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Le navi hanno rotto il silenzio politico

by redazione

INTERVISTA A FILIPPO LANDI

Nostra intervista al corrispondente Rai da Gerusalemme. «Siamo di fronte ad un errore politico che ha danneggiato l’immagine di Israele nel mondo, ma questo errore è la conseguenza di una politica che, di fronte al problema Gaza, e più in generale di fronte al fenomeno politico Hamas, non riesce ad allontanarsi da una logica militare che ha mostrato in occasione dell’assalto alle navi tutta la sua debolezza politica».

L’attacco contro «Freedom flotilla» da parte dell’esercito israeliano ha suscitato molte critiche a livello internazionale. Secondo lei è stato un errore politico, con l’ennesima dimostrazione di forza da parte del Governo di Israele?

Non c’è dubbio che anche il governo israeliano ha dovuto prendere atto delle critiche internazionali. L’opinione pubblica di un gran numero di paesi arabi, musulmani, europei, ed anche del grande alleato statunitense, è rimasta sconcertata da un atto di guerra compiuto in acque internazionali, contro navi che non erano dirette in Israele e che non minacciavano le sue coste con il lancio di razzi o altri armamenti. Anche i leader politici di quasi tutti gli stati europei, di molti stati asiatici e latinoamericani, insieme ai leader di organizzazioni internazionali, hanno protestato con Israele. Gli uffici stampa del primo ministro israeliano e dell’esercito hanno immediatamente cercato di rispondere alle critiche impegnandosi per fare emergere la «pericolosità» dei pacifisti a bordo delle navi. Tuttavia non sono state trovate armi, e le fionde che sono state trovate su una nave assaltata hanno fatto sorridere soprattutto gli israeliani, abituati più di noi alla memoria di Davide che lotta con una fionda contro Golia. Anche l’opinione pubblica israeliana, in parte, è rimasta sconcertata dall’attacco alle navi. Su alcuni giornali si sono letti articoli molto duri per l’incapacità politica ed anche militare a gestire la «provocazione» dei pacifisti diretti a Gaza. Certamente i politici ed i militari israeliani non auspicavano di dover fronteggiare una crisi internazionale segnata da nove morti e decine di feriti, ma certo avevano messo in conto le proteste per un assalto che avevano deciso di compiere in acque internazionali. Proteste che, si pensava, sarebbero scemate in pochissimi giorni e comunque sarebbero state fronteggiate in nome della difesa della sicurezza di Israele. Quindi si può dire che siamo di fronte ad un errore politico che ha danneggiato l’immagine di Israele nel mondo, ma questo errore è la conseguenza di una politica che, di fronte al problema Gaza, e più in generale di fronte al fenomeno politico Hamas, non riesce ad allontanarsi da una logica militare che ha mostrato in occasione dell’assalto alle navi tutta la sua debolezza politica.

La spedizione «pacifista» (mettiamo le virgolette per le polemiche nate dopo le immagini che mostravano gli attivisti in atteggiamenti violenti) è servita a qualche cosa? Che vantaggio ne ha tratto la popolazione di Gaza?

Il vantaggio immediato e più rilevante è stata l’apertura prolungata del valico di Rafah, tra l’Egitto e Gaza. Un’apertura decisa dal presidente egiziano Mubarak per evitare di far cadere anche sull’Egitto, oltre che su Israele, l’accusa di «assediare» la gente di Gaza. Questa decisione ha una valenza politica anche per il futuro, perché assai difficilmente si potrà ritornare, sul fronte del confine egiziano, allo status quo precedente, segnato da mesi di chiusura alternato a pochi giorni di cancelli aperti. Anche sul fronte del confine israeliano qualcosa si è rimesso in movimento. Una quantità di preziose merci ha ripreso ad entrare, in particolare cemento ed altri materiali da costruzione. Il divieto per questi prodotti è stato lo scandalo più grande che ha segnato Gaza, dopo la fine della guerra nel gennaio del 2009. Uno scandalo ancor più grande perché è avvenuto nel silenzio dei governi europei e di quello americano. Il cemento caricato sulla nave Rachel Correy e sulle altre che puntavano a raggiungere Gaza rappresentava il richiamo più forte alla comunità internazionale per un assedio israeliano che puntava a colpire Hamas punendo la popolazione di Gaza. Le navi dei pacifisti in definitiva hanno rotto un silenzio politico, che difficilmente potrà calare nuovamente su Gaza.

La faccenda delle navi di pace sembra aver rafforzato il ruolo politico di Hamas. È così?

Credo che Hamas sia più forte, perché ha dimostrato alla gente di Gaza che la «resistenza» sta pagando. La riapertura, sia pure parziale, dei valichi di confine è il risultato più evidente della vittoria. Tuttavia, anche Hamas sa che questa vittoria deve durare nel tempo, deve essere ampia e cambiare in meglio la condizione di vita della maggioranza della gente di Gaza. Altrimenti tornerà forte quella frustrazione e quella rabbia per un vivere quotidiano sopportabile da una minoranza di persone che possono accedere ai beni di contrabbando, e insopportabile per una maggioranza senza denaro che vive con gli aiuti, spesso insufficienti e a singhiozzo, delle organizzazioni internazionali condizionate dai divieti dell’esercito israeliano sul confine. In altre parole, la vittoria dovrà essere amministrata bene da Hamas sul piano politico, perché la gente non sopporterebbe di tornare indietro ai giorni più bui dell’assedio economico.

Che conseguenza avrà sul processo di pace nel Medio Oriente la situazione geopolitica che si sta delineando?

I fatti di sangue accaduti in mare hanno riportato all’ordine del giorno molte situazioni cinicamente ignorate dai protagonisti del «processo di pace». Hamas e Gaza dovranno essere nuovamente affrontati. I palestinesi «di Ramallah» dovranno scegliere se perseguire o meno la via della riconciliazione politica con Hamas. Una via che ha il prezzo della condivisione del potere, quel potere che Fatah invece, dopo la sconfitta alle elezioni del gennaio 2006, ha pensato piuttosto a riconquistare, con l’aiuto del presidente egiziano Hosni Mubarak. D’altra parte anche Hamas può imboccare la via della riconciliazione, con una sollecitazione in più che viene dal governo turco e da un leader come Recep Tayyep Erdogan, che ha dimostrato di voler fronteggiare Israele e Stati Uniti.

Israele con quella operazione sembra aver perso un alleato strategico come la Turchia. Che ruolo avrà in futuro Ankara nel conflitto mediorientale?

Un ruolo di garanzia nei confronti dei palestinesi e soprattutto di Hamas. Potrà non piacere al governo israeliano di Benjamin Netanyahu, ma la realtà ora è questa. Gli incontri al Cairo o a Sharm el Sheik tra Hosni Mubarak e Shimon Peres, e quelli tra i capi dei servizi segreti egiziano ed israeliano, non esauriscono più la capacità di pressione sui palestinesi. Lo sanno ora Mubarak e Netanyahu e questo certo non li rallegra. Non è difficile immaginare, in un futuro accordo di pace tra palestinesi ed israeliani, una presenza importante di soldati turchi a Gaza.

Si tratta di un’altra faccenda che può complicare ulteriormente il ruolo dell’amministrazione Obama nella regione. Lei che ne pensa?

È certo una complicazione, perché Barack Obama dovrà tener conto anche della Turchia e di Hamas. D’altra parte le contraddizioni interne all’amministrazione americana, tra i collaboratori del presidente e il segretario di Stato Hillary Clinton (quest’ultima sostenitrice di Israele in modo talvolta fin troppo evidente) non hanno fatto fare passi avanti ad un processo di pace, bloccato tra l’altro dalla volontà israeliana di annettersi l’intera Gerusalemme. Sullo sfondo, poi, rimane il problema Iran. Un problema serio, usato purtroppo anche per allontanare l’attenzione dalle vicende del conflitto israelo-palestinese e dalla necessaria, faticosa, ricerca di soluzioni di compromesso.

(intervista a cura di Gian Mario Gillio)

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