambini? Lo sterminio del popolo dell’Alleanza di Mosè, prima annunciato, poi sistematicamente programmato e realizzato nell’Europa sotto il dominio nazista, raggiunse in quel giorno tragicamente anche Roma. Purtroppo, molti rimasero indifferenti, ma molti, anche fra i cattolici italiani, sostenuti dalla fede e dall’insegnamento cristiano, reagirono con coraggio, aprendo le braccia per soccorrere gli ebrei braccati e fuggiaschi, a rischio spesso della propria vita, e meritando una gratitudine perenne. Anche la Sede apostolica svolse un’azione di soccorso, spesso nascosta e discreta».

Il papa si è riferito alla deportazione degli ebrei romani (e prima di entrare in sinagoga aveva deposto una corona di fiori davanti alla lapide che ricorda il tragico evento del 16 ottobre 1943), ma su Pio XII ha glissato. Comunque, sembrerebbe scelta prudente e saggia, per la Santa sede, il non procedere alla beatificazione di Pio XII fino a che non siano aperti e studiati tutti gli archivi che lo riguardano: l’analisi di questo vastissimo materiale potrebbe – in teoria – portare motivi per confermare, o per smentire, la plausibilità del suo «silenzio». Perché affrettarsi, dunque? Ma se, tra qualche anno, dopo l’analisi degli archivi, il giudizio degli storici e dell’opinione pubblica, dentro e fuori la Chiesa romana, fosse incomponibile esattamente come lo è oggi?
Replicando alle critiche per la possibile beatificazione di Pio XII, il Vaticano ha, in sostanza, ripreso la tesi che Wojtyla apportò a proposito di Pio IX. Ma regge, una tale, distinzione? Anche dal punto di vista strettamente teologico intra-cattolico pende un dilemma: Pacelli, con il suo «silenzio», visse in modo «eroico» la virtù della prudenza (se avesse denunciato i nazisti – questa la tesi vaticana – avrebbe peggiorato ulteriormente la sorte degli ebrei), o mancò alla virtù della fortezza (che, ad esempio, avrebbe forse suggerito un gesto semplice ma decisivo: il papa che si reca al Portico di Ottavia, dove il 16 ottobre del’43 furono radunati gli ebrei romani da mandare ai lager nazisti, e là si inginocchia e prega in silenzio).

Naturalmente, la questione degli ebrei non è l’unica che, nel pontificato di Pio XII, pone problemi. Nota, ad esempio, Ettore Masina: «Il papa che con pronta generosità aveva trasformato le sue ville di Castelgandolfo in bivacco di profughi dai bombardamenti romani, pochi mesi più tardi con i decreti del suo Sant’Offizio [riferimento alla scomunica dei comunisti, del primo luglio 1949] espulse, o fece espellere, dalle chiese italiane, milioni di operai, contadini, pensionati accusandoli di essere “senza Dio” mentre era evidente che la stragrande maggioranza di loro aveva scelto di dare il proprio voto alle forze di sinistra soltanto per ottenere, per sé, per i figli ma anche per tutti i poveri, una vita più degna».

Luci ed ombre di Wojtyla

La questione delle virtù della prudenza e della fortezza si ripropone – in altro contesto – anche per Giovanni Paolo II. Fu, il suo, un pontificato multiforme, non riassumibile in poche parole. Si stanno moltiplicando libri e scritti che esaltano la sua figura, e lo reclamano «santo subito», come recitava un grande cartello innalzato in piazza san Pietro l’8 aprile 2005, il giorno del suo funerale. In tale clima di apoteosi le voci problematiche, che cercano di indicare luci e ombre, aspetti coraggiosi e flagranti contraddizioni delle sue scelte, sono state tacitate. Ma alcune domande restano, come quelle poste (vedi articolo seguente) da Giovanni Franzoni quando fu convocato al Vicariato di Roma per deporre davanti alla Postulazione per la causa di beatificazione di Karol Wojtyla. Una, in particolare: esercitò egli in grado «eroico» la virtù della prudenza, quando impedì che la giustizia italiana indagasse su personalità vaticane connesse con i torbidi rapporti tra il Banco Ambrosiano di Roberto Calvi e lo Ior (Istituto per le opere di religione, la banca che è in Vaticano, guidato da monsignor Marcinkus), o, al contrario, venne sostanzialmente meno alla virtù della fortezza, che avrebbe dovuto dargli il coraggio di accettare che si facesse luce su uno scandalo che ancora oggi turba molte coscienze?

Non vi è bisogno di ribadire la complessità dei pontificati di Pacelli e di Wojtyla, nei rispettivi contesti storici. Proprio tenendo conto di essi, sorge l’impressione che, elevandoli agli onori degli altari, si voglia sorvolare sulle loro contraddizioni, per esaltare l’istituzione papale in sé. Negli ultimi 150 anni si sono susseguiti, escluso il pontefice regnante, dieci papi: tra essi vi è un santo (Pio X, canonizzato nel 1954), due beati (Pio IX e papa Giovanni), e due possibili prossimi beati (Pacelli e Wojtyla). Una media alta di «santità» che, però, finisce per… mettere a disagio il papa non proclamato beato/santo.

Una regia istituzionale guida la «politica» di certe beatificazioni: Pio X fu esaltato sottacendo le sue responsabilità nella repressione esasperata del Modernismo; Wojtyla «accoppiò» Pio IX e papa Giovanni per sottolineare la continuità del magistero ecclesiastico, anche quando sostiene tesi contrapposte, e fare così contenti «conservatori» e «progressisti». E, adesso, la proclamazione contemporanea delle «virtù eroiche» di Pacelli e di Giovanni Paolo II obbedisce alla stessa logica. A ben scavare non sarebbe così, ma i lefebvriani esulterebbero se fosse beatificato Pio XII. E invece rimarrebbero sconcertati i diciotto accademici cattolici – statunitensi, tedeschi ed australiani – che a metà febbraio hanno scritto a Benedetto XVI «implorandolo» di soprassedere a quella beatificazione fino a che non siano studiati tutti i documenti d’archivio su Pacelli. Ma, per ora, sembra estranea nel palazzo apostolico vaticano, l’idea che sia opportuno lasciare questi pontefici nel loro «chiaroscuro» e che possa essere saggio non elevare alla gloria degli altari papi la cui eredità è oggetto di contrapposte valutazioni, e le cui virtù private hanno talora avuto, volenti essi o nolenti, gravi conseguenze pubbliche che ancora costituiscono scandalo per molti, cattolici e non.

David Gabrielli

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