Mentre l’intero paese discuteva sul rispetto delle regole, il ministro Gelmini ha dato il via alla sua riforma «epocale» della scuola superiore senza essere in presenza d’una nuova legge. Le famiglie hanno quindi iscritto i figli a scuole e a indirizzi sulla base di informazioni non credibili.
Il 5 marzo scorso, all’uscita dall’aula pasticcera del Consiglio dei ministri che aveva appena sfornato il decreto «interpretativo» della legge elettorale, il Tg1 di Minzolini pensava di chiederne una valutazione, prima d’ogni altro, alla ministra Gelmini che, lapidaria e magisteriale, dichiarava: «Non esiste questione alcuna di democrazia, ma si tratta solo di uso delle regole con buon senso».
Ma perché proprio la ministra dell’Istruzione – ci si può chiedere – a fare da portavoce a un atto di governo così destabilizzante? Era, forse, un modo di parlare al paese attraverso il responsabile pedagogico-educativo degli ottocentomila docenti della scuola e delle decine di migliaia di loro dirigenti e, quindi, alle famiglie degli otto milioni di studenti di riferimento? Così, per tranquillizzare tutti: c’è pur sempre un luogo – la scuola – dove qualcuno deve e sa insegnare quale sia il senso «buono» delle regole. Circostanza vuole che la stessa ministra, e proprio in quei giorni, dava il via alla sua riforma «epocale» della scuola superiore – inviando circolari alle scuole, dando disposizioni ai dirigenti, fissando al 27 marzo il termine ultimo per l’iscrizione alla prima classe – e tutto questo senza essere in presenza d’una nuova legge: i testi dei tre nuovi regolamenti, che circolavano in modo ufficioso da fine febbraio sui vari siti, non avranno né il parere favorevole dalla Corte dei conti né la firma del presidente della Repubblica né la pubblicazione sulla Gazzetta ufficiale fino a pochi giorni dal termine delle iscrizioni. E intanto i collegi dei docenti si arrabattavano sconsolati per capire cosa succedesse, le scuole producevano offerte formative improvvisate e precarie, le famiglie iscrivevano i figli a scuole e a indirizzi sulla base di informazioni non credibili: tutti comunque vincolati da una legge vigente e non da quella soltanto proclamata. Una gestione della cosa pubblica priva non solo del criterio delle regole affidate al cosiddetto «buon senso», ma nella pura e semplice assenza di regole.
«Ma è una questione di forma, non di sostanza!», avrebbe anche qui ripetuto il presidente del Senato Schifani, correndo in aiuto dell’approssimativa ministra. E ignorando il fatto che la forma non è un involucro esterno ai tessuti, ma è già essa stessa tessuto; la forma è la pelle del corpo: ci si provi a scuoiarlo e si vedrà quanto potrà sopravvivere…
Allora, forse, è il caso di ricordare alla Gelmini che nella scuola da lei governata – cioè là dove si formano i cittadini fino alla loro maggiore età – il primo compito che hanno dirigenti ed educatori è di far scoprire e capire ai giovani il senso e l’accettazione del limite: fin qui, sì; più in là, no. Limite che è stabilito dalla Regola, non a disposizione di una singola persona né di un gruppo di individui; né affidata al buon senso di uno piuttosto che di altri. La prima regola che a tutti è stata data – cittadini e governanti – è la Costituzione italiana con tutte le leggi che, nel tempo, essa ha generato. Non sarà richiesto ai giovani che amino le leggi, ma è necessario che le conoscano: e conoscerle vuol dire essere in grado di analizzarle e capirle, ma anche criticarle e giudicarle. Scoprendone i lati deboli, dovranno chiedere di migliorarle. Valutandole inutili, lavoreranno per eliminarle. Ritenendole non buone o dannose, potranno contestarle e protestare. Ma hanno da sentirsi dire – anche, e prima tra tutti, dalla loro ministra – che una legge va osservata così com’è, fin che c’è. Sempre, a meno che non violi la coscienza, ché allora l’obbedire non sarebbe più virtù civile ma un modo subdolo di evitare conseguenze punitive.
Rispettare le regole, volerne di migliori e lavorare perché arrivino. Questo è il «senso» delle regole, cioè la loro direzione, da indicare ai giovani. Che è sempre senso «buono».
Giuliano Ligabue