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Non si risparmia sull’educazione

by redazione

Contro la riforma Gelmini, in molti – studenti, genitori e insegnanti – hanno espresso il loro dissenso salendo sui tetti di edifici universitari o sui monumenti. Macioti insegna Istituzioni di sociologia e Sociologia della religione alla Sapienza di Roma.

In un periodo di incertezza circa il futuro della situazione politica italiana, vi è grande incertezza anche circa quello che avverrà dell’università e nell’università, della scuola pubblica e nella scuola pubblica. Approvata la cosiddetta «riforma Gelmini» (essenzialmente, tagli), nonostante l’opposizione di tanti studenti e docenti, oppure potrebbe essere azzerata. Comunque molti danni sono stati già fatti. Classi sono state accorpate, insegnanti di sostegno cancellati, precari lasciati a casa. Nell’università di Roma la Sapienza il rettore Luigi Frati ha imposto, a ritmi serrati, l’attuazione della «riforma»: e il nuovo statuto è già operativo. Ciò vuol dire che sono stati smantellati i vecchi dipartimenti, che ne sono sorti altri, accorpati più sulla base dei numeri che non di libere scelte dettate da esigenze di interdisciplinarietà e di ricerca. Anzi: sono stati smantellati gli Atenei federati, che per quattro anni si erano adoperati a ipotizzare e realizzare iniziative multidisciplinari, a organizzare confronti tra facoltà e dipartimenti diversi. Oggi essi non esistono più e si riafferma la singola area tematica. I nuovi dipartimenti, le nuove facoltà saranno difficilmente agibili: le facoltà saranno composte da 400-500 membri. I dipartimenti, da almeno 50 persone. Molti sono intorno alle 100 unità.

Nel frattempo, nelle università, la didattica è in crisi: i ricercatori si sentono bistrattati dalla proposta Gelmini, non vedono un futuro dinanzi a sé. Non sono previsti concorsi per entrare di ruolo ma concorsi a termine. In queste circostanze, hanno deciso di astenersi dalla didattica. Molti corsi sono così slittati al secondo semestre. Ma non è detto che verranno poi fatti. Il disagio è grande, nel mondo dell’educazione. Si è molto parlato del potere dei baroni: si dovrebbe parlare piuttosto del potere di pochi, di tendenze alle alleanze reciproche al fine di gestire i concorsi: cosa che non cambierà con l’eventuale riforma. Pochi: perché la gran parte degli ordinari ha già abbastanza da fare nel cercare di sopravvivere in un contesto in cui gli orizzonti si restringono ogni giorno di più. Dal ’68 in poi infatti il docente universitario ha vissuto una indubbia perdita di prestigio, una progressiva burocratizzazione del ruolo. Ha oggi la necessità, se vuol fare ricerca, di trovare i relativi fondi presso enti pubblici e privati: alcune discipline sono, di conseguenza, in gravi difficoltà, perché poco si prestano ad essere ricercate nell’attuale mercato. In ogni caso, avere committenti privati implica una minore libertà di scelta delle tematiche, un orientamento della ricerca meno libero e indipendente. Intanto si sono raddoppiate le incombenze didattiche (ma non gli stipendi), moltiplicate le esigenze burocratiche. I docenti che sono già in pensione da una decina di anni guardano con stupore e preoccupazione alle giornate tipo di un docente oggi. Si interrogano perplessi sulla possibilità, per i colleghi, di studi tranquilli, magari in biblioteca: una meta, una finalità sempre più lontana.

Neanche le scuole se la passano bene. Gli insegnanti, sempre più gravati, cercano di fronteggiare come possono una situazione sempre più difficoltosa. Gli studenti, i genitori, gli insegnanti hanno espresso in vario modo il loro dissenso circa questa riforma, anche trovando forme inedite, inventando contestazioni dagli aspetti molto dirompenti: come i re magi (genitori) della scuola Iqbal Masih (diretta, allora, dalla professoressa Salacone) che avevano portato al ministro, per l’epifania dell’anno scorso, cofanetti colmi di firme contrarie alla riforma. Come i tanti che sono finiti sui tetti di edifici, di monumenti storici per rendersi più visibili. Ma tutto ciò non è bastato: gli studenti, gli insegnanti, gli universitari che esprimono disagio e perplessità, che criticano la supposta riforma hanno torto per definizione, agli occhi del ministro. Mancano, si dice, i fondi per pagare insegnanti, per finanziare le università pubbliche.

Ai primi del Novecento Roma ha avuto un governo popolare, con un sindaco – Ernesto Nathan – nato in Inghilterra, ebreo, massone. Nathan nel suo discorso programmatico ha, all’epoca, affrontato il tema del disavanzo pubblico, del pareggio come obiettivo, dichiarando che nella capitale le chiese erano molte, troppe. Eccedenti. Non sufficienti invece le scuole, i corsi: che avrebbero dovuto essere moltiplicati. Perché, diceva il sindaco, su tutto si può risparmiare meno che sull’educazione delle giovani generazioni. Oggi invece si «risparmia» proprio sull’educazione, mentre contemporaneamente si assumono fuori concorso persone che costano, secondo alcuni primi conteggi, almeno 20mila euro l’anno. Un milione di euro, in cinque anni. Si tratta, è ovvio, di scelte. Con cui non vogliamo avere nulla a che vedere.

Maria Immacolata Macioti

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