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La sfida della democrazia alla Chiesa romana

by redazione

Cinque secoli fa il papato avviò la politica del segreto nella trattazione – per tanto tempo poi riservata all’Inquisizione – del «delitto» della pedofilia del clero. Questa scelta, ribadita da Ratzinger nel 2001, oggi mostra i suoi frutti amari, e pone lo stesso papato di fronte ad un bivio drammatico e ineludibile.

INTERVISTA AD ADRIANO PROSPERI

Storicamente parlando, professore, come è stata affrontata, nel secondo millennio, dalla dottrina, dalla legislazione e dalla prassi della gerarchia della Chiesa cattolica, la questione delle violenze sessuali su minori compiute da chierici?

Nella società del passato, all’interno della cultura europea e cristiana – di questa qui ci occupiamo – nella tradizionale visione del rapporto tra i sessi le categorie più deboli erano i bambini e le donne. Oggi questa visione è tendenzialmente superata ma, allora, in una società maschilista, i più deboli dovevano subire l’aggressività di un certo tipo di sessualità. Nella vita quotidiana di allora la separazione delle stanze, dei letti, dei contesti di difesa e della privatezza, creati dalla nostra attuale cultura, erano sconosciuti; quindi la convivenza indiscriminata, la presenza nello stesso letto di persone di età e di sesso diverso hanno sempre fornito «materiale» sotto due profili: quello del peccato e, sotto l’aspetto del crimine, del delitto. Bisogna tener presente questo punto fondamentale. E vi erano allora – per affrontare la questione anche dal punto di vista giuridico – una pluralità di Fori, dato che la divisione dei tribunali in base alla natura dell’atto colpevole era una caratteristica della tradizione europea e del Diritto della Chiesa. Lo ha esposto molto bene Paolo Prodi nella sua opera fondamentale sull’argomento («Una storia della giustizia», ed. Il Mulino). In sintesi: almeno fino alla metà del XV secolo, la Chiesa affrontava separatamente il problema del peccato come infrazione alla morale dei dieci comandamenti da quello del crimine come infrazione alle leggi: in sede di confessione il primo, in sede di tribunale di foro esterno il secondo. Il tribunale vescovile aveva, ricordiamolo, anche una giurisdizione di natura esterna.

A metà del XV secolo si avvia un meccanismo diverso: si trasferisce ad un tribunale segreto e dipendente dall’autorità papale – la Penitenzieria apostolica – una grande quantità di materie che prima erano affrontate da tribunali di foro esterno. Tale Penitenzieria, nata prima del Duecento per gestire la giustizia della Chiesa, viene molto rafforzata dalle riforme di Eugenio IV (+1447) e di Sisto IV (+1484), divenendo un cardine della Curia romana in un momento in cui il papato, superando la crisi provocata dal Grande Scisma di Occidente (1378-1417) e dal Conciliarismo, si rafforza anche come una autorità di tipo statale. In tale contesto, la Penitenzieria si afferma come una specie di tribunale papale centrale che tratta una vastissima gamma di reati, alcuni di criminalità comune: il variegato elenco comprendeva il sacrilegio, gli abusi sessuali, la sodomia, la simonia, l’infanticidio. Perfino l’eresia, considerata allora un crimine gravissimo: vi era la possibilità di farsi assolvere dal crimine di eresia rivolgendosi direttamente alla Penitenzieria, invece di passare attraverso l’Inquisizione. La Penitenzieria apostolica era dunque il tribunale supremo in cui il papa assolveva attraverso autorità delegate da casi riservati a se stesso come suprema autorità spirituale; un tribunale di foro interno davanti al quale si portano una serie di fatti che invece appartengono alla criminalità comune, e quindi sono (sarebbero) soggetti ai tribunali di foro esterno.

Ad indurre a questa trasformazione è stata la nascita, in quel periodo, di potenti monarchie nazionali e l’evoluzione conseguente del papato; il papato, in competizione con altri poteri statali, cerca dunque di trasferire ai propri tribunali tutta una serie di reati sottraendoli alla giustizia di foro esterno, cioè al tribunale laico. In prospettiva scompare perciò la distinzione tra peccato e reato.

Inizia così una «gara»: l’avanzata della Chiesa per cancellare gli elementi distintivi tra peccato [di fronte a Dio e/o ai comandamenti ecclesiastici] e reato [di fronte alle leggi dello Stato], sottraendo il reato al potere civile. La Riforma protestante porta ad aggiungere una motivazione decisiva: la necessità di tutelare l’onore della Chiesa, considerata ristretta al solo corpo ecclesiastico, col ricorso al segreto per tutto ciò che, se risaputo, poteva alimentare le critiche del «nemico». E questo in un contesto in cui la Chiesa di Roma consolida l’obbligo del celibato ecclesiastico e lo pone in rapporto alla difesa dell’Ordine sacro come sacramento. Ritengo che questo sia l’inizio di un fenomeno di cui noi oggi, pur in circostanze ovviamente mutate, cogliamo le ultime conseguenze. Parliamo dell’imbarazzo della Chiesa romana di fronte ad un problema come quello della sessualità del clero e delle violenze sessuali di cui il corpo dei confessori diventa protagonista. Infatti, in questa vicenda si riassume una contraddizione di fondo che nasce proprio dal modo in cui il papato, secoli fa, reagì ad un mutamento dei rapporti di forza della società europea, cercando di imporre la giurisdizione dei suoi tribunali di foro interno e di coprirli col segreto, il che inizialmente fu una misura prudenziale a protezione del lavoro del giudice dell’Inquisizione.

La lotta con l’Europa protestante e la «gara» con i poteri laici che la Chiesa ha avviato allora è proseguita affidando il compito di giudicare in segreto i delitti sessuali del clero al tribunale dell’Inquisizione romana, che nasce a metà del secolo XVI per affrontare i casi di eresia, cioè fatti squisitamente mentali, di cultura, di fede; a questo tribunale segreto e terrorizzante per i poteri assoluti che ha e per le sentenze che eroga viene affidato il crimine della sollicitatio ad turpia, cioè il crimine compiuto dal clericus (sacerdote o vescovo) che confessando un penitente prova a sedurlo. Il segreto cresciuto fino a diventare simile a quello della confessione sacramentale, e la terribile fama del Sant’Uffizio, appaiono come i caratteri necessari per terrorizzare i confessori «sollecitanti» ma anche per impedire che le loro gesta venissero risapute in pubblico portando acqua al mulino degli avversari di fede e indebolendo la fiducia popolare in coloro che erano delegati all’ascolto paterno e al perdono misericordioso. Per compiere questo passaggio si ricorre ad un arzigogolo strumentale: si cerca di caratterizzare il comportamento peccaminoso del confessore come una specie di eresia dottrinale, perché egli, con il suo atteggiamento, dimostrerebbe di non credere al carattere sacramentale della confessione, o di disprezzarlo, inclinando così verso le eresie del mondo e verso quelle dei Riformatori protestanti. D’altra parte il carattere specialmente pericoloso e inquietante (per la Chiesa) di questo delitto consiste nel fatto che chi ha il potere di confessare e di perdonare ne fa spesso uso per convincere l’oggetto della seduzione e della violenza sessuale che lui, il colpevole, è anche colui che può cancellare la colpa con l’assoluzione di chi è diventato più o meno volontariamente suo complice.

Si inserisce in questo contesto il rapporto tra Inquisizione, «sollicitatio ad turpia» e segreto imposto?

La Suprema congregazione del Sant’Uffizio dell’Inquisizione, il tribunale abilitato ad occuparsi della sollicitatio ad turpia, nelle avvertenze periodicamente ribadite a partire dal 1559, riafferma spesso il segreto imposto su tale materia; ma è un segreto strumentale. Da un lato, infatti, è un segreto ufficiale con cui il tribunale dell’Inquisizione copre formalmente la sua attività: un segreto che nasceva dal carattere stesso del processo inquisitorio, che doveva svolgersi senza rumore per evitare il tumulto dei litigi, al fine di arrivare rapidamente alla verità; dall’altro, invece, diventa un segreto sacramentale, perché la giustificazione del segreto dell’Inquisizione è fatta riconducendo il tribunale di questa a quello del confessore, con una copertura largamente impropria. Il carattere strumentale di questo ricondurre il reato sessuale del chierico sotto la giurisdizione dell’Inquisitore è quello di difendere l’onorabilità del corpo ecclesiastico: non, si badi, della Chiesa come insieme di fedeli credenti e di sacerdoti, ma della Chiesa come società di chierici, costituiti in una condizione di speciale differenza da tutti gli altri. Si vuole cioè difendere questa società di chierici che abitualmente si chiamerà, da adesso, Chiesa (e ciò fino al Concilio Vaticano II quando si comincerà a parlare di comunità ecclesiale, e di Chiesa come «popolo di Dio»).

Dunque, a partire dalla metà del Cinquecento, l’insieme del corpo degli ecclesiastici viene posto sotto la protezione di una regola speciale. Il clero ministeriale, il clero sacramentale, il clero che è coperto dall’ordinamento dell’Ordine sacro, deve difendere la sua onorabilità come corpo; non deve offrire al nemico, al critico, al seguace di Lutero e di Calvino, la possibilità di poterlo accusare di quelle colpe che disonorerebbero il chierico. Per questo tutta la pratica giudiziaria relativa ai reati di sollicitatio ad turpia svanisce e viene coperta per secoli nel segreto. Infatti, ancora oggi non sappiamo quasi niente di questi processi; però sappiamo, per esempio, che quando qualche vescovo ha tentato di ricondurre il comportamento del chierico, colpevole di reati di sollicitatio, sotto la sua giurisdizione, si è scontrato con una precisa chiusura da parte delle autorità centrali e del papato. Ho presente in modo particolare una lettera di protesta di un vescovo di Bergamo che a metà del Settecento scrive a papa Benedetto XIV, protestando perché ha saputo che un confessore, accusato disollicitatio, è indagato presso l’Inquisizione, ma che questa non gli ha riferito nulla, e così lui, come vescovo, ha continuato a delegare questo prete all’ufficio di confessore. Tali prassi comportavano che i vescovi non potessero ben guidare il loro gregge dato che la stessa autorità ecclesiastica centrale nascondeva loro cose che avrebbero dovuto sapere. La soluzione decisa da papa Lambertini fu quella di mantenere comunque il segreto sui casi e di confermare l’avocazione delle denunzie al Sant’Uffizio per tutelare l’onore della Chiesa.

Insomma, il criterio era: è necessario evitare gli scandali per non offrire argomenti a chi guarda la Chiesa dall’esterno o ai semplici laici; se dunque vi è stato segreto e se vi è stata sottrazione del colpevole al suo giudice lo si è fatto per preservare la Chiesa da critiche e infamie. Questo è stato l’argomento, e lo sfondo, che ha retto il funzionamento della materia per secoli; e che oggi è esploso.

Veniamo all’attualità. Per 23 anni prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, il cardinale Ratzinger è «politicamente» responsabile della gestione vaticana dei casi di pedofilia del clero. Ma, proprio nel documento da lui firmato nel 2001, non vi è alcun cenno – e tanto meno un obbligo – ai vescovi di rinviare alla magistratura civile i preti e religiosi pedofili. Dal 2005 quel cardinale è diventato papa. La sua credibilità appare fortemente scossa. In tali frangenti, sono del tutto fuori luogo le richieste di sue dimissioni proposte da alcuni settori della stessa Chiesa cattolica, oltre che da settori del mondo laico?

Per 23 anni alla guida della Cdf, egli poteva dire che c’era della sporcizia nella Chiesa; ma, forse, bisognava aggiungere anche che il bidone della sporcizia era quello alla cui guardia era appunto preposto il dicastero di cui lui era prefetto, e che per anni ha avuto monsignor Bertone come segretario. Le materie da essi trattate sono ancora archivisticamente nascoste; tuttavia è possibile leggere i documenti del funzionamento della Cdf che sono stati raccolti e pubblicati nel 2005 dal cardinal William J. Levada, successore di Ratzinger alla guida del dicastero, e apprendere da quei testi che il reato di sollicitatio continua ad essere materia riservata alla stessa Cdf. È come se la cancellazione dell’antico Sant’Uffizio, decisa da Paolo VI nel 1965, non fosse avvenuta; e quindi è là che si sono rifugiate tutte queste materie e si è ripreso ad operare in un clima, in un contesto e con atteggiamenti che con la trasparenza del Concilio Vaticano II avevano poco a che fare.

Va poi richiamato un particolare importante: la Cdf nell’epoca della direzione Ratzinger ha accolto e ribadito il segreto sulla materia che per iniziativa diretta del cardinal Alfredo Ottaviani – capo della stessa Congregazione che allora ancora si chiamava del Sant’Uffizio – era stata definita del «crimine pessimo», cioè la violenza sessuale di ecclesiastici su bambini. Il documento segretissimo del 1962 innovò improvvisamente la tradizione riferendosi in modo specifico alla questione che oggi è al centro dell’attenzione del mondo. Si tratta di una vera svolta storica, nel senso che sul solco antico si innesta un crimine nuovo e spaventoso: evidentemente il cardinal Ottaviani aveva motivi seri per ritenere che la cortina del segreto assoluto dovesse avvolgere questo delitto quando elaborò il regolamento in materia: e a leggere l’istruzione (che oggi finalmente troviamo anche su Internet grazie all’avvocato americano che l’ha «scovata» e diffusa ai media) si è colpiti dalla insistenza sul velo della segretezza assoluta e sui giuramenti imposti ai denunzianti.

Questo, del segreto, è il punto su cui si dovrebbe concentrare l’attenzione dei commentatori: non si tratta solo del carattere tutto speciale del delitto di colui che il linguaggio religioso definisce «padre» nei confronti di creature indifese che gli vengono affidate, ma anche e soprattutto della strategia scelta dalla Chiesa e garantita personalmente dai pontefici che hanno firmato quelle istruzioni e dai prefetti e segretari della Congregazione: strategie che hanno comportato il divieto di rivelare in pubblico e perseguire con pene adeguate i delinquenti, garantendo di conseguenza la permanenza degli stessi delinquenti al loro posto: lupi nel gregge. Questa è la responsabilità storica e istituzionale davanti alla quale anche le lacrime papali a Malta e le parole di pentimento là pronunciate appaiono inadeguate.

Che cosa farà adesso Benedetto XVI non si può sapere, e certo non spetta a me dare consigli. Ritengo tuttavia che la richiesta delle sue dimissioni, sollevata da alcuni ambienti, sia destinata a non trovare ascolto; sarebbe come chiedere a un monarca la propria auto-decapitazione. Esiste però il problema che i fedeli rivedano il loro rapporto con l’autorità ecclesiastica, se questa non sa dare risposta ad una domanda di giustizia, e non sa correggersi. Dunque, come ci fu per Wojtyla, vi è anche per Ratzinger il problema di dover fare i conti con il Concilio Vaticano II. E la Chiesa del Concilio aveva varcato certe soglie, si era avvicinata con movimento deciso e franco alla società democratica moderna. Una società che sente come urgenza inderogabile il rapporto tra diritti umani e giustizia, tanto da non poter sopportare nessuna privativa di corpo speciale e nessun trascinamento di regole antiche che possa eluderlo.

A mio parere il punto fondamentale è capire quale rapporto la Chiesa vuole avere con la democrazia. Le malintese difese che in questi giorni si sono ascoltate su questo tema, parlando addirittura di congiura sionista, sono allucinanti, ma sono dei segnali decisivi: infatti, se si rifiuta la democrazia, se si rifiuta la concezione di giustizia del mondo moderno, si intende tornare ad una cultura in cui la lotta era tra la Chiesa e il mondo moderno. Si diventa la Chiesa che ha espulso monsignor Lefebvre e che poi vuole riassorbire il vescovo Williamson, negazionista della Shoah, e i Lefebvriani. La scelta è questa, e sostanziale. Chiunque sia papa oggi non può ignorare – ritengo – la nettezza della scelta. Ma i movimenti che ha fatto il pontefice regnante sono stati tutti verso una netta direzione, la direzione del recupero voluto da papa Wojtyla delle basi della fede dei semplici, della fede tradizionale, delle forme delle adunate oceaniche. Ma, investire in questa direzione di un fondamentalismo di base sarebbe, a mio avviso, una scelta suicida. Porterebbe la Chiesa cattolica a chiudersi in un recinto con carattere di un fondamentalismo preoccupante e la porterebbe soprattutto a perdere quello che il papato di Wojtyla ha portato al suo attivo, come la capacità di muoversi per il mondo, di essere ascoltato ovunque.

Oggi è scomparso il nemico diabolico del comunismo contro il quale marciava il pontificato di Wojtyla; oggi il tema dovrebbe essere non quello del mondo dei blocchi contrapposti [Est contro Ovest], ma quello della democrazia. Con le regole della trasparenza e della comunicazione che, tra l’altro, prevedono la denuncia dei pedofili alle autorità civili. Questo potrebbe essere un passo positivo in avanti. Ma invece assistiamo stupefatti alle dichiarazioni di Bertone, il cardinale segretario di Stato, che lega omosessualità e pedofilia! Forse, in Italia almeno, una parte della gente accoglierà l’idea, lanciata da alcuni porporati, che le denunce della stampa contro la pedofilia del clero siano parte di un attacco pretestuoso contro la Chiesa; ma un’altra parte della gente, e molta parte del clero, rifiuterà questa idea come difensiva e improponibile.

Sarebbe utile, a suo giudizio, un nuovo Concilio per superare l’attuale crisi della Chiesa cattolica?

La scelta di un nuovo Concilio sarebbe un gesto clamoroso, ma ci vorrebbe capacità decisionale e creativa fortissima per avviarsi in questa direzione. Non bisogna comunque dimenticare che il papato ha sempre considerato il Concilio il proprio avversario, fino a quando il Concilio non è diventato uno strumento papale, come il Vaticano I. E, per aver convocato il Vaticano II, Giovanni XXIII subì delle accuse violentissime proprio dagli stessi ambienti che oggi accusano la stampa, che parla di pedofilia del clero, di lavorare per una congiura sionista contro la Chiesa. Dunque, decidere un nuovo Concilio sarebbe certamente una scelta di grande profilo.

(intervista a cura di Gian Mario Gillio)

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