In questi due anni abbondanti di governo Berlusconi, i problemi del lavoro si sono sempre più ingigantiti. Sono aumentate la disoccupazione e la precarietà, ma soprattutto ci sono sempre più persone vinte dalla rassegnazione che addirittura rinunciano del tutto a cercare lavoro. A tutto questo, deve aggiungersi la pericolosa sottovalutazione, da parte della maggioranza, della situazione di crisi che stiamo vivendo e una manovra economica iniqua, che colpisce solo i redditi più bassi.
Damiano è capogruppo del Pd alla commissione Lavoro della Camera.
Sembra che per il governo Berlusconi il lavoro sia un nemico da battere. Quasi a metà legislatura è possibile tracciare un primo bilancio sull’azione del centrodestra su questo fronte. E il bilancio è negativo, mentre le prospettive sono tutt’altro che rosee. Per chi un lavoro ce l’ha, per chi il lavoro lo ha perso e per chi il lavoro non lo riesce a trovare. Trimestre dopo trimestre, i dati Istat sull’occupazione fotografano una realtà drammatica. L’ultima rilevazione parla di un 9,1% di senza lavoro, il dato peggiore dal 2005. Le persone in cerca d’impiego sono due milioni e 273mila: rispetto a un anno fa, il 14,7% in più. Si tratta di dati ufficiali, che non tengono conto di chi è sottoccupato e di quanti, sfiduciati (soprattutto donne, soprattutto al sud), un lavoro hanno smesso di cercarlo. E si tratta di dati destinati a peggiorare nei prossimi mesi, quando per centinaia di migliaia di operai e impiegati finiranno i periodi di cassa integrazione e scatterà la mobilità. Eppure, mentre scriviamo, a due mesi dalle dimissioni di Scajola, il governo non ha ancora provveduto a nominare il nuovo ministro dello Sviluppo economico. Un’omissione che dice molto sulla sottovalutazione della situazione di crisi in cui siamo immersi.
Ma c’è di peggio. Mentre non ha fatto nulla per favorire la ripresa, l’esecutivo ha continuato nella sua opera sistematica di smantellamento delle tutele a favore del lavoro dipendente. In questa prima metà di legislatura il governo Berlusconi, introducendo il ricorso all’arbitrato secondo equità, ha sferrato – in sordina, ma con determinazione – l’attacco contro la non derogabilità di leggi e contratti nazionali. E si è spinto oltre. Ha svuotato il ruolo del giudice del lavoro togliendogli ogni controllo di merito. Ha cancellato le norme che proteggevano le lavoratrici dalle dimissioni in bianco. Ha assunto i contratti a termine come normale strumento per l’attività aziendale. Ha reintrodotto lo staff leasing e il lavoro a chiamata, istituti (a suo tempo cancellati dal governo Prodi) che esaltano la precarietà del lavoro. Ha derogato al diritto di precedenza a favore dei precari in caso di assunzioni a tempo indeterminato. Ha depotenziato il Testo unico sulla sicurezza nei luoghi di lavoro. Ha reso più difficili le ispezioni a tutela della regolarità della prestazione lavorativa. Ha sostituito il diritto al riposo settimanale con una media quindicinale. Ha ridotto la durata dell’obbligo scolastico sostituendolo con il completamento attraverso un contratto di apprendistato, dando così carta bianca alle aziende in materia di attività formativa. E non si è fermato.
Guardiamo la manovra finanziaria. È una manovra necessaria a causa della crisi internazionale, ma la sua consistenza è anche il frutto degli errori dell’esecutivo. Per due anni Berlusconi e i suoi ministri hanno prima escluso e poi minimizzato la portata della crisi e adesso abbiamo a che fare con una manovra socialmente iniqua. Il premier e i ricchi come lui non pagheranno un centesimo. Pagheranno i redditi più bassi. Indirettamente, con il taglio dei trasferimenti a Regioni e Comuni, ma anche direttamente. Con l’introduzione della «finestra mobile» si andrà in pensione più tardi. Un anno se si è dipendenti, 18 mesi se si è autonomi. Con l’aumento dell’età pensionabile, se si è donne dipendenti dalla pubblica amministrazione. Pagherà il pubblico impiego che per quattro anni non potrà contare su alcun incremento salariale (e a risentirne non saranno certo i top manager).
Più avanti, stando agli annunci del ministro Sacconi, pagheranno tutti i lavoratori dipendenti. Al posto dello Statuto dei lavoratori, è allo studio uno «Statuto dei lavori» dalla «cornice leggera», basato sul principio della derogabilità di leggi e contratti, nel solco dell’ormai noto «collegato lavoro». E le tutele saranno ulteriormente ridotte. Poi viene Tremonti, con il suo proposito di rivedere l’articolo 41 della Costituzione, quello relativo alla libertà d’impresa. Meno vincoli anche su questo fronte. Per favorire la nascita di nuove aziende, nei fatti per ridurre regole e tutele, ritenute, anziché espressione di civiltà, un insopportabile intralcio alla libertà del fare (ciò che si vuole).
È un cerchio che tende a chiudersi e che mira a destrutturare il modo di lavorare, di produrre, di fare impresa. È un attacco concentrico ai diritti e alle tutele, che farà pagare il prezzo più alto ai giovani. E che stringerà nella morsa il sindacato.
Il governo, in questi anni, ha perseguito in modo lucido un obiettivo: dividere le tre grandi confederazioni. I contratti separati, l’intesa su Pomigliano – dove, sotto una sorta di ricatto occupazionale, è stato messo in discussione perfino il diritto di sciopero – sono lì a dimostrarlo. Ma intende andare oltre. Favorire la rappresentatività territoriale del sindacato – come ha fatto nel «collegato lavoro» – significa puntare, anche, alla destrutturazione del sindacato nazionale confederale come si è affermato nel corso del Novecento. Un rischio immanente di cui dovremo tutti renderci conto.
La globalizzazione lancia al vecchio continente nuove sfide. Vanno raccolte. Innovare non significa però mettere in soffitta le conquiste di civiltà legate a decenni di lotte e di confronti. Il governo Berlusconi sembra invece volerlo fare. In nome di un neoliberismo corporativo e accattone.
Cesare Damiano