I «colloqui diretti» israelo-palestinesi, sostanzialmente imposti da Barack Obama e iniziati a Washington il 2 settembre, hanno subito dimostrato le enormi difficoltà per arrivare entro un anno ad una pace giusta e definitiva. Le speranze e le incognite del futuro. L’opposizione dei coloni, il permanente rifiuto di Hamas.
«Last call»: il gracidio degli altoparlanti che, negli aeroporti, ripetono più volte «ultima chiamata» per ricordare ai passeggeri distratti che il loro aereo sta per partire, lasciandoli per strada se non si sbrigano all’imbarco, ci sembra applicabile ai «direct talks», i «colloqui diretti» israelo-palestinesi iniziati a Washington il 2 settembre e tenacemente voluti dal presidente Barack Obama. Per molte ragioni, infatti, essi assomigliano ad un «last call»: se falliscono nell’obiettivo dichiarato – una pace complessiva, giusta e duratura, a Gerusalemme e dintorni, da raggiungersi entro un anno, che porti ad inverare il principio-chiave «Due popoli, due Stati» – sarà ancora più arduo, in futuro, procedere, e grande è il rischio di una tragedia maggiore, con reazioni a catena implicanti Siria, Libano, Giordania, Iraq, Iran, Arabia Saudita, Egitto, Turchia…
Un approdo non scontato sul fronte palestinese
Alla Casa bianca sono convenuti il presidente dell’Autorità nazionale palestinese (l’Anp) Mahmud Abbas (Abu Mazen) e il premier israeliano Benjamin Netanyahu; vi erano poi il re giordano Abdullah II e il raìs egiziano Hosni Mubarak; inoltre, per parte statunitense, il segretario di Stato Hillary Clinton e George Mitchell, l’inviato speciale per il Medio Oriente. Non era scontato il faccia a faccia tra il leader palestinese e quello israeliano: infatti, da venti mesi, erano in atto tra loro solo colloqui «indiretti», tramite la mediazione statunitense: Abu Mazen rifiutava di incontrare il premier se questi non avesse bloccato gli allargamenti degli insediamenti nella Cisgiordania occupata; Netanyahu, il 26 novembre scorso, aveva accettato (in parte) lo stop solo per dieci mesi, ma escludendo Gerusalemme est. Perciò in al-Fatah – il partito del presidente – vi è stato un animatissimo dibattito sul «se» accettare la proposta di Obama: che senso aveva, ci si è chiesti, andare a «legittimare» negoziati-farsa mentre Israele continua la sua politica di occupazione dei Territori e continua a stringere d’assedio la Striscia di Gaza?
Infine, è prevalso il «sì». D’altronde Abu Mazen era (è) tra due fuochi: da una parte la Casa bianca, senza il cui sostegno egli crollerebbe (sono stati gli statunitensi ad addestrare la polizia cisgiordana!), ed alle cui pressioni può sottrarsi solo fino ad un certo punto; dall’altra Hamas, che nel 2007 ha estromesso del tutto al-Fatah dalla Striscia, e che, in merito al vertice del 2 settembre, ha dichiarato, attraverso Sami Abu Zuhri, il portavoce del Movimento di resistenza islamico: «I colloqui non sono legittimi perché il popolo palestinese non ha dato nessun mandato ad Abu Mazen di condurre trattative in nome del nostro popolo. Ogni risultato che verrà raggiunto nel corso di questi colloqui non impegna il nostro popolo, ma solo lo stesso Abu Mazen».
Inoltre, con precisione cronometrica per tentare di sabotare da subito gli imminenti colloqui, e così attirandosi la riprovazione dell’opinione pubblica mondiale, il 31 agosto militanti palestinesi hanno teso un agguato a quattro coloni israeliani che viaggiavano a bordo di una macchina nei pressi di Hebron, in Cisgiordania. L’attentato – rivendicato da Hamas – è stato condannato non solo dalla Casa bianca e dal governo israeliano («daremo la caccia ai terroristi ovunque essi siano, senza alcuna limitazione diplomatica», ha detto il portavoce, Nir Hefez), ma anche da Abu Mazen e dal premier palestinese Salam Fayyad – primo ministro di fatto solo in Cisgiordania, e da Hamas considerato abusivo – che lo ha definito «contrario agli interessi palestinesi».
Nella prima metà di settembre, intanto, l’aviazione con la stella di David ha compiuto otto raid contro la Striscia, uccidendo sei palestinesi: terroristi che stavano preparando attentati, secondo Israele; pacifici contadini, tra cui alcuni ragazzi, secondo Hamas.
I difficili (e soliti) nodi da sciogliere
Al termine del primo round di trattative – punteggiato, per la gioia dei fotografi, da amichevoli pacche sulle spalle tra Abbas e Netanyahu – i due, su input di Obama, hanno deciso di procedere a marce forzate, incontrandosi almeno una volta al mese, in modo da raggiungere una soluzione complessiva e concordata entro il 2011, dopo aver affrontato progressivamente tutti i problemi sul tappeto. Problemi ben noti, e che qui, per seguire l’agenda, ricapitoliamo, per flash, sintetizzando gli attuali punti di vista dell’Autorità palestinese e del governo israeliano.
Stato di Palestina. L’Anp chiede che la costituenda Palestina sia un vero Stato, e non un territorio amputato e spezzettato in Cisgiordania, e che abbia una strada di collegamento – su territorio israeliano – con la Striscia, sempre aperta ai palestinesi. Netanyahu accetterebbe una Palestina, purché demilitarizzata, e che si impegni a impedire ogni attacco terroristico contro Israele.
Confini definitivi. Abu Mazen, formalmente, chiede l’attuazione delle risoluzioni 242 (del 1967) e 338 (1973) del Consiglio di sicurezza dell’Onu: dunque, ritiro di Israele entro i confini antecedenti la guerra dei Sei giorni del 1967, e perciò ritiro degli israeliani dalla Striscia di Gaza (attuato già nel 2005), da Gerusalemme est e dall’intera Cisgiordania. Il governo israeliano ritiene improponibile il ritorno alla situazione pre-1967; prevede però «concessioni importanti», ma finora non esattamente quantificate, per quanto riguarda l’estensione della futura Cisgiordania. In ogni caso, Israele non accetterà confini che non siano difendibili, o che, a suo parere, mettano in pericolo la sicurezza dello Stato ebraico.
Profughi. L’Anp esige il pieno rispetto della risoluzione 194 nella quale l’Assemblea generale dell’Onu, l’11 dicembre 1948, prevedeva il diritto dei profughi palestinesi al ritorno nelle loro case nel territorio ormai diventato Israele. I profughi, e i loro discendenti, sparsi in molti paesi del Medio Oriente, sono sui quattro milioni. Netanyahu esclude assolutamente un loro ritorno di massa che, afferma, porterebbe alla distruzione di Israele come Stato ebraico. Le due parti concordano invece nel dire che i profughi dovrebbero essere indennizzati.
Insediamenti. Abu Mazen vuole il totale abbandono dei circa centocinquanta insediamenti ebraici in Cisgiordania, dove oggi vivono trecentomila coloni. Netanyahu rifiuta un ritiro generalizzato, tanto più che gli insediamenti sono costati miliardi di dollari; ed esclude, soprattutto, un abbandono della costellazione di insediamenti costruiti a ridosso della «linea verde», la linea armistiziale del 1949 tra Israele e Cisgiordania. Un’ipotesi per risolvere questo nodo decisivo sarebbe l’attuazione (suggerita già dagli accordi non ufficiali di Ginevra del 2003) del principio dell’uno a uno: gli insediamenti lungo il confine – circa il 5% della Cisgiordania – diverrebbero a tutti gli effetti territorio israeliano, ma, in compenso, Israele cederebbe ai palestinesi un 5% del suo territorio, forse nel Negev o a ridosso della Striscia.
Gerusalemme. Nel 1980 la Knesset – parlamento israeliano – proclamò l’intera città, est ed ovest, capitale «eterna ed indivisibile» di Israele: una decisione respinta dalla comunità internazionale (perfino gli Usa continuano a mantenere la loro ambasciata a Tel Aviv). I palestinesi rivendicano Gerusalemme-est come capitale del loro costituendo Stato. Netanyahu ha ribadito la tesi israeliana ufficiale, ma il ministro della Difesa Ehud Barak ha ipotizzato che i quartieri arabi di Gerusalemme orientale possano passare ai palestinesi. Tuttavia, in questi anni gli israeliani hanno costruito, ad est dell’est, una serie di quartieri ebraici che di fatto separano la Gerusalemme araba dalla Cisgiordania. Particolarmente intricata, poi, è la situazione della «Città vecchia», a Gerusalemme-est, dove si trova la Spianata delle moschee che, ad occidente, è delimitata dal «muro del pianto», il muro di contenimento del Monte sul quale sorgeva il Tempio ebraico distrutto dai Romani nel 70 dell’era volgare.
Prigionieri. Nelle carceri israeliani vi sono circa 7.500 prigionieri palestinesi, molti dei quali non si sono macchiati di sangue, ma hanno semplicemente manifestato contro l’occupazione militare e coloniale israeliana. Israele non intende liberare «terroristi»; l’Anp chiede la liberazione di chi ha lottato per la libertà della patria.
Sorgenti idriche. Ai confini con la Cisgiordania, a partire dal 2002, Israele ha costruito un muro – un’impressionante serpentone che va di collina in collina, e che per ora già ha superato i 400 chilometri, dei quasi 800 previsti – allo scopo dichiarato di impedire l’entrata nel suo territorio di terroristi palestinesi. Di fatto, il muro si addentra per svariati chilometri in Cisgiordania e, molto spesso, curva e si allarga a est proprio per includere sorgenti: se esso diventasse il definitivo confine, la Cisgiordania perderebbe molte di queste. La futura Palestina intende poi spartire, con Israele e Giordania, le (scarse) acque del fiume Giordano.
Un sogno grande, difficile da realizzare
Il semplice, arido elenco dei problemi da risolvere per arrivare alla pace fa capire la difficoltà dell’impresa alla quale Obama si è dedicato e che, in sostanza, vuole concretizzare il suo discorso del 4 giugno 2009 al Cairo. Allora, mentre riaffermava l’impegno degli Usa per la sicurezza d’Israele, proponeva anche una pace per rendere giustizia ai palestinesi, sulla base del principio «Due popoli, due Stati»: formula che, teoricamente, è accettata da tutti i contendenti, ma che potrebbe anche essere una trappola se poi qualcuno barerà sul «come» e «quanto» di statualità avrà la nascente Palestina. Da parte sua, Netanyahu a Washington ha chiesto ad Abu Mazen di riconoscere Israele «come Stato nazionale del popolo ebraico». Il che, nella mente del premier, può significare che egli non accetterà mai che i profughi palestinesi tornino nell’attuale Israele; e/o, anche, porre dei dubbi sulla permanenza in Israele degli arabi che pur da secoli vivono in quel territorio e che, ora, rappresentano il 20% dei 7,5 milioni della popolazione d’Israele.
Le affermazioni, relativamente ottimiste, di tutti i protagonisti del vertice del 2 settembre, si sono presto stemperate. Per Netanyahu – come gli ha indirettamente ricordato il suo ministro degli Esteri, Avigdor Lieberman – sarà impresa tremenda (sempre che si imboccasse la strada dell’accordo, si intende) «convincere» i coloni, molti dei quali convinti di avere da Dio il diritto di possedere quella terra, ad abbandonare gli insediamenti nei quali sono andati, spinti proprio dal governo, e ai quali l’attuale premier nelle elezioni del 10 febbraio 2009 aveva chiesto i voti garantendo la loro permanenza in eterno in Giudea e Samaria (nomi biblici della Cisgiordania). Da parte sua, il 6 settembre Lieberman – leader del partito Yisrael Beiteinu, di estrema destra, votato soprattutto dagli ebrei di origine ex sovietica – aveva categoricamente escluso un’ulteriore moratoria, dopo il 26 settembre, dell’ampliamento degli insediamenti in Cisgiordania.
E Abu Mazen, criticato da molti palestinesi per essersi lasciato trascinare nell’ingranaggio di trattative ritenute ingannevoli, dato (questa la tesi) che Israele mai cederà sui punti cruciali, né Obama oserà costringerlo, lo stesso giorno aveva espresso la disponibilità «a farsi da parte se messo con le spalle al muro», e dunque pronto a «fare i bagagli e a lasciare l’incarico» (di presidente dell’Anp), qualora verificasse l’impossibilità di ottenere alcunché su questioni di principio, come il diritto al ritorno dei profughi palestinesi là ove erano nati essi stessi, o i loro padri e nonni, e la definizione dei confini del futuro Stato palestinese. E Saeb Erekat, capo negoziatore dei palestinesi: «Se falliscono i colloqui diretti sarà il fallimento dell’Autorità nazionale palestinese, e la vittoria di Hamas».
Dal (quasi) idillio di Washington, nel secondo round dei colloqui diretti – a Sharm el-Sheikh, in Egitto, il 14 settembre, e a Gerusalemme il 15 – si è passati alla crudezza della realpolitik; e i contrasti, al primo round rimasti sullo sfondo, sono venuti prepotentemente a galla, dimostrando come la ricerca di un compromesso territoriale sia sì possibile, ma molto, molto, molto ardua. Sembra (sembra) che ci si sia orientati a tentare di definire, come primo punto, cruciale, i confini definitivi della futura Palestina, considerando che gli insediamenti costruiti appena dentro i confini con la Cisgiordania passerebbero a Israele. Così, Israele potrebbe continuare ad ampliare quel territorio che diverrà suo. Ma, se attuata, l’ipotesi non sarebbe mai accettata dai «falchi» alla Lieberman e dai coloni degli insediamenti esclusi dal «passaggio» e, per opposte ragioni, da Hamas e forse anche da una parte di al-Fatah.
Comunque, al di là dei contrasti sui singoli punti, già emersi nei primi round ufficiali, è l’atmosfera generale, eredità dei drammatici anni passati, che grava sulle trattative. Pesa, sul versante israeliano, una diffusa paura che la nascita di un vero Stato di Palestina – che, si teme, potrebbe aprirsi all’Iran, o addirittura ad al-Qaeda – sia, in prospettiva, l’inizio della fine di uno Stato d’Israele sicuro e garantito, e la tomba del sionismo; pesa, sul versante palestinese, l’esperienza amara delle molte trattative e promesse (da Oslo nel 1993; a Camp David nel 2000; alla Road map varata da Onu, Usa, Russia, Ue nel 2002; ad Annapolis nel 2007…) che, infine, non hanno portato a troncare l’occupazione militare e coloniale israeliana dei Territori che dura dal 1967. Pesano, di qua e di là, gruppi estremisti disposti a morire (e a far morire) piuttosto che accettare gli inevitabili compromessi di un ragionevole accordo che garantisca Israele, che già c’è, e faccia nascere lo stato di Palestina, che ancora non c’è. Perché non basta dire di volere una pace onorevole e giusta; bisogna anche essere disposti a pagarne il prezzo.
David Gabrielli