Wojtyla e il caso Ior: quale «fortezza»? - Confronti
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Wojtyla e il caso Ior: quale «fortezza»?

by redazione

Convocato dal Vicariato di Roma per una deposizione di testimonianza nel processo di beatificazione di Giovanni Paolo II, Franzoni ha espresso motivati dubbi sulle virtù della prudenza e della fortezza del pontefice, in particolare per aver egli obiettivamente impedito l’accertamento delle responsabilità dello Ior (la banca vaticana) nel crack del Banco Ambrosiano.

L’apertura ufficiale, il 25 giugno 2005, del processo di beatificazione di Giovanni Paolo II innescò un coro di voci osannanti; tuttavia alcuni teologi e teologhe europei, nel dicembre successivo, in un pubblico appello espressero voci dissonanti. Nel piccolo gruppo vi era Giovanni Franzoni che, il 7 marzo 2007, fu convocato dal Vicariato di Roma per rendere la sua deposizione giurata in merito all’avviato processo. L’ex abate di san Paolo fuori le Mura, e padre conciliare, ha mantenuto il segreto sulla sua deposizione, fino a che la causa, nel novembre scorso, non è stata chiusa, per la fase che riguardava il Vicariato. Dopo di allora, diversi prelati hanno espresso alla stampa testimonianze di fatti che, a loro giudizio, dimostrano appunto la santità di Wojtyla. Nessun cenno era fatto alle voci critiche emerse in sede di Tribunale contro la beatificazione. In tale contesto Franzoni ha ritenuto di non essere più tenuto al segreto e ai primi di dicembre rendeva nota la sua testimonianza, dalla quale qui riportiamo solo il punto che riguarda il caso Ior-Banco Ambrosiano (per il testo completo, si veda il sito www.confronti.net).

Sul pontificato di Giovanni Paolo II incombe un’ombra nera che, a mio parere, mostra come quel pontefice violò gravemente le virtù della prudenza e della fortezza: mi riferisco a come egli gestì la vicenda dell’Istituto per le opere di religione [Ior, la banca vaticana] in connessione con il crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi. Non è, questo, il luogo per esaminare in lungo e in largo la complessa vicenda; mi limito a rilevare che giudici italiani erano giunti alla conclusione che monsignor Paul Marcinkus, presidente dello Ior, aveva avuto gravissime responsabilità per il crack dell’Ambrosiano e, dunque, dalla Città del Vaticano doveva essere estradato in Italia per essere arrestato e interrogato. Del resto, questa era anche la possibilità, per lui, di dimostrare limpidamente la sua innocenza e l’infondatezza delle accuse addebitategli.

La linea difensiva della Santa Sede, in tale vicenda, non fu quella di accertare se le accuse a Marcinkus fossero fondate, ma solamente quella di respingere, in quanto a suo parere contrastanti con i Patti lateranensi, le richieste della magistratura italiana, perché queste avrebbero interferito in un àmbito e in uno Stato (Vaticano) in cui l’Italia non poteva entrare. In effetti, dopo una lunga schermaglia giuridica e diplomatica, la stessa Corte di Cassazione nel luglio 1987 diede ragione alle tesi vaticane. Senza entrare in questioni giuridiche, la domanda da porsi è la seguente: Giovanni Paolo II favorì l’accertamento della verità sul caso Ior? La risposta, mi pare, è negativa. Infatti, il papa decise, o lasciò che decidessero, di impedire, con pretesti giuridici, l’accertamento della verità. Infatti, ammesso e non concesso che i giudici italiani non avessero titolo a chiedere l’estradizione di Marcinkus, nessun processo pubblico si è tenuto nella Città del Vaticano per accertare i fatti. Wojtyla diede allora, e offre anche oggi, motivi fondatissimi per dubitare dell’innocenza di Marcinkus e, anche, della trasparenza della gestione economica della Santa Sede. Pochi mesi dopo i fatti sopra citati (l’appello ai Patti lateranensi per evitare l’estradizione di monsignor Marcinkus), Wojtyla, il 26 novembre 1982, così affermava alla conclusione di una plenaria del Collegio cardinalizio che aveva discusso anche dello Ior: «La Santa Sede è disposta a compiere ancora tutti i passi che siano richiesti per un’intesa da entrambe le parti perché sia posta in luce l’intera verità. Anche in questo, essa vuole solo servire la causa dell’amore».

Mai parole tanto impegnative sono state altrettanto contraddette: infatti, pubblicamente, nulla ha fatto Wojtyla per fare accertare la verità. È vero, ha poi riformato lo Ior e allontanato Marcinkus: ma la verità sui rapporti tra il prelato e Calvi, e il crack dell’Ambrosiano, non si è potuta sapere, da parte vaticana. E il fatto che la Santa Sede, pur dicendosi estranea al crack dell’Ambrosiano, abbia dato, a titolo di buona volontà, un sostanzioso contributo per aiutare chi da quel crack aveva subito ingenti danni economici, non risolve affatto, ma rende più aspro, il problema di fondo. Beatificare un papa che, su un tema tanto scottante, non ha fatto luce, mi sembrerebbe assai grave. L’impressione – dall’esterno – che molti hanno è che, al dunque, Wojtyla abbia sacrificato l’accertamento della verità per non compromettere l’istituzione ecclesiastica che avrebbe subito danni rilevantissimi se il mondo intero avesse scoperto trame incredibili e imbrogli economici inimmaginabili. Per non parlare dello sbigottimento di milioni di semplici fedeli cattolici nel mondo intero. Dal punto di vista religioso, a me pare che, nel caso citato, Wojtyla sia venuto meno, in modo obiettivamente gravissimo, alle virtù della prudenza e della fortezza: la prudenza che avrebbe dovuto imporgli, come capo della Chiesa cattolica romana, di salvaguardare il buon nome di tale Chiesa, e dunque di fare ogni cosa per accertare la verità; la fortezza, che avrebbe dovuto spingerlo ad opporsi alle prevedibili resistenze dell’apparato ecclesiastico della Curia romana restia a «scoprire gli altarini». Quali che siano state le motivazioni soggettive per cui il papa agì come agì (motivazioni che io non so), il risultato pubblico di tale decisione è aver obiettivamente impedito l’accertamento della verità. Come persona il papa forse non ha fatto nulla di male o, soggettivamente, ha creduto di non farlo; ma come pontefice ha compiuto un gesto gravido di conseguenze.

Giovanni Franzoni

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