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Piano nomadi: l’integrazione fantasma

by redazione

Recinzioni, telecamere di sorveglianza, pass: questo il modello campo nomadi «targato Roma», la cui gestione verrà presto affidata alla Croce Rossa per assegnazione diretta. Clientelismo e malapolitica anche sulle spalle degli «zingari». L’autrice è giornalista di Articolo 21.

«Ma tu cosa pensi? Ci manderete via?». Mi guarda con aria perplessa Maddalena, mentre mi accompagna alla fermata dell’autobus. Me lo chiede come se io, in quanto gadje [o gagé, cioè «non zingaro», ndr], avessi il potere di decidere della sua vita. Mentre camminiamo tento di darle qualche scarna rassicurazione, ma è evidente che poco contano le mie parole. Quello che conta sono le cose che ha sentito dire in piazza davanti a un microfono, con tutta una folla intorno che annuisce e applaude. Da quella piazza è stato detto che a breve il campo di Tor de’ Cenci dovrà essere smantellato. Maddalena è una ragazzina come tante, jeans, t-shirt e scarpe da ginnastica, bracciali colorati ai polsi, boccoli biondi. Quando le chiedo della scuola sorride soddisfatta, la scuola le piace ed è anche brava, dice: in quel quartiere ci è nata e cresciuta, lì ha i suoi amici. In fretta mi indica la fermata dell’autobus e mi saluta.
Il campo di Tor de’ Cenci è uno degli insediamenti storici della capitale, sta lì dal 1995. Con l’allora giunta Rutelli fu uno dei primi campi attrezzati, grazie anche all’impegno e al sostegno garantito da comitati cittadini che, dopo una fase di iniziali resistenze, avevano accettato di buon grado e favorito la convivenza con la comunità rom. L’intera gestione del campo era stata data in affidamento al municipio finché, nel 2000, improvvisamente la situazione cambia: «Con l’avvento della giunta di centro-destra nel XII municipio, i servizi vengono sospesi e subentra il degrado», spiega Paolo Perrini, coordinatore del progetto scolarizzazione minori rom di Arci solidarietà onlus, che segue Tor de’ Cenci dal 1996. I minori a Tor de’ Cenci, come all’interno di tutti i campi, rappresentano una grande fetta: sono 120 su una comunità che conta circa trecento persone.

È il primo giorno di scuola e c’è un po’ di confusione: qualcuno manca all’appello, qualcun altro non si è svegliato in tempo o sta male. Ma il primo giorno, mi fanno capire, è normale che accada, poi pian piano la situazione si normalizza. «La frequenza è piuttosto buona, i ragazzi vengono supportati fino alla terza media, dopo di che vengono lasciati a loro stessi. Manca lo step successivo, il collegamento col mondo del lavoro… da un po’ di anni a questa parte – prosegue Perrini – anche le ragazzine, che in linea di massima si sposano molto giovani, ottengono la licenza media, perché anche quello è diventato un requisito in più per una buona dote».

Mi affidano ad Asco: bisogna andare a prendere i bambini per portarli al campo. Asco è un operatore dell’Arci, bosniaco, in Italia vive da circa vent’anni, tanto da aver completato gli studi e conseguito l’attestato da mediatore culturale. Quando ancora stava al campo, era il portavoce ufficiale delle tre comunità presenti: bosniaca, macedone, e montenegrina. Ora però al campo non ci vive più, è riuscito ad affittare un appartamento: «piccolo, ma dove c’è tutto», in particolare la doccia. Perché al campo, fatto di roulotte e piccoli container, le docce non esistono. «E come si può vivere in questo modo?», mi dice indicandomi le roulotte sgangherate e i container ormai lisi dal tempo.

Il campo è una maleodorante distesa di ferraglie e lamiere, diviso in tre macro-aree per etnia. L’immondizia è sparsa ovunque, traccia forse di una delle poche attività che consentono a molti di vivere onestamente.
«Molti di loro – spiega ancora Paolo Perrini – fanno gli “stracciaroli” con regolare partita Iva, altri si dedicano alla raccolta dei rifiuti ingombranti o allo svuotamento delle cantine di privati…».

Sintomo, però al contempo, di uno stato di degrado che anche Asco denuncia apertamente: «Il comune ha recentemente affidato la pulizia alla comunità stessa, in cambio di una regolare retribuzione; il punto è che poi nessuno viene a controllare per vedere se il lavoro viene fatto o no». «Una forma di assistenzialismo – commenta Perrini – che ha sortito effetti sbagliati, mettendo in crisi, anche in altri campi, il lavoro svolto dalle cooperative sociali». Degrado a parte, rimangono a suo avviso i dati positivi, conseguiti dopo anni di lavoro, rispetto al grado di integrazione: «Attraverso la gestione di laboratori, sia nelle scuole che al campo si favorisce la conoscenza delle reciproche culture, partendo dalla consapevolezza della propria, e si ricerca così, tramite i bambini, il coinvolgimento dell’adulto, sia esso insegnante o genitore; vengono organizzate frequenti visite da parte delle scolaresche e vere e proprie feste aperte al quartiere… gli adulti, fra cui ve ne sono alcuni che lavorano per l’Arci, hanno in generale un buon rapporto con i commercianti del posto e partecipano ai mercati rionali».

Ma… «Su Tor de’ Cenci qualcuno ha giocato tutta la sua campagna elettorale e ha vinto». Questo qualcuno, precisa il responsabile Arci, è l’assessore alle Politiche sociali Sveva Belviso. E poco importa se il Comune, che già spende 300 euro al giorno per il trasporto scolastico, ne spenderà molti di più per un campo fuori Roma: quello che conta sono le promesse elettorali.

Roma «dichiara guerra» ai campi nomadi

Era maggio 2007 (all’epoca il sindaco della Capitale era ancora Walter Veltroni) e i quotidiani titolavano quasi all’unisono: «Roma dichiara guerra a campi nomadi e prostitute». Queste le premesse di quello che sarebbe stato proposto e siglato presso il Ministero dell’Interno, allora retto da Giuliano Amato, come «Patto per Roma sicura». Tra i punti cardine di quella proposta ne spiccava uno in particolare: tutti i campi nomadi sarebbero stati smantellati per essere trasferiti fuori dal Raccordo anulare. Al loro posto i cosiddetti «villaggi della solidarietà», 5 o 6, secondo gli intendimenti iniziali, capaci di accogliere 1.000/1.500 persone, per una spesa complessiva di 15 milioni di euro (3 milioni a campo) a cui si sarebbero dovuti aggiungere gli stanziamenti destinati alla bonifica dei campi abusivi sgomberati (almeno altri 2 milioni di euro). Un’operazione per la quale si richiedeva l’intervento diretto dello stesso Ministero.

Da allora gli eventi hanno preso una rincorsa irreversibile. La vittoria del centro-destra prima (Gianni Alemanno è stato eletto sindaco di Roma il 28 aprile 2008, due settimane dopo la vittoria del centro-destra alle elezioni politiche), tutta giocata in chiave emergenziale, e la subitanea decretazione d’urgenza, siglata nel maggio 2008, hanno fatto il resto proseguendo sulla via indicata dal centro-sinistra. Il 2 agosto 2009 la giunta Alemanno illustra il nuovo piano nomadi: a partire dai dati forniti da Questura, Croce rossa e Polizia municipale (una presenza stimata intorno alle 7.177 persone distribuite su un totale di 100 siti, di cui 80 abusivi, 14 tollerati e 7 autorizzati), l’amministrazione prevede 13 villaggi attrezzati capaci di accogliere al massimo 6.000 persone, di cui uno con funzione di struttura di transito. Ipoteticamente l’operazione si sarebbe dovuta concludere per la fine del 2010, censimento compreso.

In seguito alle polemiche scoppiate con la politica dei respingimenti francesi, il prefetto di Roma (nonché commissario straordinario per l’emergenza nomadi) Giuseppe Pecoraro è costretto a correggere il tiro: Roma non seguirà l’esempio francese, ma pensa a 10 campi attrezzati. «In questi mesi – afferma – si sono già sgomberati i campi più popolosi, quelli del Casilino 900 e del Casilino 700, mentre sta procedendo l’opera di fotosegnalazione che ha raggiunto le tremila unità [2.100, per il Comune]. Nei prossimi mesi, si procederà (…) all’insediamento progressivo nei 10 campi attrezzati (cioè dotati di acqua, luce, fognature) che non potranno superare le 500 o 600 unita».

Alemanno accelera sugli sgomberi

A settembre 2010 anche il sindaco Alemanno incontra il ministro dell’Interno Roberto Maroni e detta l’accelerazione: sgomberi immediati; realizzazione di due nuove strutture su terreni privati trovati grazie ad un bando di gara pubblicato dal prefetto, che andranno ad affiancarsi ai sette campi attrezzati già esistenti; adeguamento del campo La Barbuta.

Accelerazione che ha provocato non pochi mal di pancia all’interno della giunta capitolina, con l’opposizione a chiedere maggiore chiarezza. «A Roma attualmente ci sono sette campi regolari attrezzati, quattro sono stati oggetto di lavoro di adeguamento ma non di allargamento del perimetro, di contro ad un aumento sconsiderato delle presenze, il che – sostiene il consigliere comunale del Pd Daniele Ozzimo, vicepresidente della commissione Politiche sociali del Comune di Roma – ha comportato un peggioramento delle condizioni di vita della comunità nomade, ma anche un maggiore malcontento generale». Peggioramento che emerge dall’annullamento degli spazi destinati alla socializzazione: «A Salone era prevista una tensostruttura ora sostituita da moduli abitativi che distano circa due metri l’uno dall’altro…».

Nessun passo indietro, dunque, rispetto alla necessità di un piano nomadi, ma – insistono dall’opposizione – sarebbe stato necessario costruire nuovi spazi di accoglienza e agire con maggiore trasparenza, soprattutto in termini di spese, visto lo stanziamento di quasi 31 milioni di euro destinati al Piano: «Stando al documento depositato dal commissario Pecoraro il 23 febbraio scorso al Senato, si evince che i fondi del Ministero per l’emergenza sul Lazio ammontano a quasi 20 milioni di euro: 5 milioni sono quelli stanziati dalla giunta provinciale, 5 dalla regione, quasi 8 milioni dal comune… alla voce spese dello stesso documento, al 31/12/09 risultavano più di tre milioni di euro in buona parte destinati all’ampliamento e adeguamento dei campi… da questo computo – precisa Ozzimo – è esclusa per esempio la vigilanza privata che esiste in 5 o 6 dei 7 campi attrezzati e che non si comprende a quale capitolo di spesa faccia riferimento».

Un capitolo sul quale sceglie di non sbilanciarsi Giordano Tredicine, presidente della commissione Politiche sociali, lasciandosi però scappare un 9 milioni di euro l’anno che rappresenterebbero l’investimento complessivo da parte del Comune per la gestione dei campi, la scolarizzazione, l’assistenza, l’inserimento lavorativo. Con a margine un affondo alle cooperative sociali responsabili di aver fatto lavorare dei nomadi con la funzione di controllore e controllato: «A breve sarà pubblicato un bando per i presidi socio-educativi che verrà attenzionato particolarmente alle cooperative che operano nel mondo cattolico».

Il mistero aleggia: aleggia sulle operazioni di censimento non ancora concluse, ma avviate già dal 2008 (ad oggi ne risultano fatte 5), così come su quel fantomatico Dast (documento di autorizzazione allo stazionamento temporaneo), una card simile alla patente di guida che riporta nome e cognome, fotografia, numero di carta d’identità, durata di validità (di due anni, prorogabile per altri 24 mesi) e nome del campo dove si alloggia… o sulla figura di Najo Adzovich, delegato del sindaco ai rapporti con la comunità romanì, sospeso però in via cautelativa dalla stessa Federazione romanì. Aleggia, infine, sulla volontà, espressa di recente da parte della stessa giunta, di affidare in maniera diretta (mentre finora si procedeva per bandi) la gestione dei presidi socio-educativi nei campi alla Croce rossa, il cui commissario straordinario è Francesco Rocca, già direttore del V dipartimento di Roma, area An, vicino al sindaco Alemanno.

Moderni lager o ghetti «ripuliti»

Per chi ci vive i campi sono dei moderni «lager», per quanti vi lavorano veri e propri ghetti, appena un po’ ripuliti. Pochi i progetti di inserimento lavorativo e un funzionamento a singhiozzo che, nei fatti, non garantisce quell’integrazione tanto sbandierata e indispensabile allo scadere del Dast. «Il punto è che si spendono migliaia di euro per la sicurezza, le telecamere, le recinzioni, il foto-segnalamento, mentre per i progetti rimangono solamente le briciole (per il programma Retis, Rete di inclusione sociale per l’avvio al lavoro, sono stati stanziati 800mila euro) e quello che facciamo, il più delle volte, è frutto di soluzioni creative… due anni fa il budget per la gestione dei progetti è stato ridotto del 20%», commenta Piergiuseppe Carucci, operatore della cooperativa Ermes.

Sì, perché se si vuole avere un quadro il più fedele possibile di quella che è la vita all’interno di un campo – e di un campo attrezzato in particolare – bisogna parlare con loro, gli operatori, che dentro i campi ci passano buona parte della giornata (nell’ambito dello sportello legale o di quello sanitario, per l’inserimento scolastico o lavorativo) e che con le comunità rom hanno rapporti diretti e personali, toccando con mano quello che per molti è un mero dato tecnico, ma che né la giunta Veltroni né quella Alemanno hanno ritenuto fosse necessario interpellare. Sono loro che alle prime ore dell’alba ricevono le telefonate degli abitanti dei campi spaventati dall’arrivo improvviso di un numero ingente di volanti delle forze dell’ordine, venute per uno sgombero o per iniziare le operazioni di foto-segnalazione, come quando il campo di Salone venne circondato da un dispiegamento imponente di forze dell’ordine, Folgore compresa, per censire gli abitanti. Sempre loro a dover dirimere liti e controversie causate dalla coabitazione coatta e in spazi asfittici di comunità anche molto distanti, per cultura o provenienza; sempre loro a seguire il processo di scolarizzazione e inserimento lavorativo e a scontrarsi con il pregiudizio che aleggia in entrambi i contesti, da parte di alunni, genitori, insegnanti e datori di lavoro, o ad assistere in sala parto una gestante, solo perché l’infermiera in quel momento ha altro da fare; loro, ancora, a farsi carico dei problemi quotidiani e a mediare con le istituzioni. Gli stessi che, per le scelte attuali della giunta Alemanno, rischiano di essere estromessi dai campi (anche se il sindaco ha assicurato che nessuna associazione verrà esclusa).

Per avere un’idea di cosa siano i campi «attrezzati», basta fare un giro in via dei Gordiani e vedere il campo che ospita all’incirca 250 persone. Recinzione alta e pali della luce muniti di telecamere lungo tutto il perimetro, all’ingresso tre guardiani della sorveglianza privata che – rimarca sarcastico Daniele Ozzimo – in realtà non controllano affatto: «chiunque dal campo può entrare e uscire tranquillamente»; sullo sfondo la distesa di container, a picco sotto il sole, e roulotte ancora più distanti, per nuclei famigliari in genere abbastanza numerosi. Rispetto agli altri campi, quella di via dei Gordiani è anche una situazione «privilegiata», trovandosi all’interno della città e non avendo una così alta densità abitativa. In via di Salone o a Castel Romano le cose stanno diversamente. Nel primo si sono superati i mille abitanti, i container sono ammassati l’uno all’altro, mentre l’unico spazio verde è vietato; per raggiungere la città c’è il trenino, ma la fermata è a un paio di kilometri su una strada ad alta percorrenza senza marciapiedi. Così come per Castel Romano… e lì la strada ha mietuto già le prime vittime.
«Se chiedi ai rom come stanno in questi nuovi campi ti risponderanno: “bene”; perché è quello che vuoi sentire…», commenta un’altra operatrice.

Ma la realtà è ben altra e a testimoniarla, concordano i miei interlocutori, vi sarebbe il cospicuo incremento nella prescrizione e nel consumo di psicofarmaci. O il rifiuto, aggiungo io, di voler interloquire direttamente con me e denunciare in prima persona, per timore che questo possa avere delle ripercussioni.

Bruna Iacopino

 

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