Libertà religiosa. Le sue ferite nel mondo, le ambiguità in Italia - Confronti
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Libertà religiosa. Le sue ferite nel mondo, le ambiguità in Italia

by redazione

Libertà religiosa. Le sue ferite nel mondo, le ambiguità in Italia

Il papa ha denunciato le violenze anticristiane in Nigeria, Pakistan ed Egitto. Le risposte seccate dei governi di Islamabad e del Cairo.
Il caso della Cina. Ma in Italia il Vaticano ha fatto la sua parte per impedire l’approvazione di una legge sulla libertà religiosa perché, a suo parere, essa offuscherebbe il primato della Chiesa cattolica.

Il tema della libertà religiosa – antico e nuovo, complesso ed urgente – si è riproposto all’opinione pubblica per eventi, alcuni drammatici altri meno, seppur anch’essi problematici, accaduti negli ultimi tre mesi, e per il discorso con cui il 10 gennaio il papa, ricevendo il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, ha parlato dell’argomento, che era stato da lui scelto anche per la Giornata mondiale della pace di Capodanno, citando in particolare i casi (differenti) di Cina, Nigeria, Pakistan ed Egitto. Si è riproposto, ma facendo pure emergere, in Italia almeno, che da una parte, nel mondo vaticano e in quello politico, si fanno solenni proclamazioni a favore della libertà religiosa ma, dall’altra, si prosegue un abile lavorìo perché essa non sia davvero affermata nel nostro paese. Alcuni, infatti, sembrano voler difendere solo i cattolici, e non anche i seguaci di qualsiasi altra religione.

Sotto esame Cina, Nigeria, Pakistan, Egitto

La grande Muraglia. A Chengde, provincia di Hebei – duecento chilometri a nordest di Pechino – il 20 novembre il reverendo Joseph Guo Jincai è stato consacrato vescovo, contro il parere del Vaticano; il quale, quattro giorni dopo, ha accusato le autorità cinesi di aver «forzato diversi vescovi a partecipare alla cerimonia e a conferire l’ordinazione episcopale». Il comunicato ricordava la lettera ai cattolici cinesi del 27 maggio 2007, con cui Benedetto XVI aveva auspicato un dialogo rispettoso al fine di trovare un accordo con il Governo sulla nomina dei vescovi; un dialogo – precisava il comunicato – interrotto per responsabilità dell’Associazione patriottica cattolica cinese sotto l’influenza del signor Liu Bainian. Tale associazione, nata nel ’51 e strettamente controllata dal governo cinese, non è riconosciuta dalla Santa Sede: essa accetta, infatti, tutti i dogmi cattolici, ma rivendica una totale autonomia da Roma, in particolare il diritto di nominarsi i vescovi. Quella parte del clero che ha inteso e intende rimanere fedele al papa, e dunque non all’associazione, ha patito e patisce limitazioni gravi o, anche, la condanna a molti anni di carcere. Non è facile, tuttavia, districarsi nella realtà, perché vi sono vescovi che Roma non riconosce e altri scelti dal governo ma in qualche modo insieme alla Santa Sede o, comunque, da essa poi riconosciuti. Ancor meno facile è distinguere tra i fedeli «patriottici» e non, perché la gente fa quello che può, e va alla chiesa che trova. Arduo, poi, quantificare il loro numero: quattro-cinque milioni, o molti di più? Per l’insieme dei cristiani (vi sono anche Chiese protestanti), poi, si parla di cento milioni di fedeli – in un paese di un miliardo e quattrocento milioni di abitanti.

Dopo la contestata consacrazione episcopale, dal 7 al 9 dicembre si è poi svolta a Pechino l’ottava Assemblea dei Rappresentanti cattolici cinesi, la quale – precisava un nuovo comunicato vaticano del 17 dicembre – «è stata imposta a numerosi vescovi, sacerdoti, religiose e fedeli laici». Essa ha eletto alla presidenza dell’associazione patriottica Fang Xingyao, un vescovo in comunione col papa, e a capo del Collegio dei vescovi Ma Yinglin, vescovo non riconosciuto dal Vaticano. Per decifrare il gioco di Pechino occorre ricordare che il Vaticano continua ad intrattenere rapporti diplomatici con Taiwan; anche se da vari anni Roma non nomina più nunzi nell’isola, ma solo un incaricato d’affari, rimane pur vero che Taipei ha un suo ambasciatore presso la Santa Sede.

Dunque – si ragiona sulla grande Muraglia – perché mai la Cina dovrebbe lasciare la mano libera al papa che, intanto, intrattiene rapporti diplomatici con un paese che non c’è, e che è considerato parte integrante dell’unica Cina? Pechino poi non dimentica che, malgrado le grandi prospettive aperte dal gesuita Matteo Ricci (†1610), che aveva gettato i germi per un cristianesimo autenticamente cinese, infine Roma, incapace di superare il proprio occidentalismo, condannò i «riti cinesi». Oggi, naturalmente, i tempi sono cambiati e riferirsi a vicende antiche potrebbe sembrare pretestuoso. Ma i cinesi hanno la memoria lunga e, per intanto, ribadiscono l’inammissibilità dell’atteggiamento passato e presente della Santa Sede. La quale, da parte sua, dovrebbe forse prendere atto che la commistione di ruoli nel papa – uno politico come sovrano di uno Stato (minuscolo fin che si vuole, ma reale) e uno religioso come capo della Chiesa cattolica – finisce per offuscare e l’uno e l’altro ruolo, o fare considerare lui come un politico. Ma, in politica, i cinesi sono maestri.

Scontri sull’altipiano. Vasta tre volte l’Italia, la Nigeria, con i suoi centocinquanta milioni di abitanti, è il più popoloso paese d’Africa e, date le sue riserve petrolifere, uno dei più ricchi, anche se di tali ricchezze i più non beneficiano affatto. Il paese è una confederazione di Stati, uno dei quali, il Plateau – altipiano, con capitale Jos – si trova al centro del paese, alla confluenza del nord, musulmano, e del sud, animista e cristiano. Proprio Jos e la regione circostante sono al centro di violentissimi scontri che dal 2008 hanno provocato più di un migliaio di morti e la distruzione di chiese e moschee; l’ultimo round di violenze, con un centinaio di vittime, ha segnato la città a fine dicembre scorso. Formalmente lo scontro è di tipo religioso, tra musulmani e cristiani (con responsabilità equamente divise); in realtà, come sostiene l’arcivescovo cattolico di Jos, monsignor Ignatius Ayau Kaigama, all’origine dei contrasti vi sono motivazioni etniche e politiche. Gli abitanti della città, in maggioranza cristiani, tenderebbero con qualsiasi mezzo a impedire l’arrivo, dalle campagne, di hausa, etnia di religione musulmana. Ognuna delle due parti vorrebbe controllare lo Stato, cruciale per la sua posizione geografica; e questo tanto più ora, dato che quest’anno si dovrebbero svolgere in Nigeria le elezioni per scegliere il presidente della repubblica, il cui mandato è quadriennale. Umaru Yar’Adua, musulmano, in carica dal 2007, è morto nel maggio scorso, e l’interim è stato assunto dal suo vice, Goodluck Jonathan, cristiano. Alcuni Stati del nord, musulmani, contestano la legittimità costituzionale di tale «interregno». Naturalmente, molti paesi, non solo africani, sono interessati al futuro politico-religioso della Nigeria: gli occidentali per garantirsi il suo petrolio; e l’Arabia Saudita nella speranza che essa diventi uno Stato musulmano doc.

La blasfemia contro Muhammad. Dal punto di vista geopolitico, il Pakistan è considerato filo-occidentale; insomma, come amava dire il capo della Casa Bianca Ronald Reagan, «è dei nostri», pur essendo massicciamente musulmano, a prevalenza sunnita (le altre religioni, nell’insieme, sono solamente il 5% – tra essi, i cristiani il 2% – dei centottanta milioni di abitanti). Perciò nessuno in Occidente ha protestato con il Pakistan che si è armato con la bomba nucleare. Né – essendo negli anni Ottanta un prezioso alleato contro l’Urss che aveva invaso l’Afghanistan – preoccupava troppo il fatto che nel 1986 il governo di Islamabad avesse introdotto la legge sulla blasfemia, che prevede l’ergastolo per chi offende il Corano e la pena di morte in caso di offesa del profeta Muhammad. Con tale legge, che permette di accusare senza avere prove inconfutabili, decine di cristiani sono stati messi a morte, dopo processi sommari gravati dal sospetto che l’accusa di blasfemia sia stata un comodo pretesto per regolare altri conti. Molti altri cristiani non sono stati condannati ma, per evitare guai, hanno dovuto abbandonare il luogo natìo.

Tuttavia qualche intellettuale pakistano, come Ahmed Quraishi, sostiene che la legge non fu voluta in funzione anticristiana, ma soprattutto per sedare le tensioni tra i gruppi pakistani filo-occidentali, magari anche musulmani ma di ispirazione «laica», insofferenti di fronte ad una comprensione fondamentalista dell’islam e, dall’altra parte, i più accaniti gruppi islamici sostenitori di una interpretazione rigorista del Corano. La Commissione cattolica pakistana Giustizia e pace sembra confermare questa tesi: secondo i suoi dati, dall’86 all’agosto 2009 sono state incriminate per «blasfemia» 964 persone: tra esse, 479 erano musulmane, 340 appartenenti all’«Ahmadiyya» (associazione fondata a fine Ottocento da Mirza Gulam Ahmad allo scopo di rinnovare l’islam; in Pakistan non è considerata musulmana né dai sunniti né dagli sciiti; nel paese conta quattro milioni di seguaci), 119 cristiane. Rimane comunque il fatto che le ultimissime vicende legate alla discussa legge dimostrano che essa non ha calmato, in nessuna direzione, le pretese degli oltranzisti islamici.

Infatti, il 4 gennaio, ad Islamabad, il governatore del Punjab, Salman Taseer, è stato assassinato dalla sua stessa guardia del corpo, decisa a punirlo per aver egli definito «nera» la legge sulla blasfemia. Poco tempo prima l’uomo politico, favorevole ad abolire quella legge, aveva chiesto al presidente pakistano Asif Ali Zardari di concedere la grazia ad Asia Bibi, la donna cristiana del Punjab, quarantacinquenne e madre di cinque figli, condannata a morte in novembre – ma è in atto un ricorso – dopo una denuncia per blasfemia. A dicembre l’imam di una moschea di Peshawar (città ai confini con l’Afghanistan) aveva offerto una ricompensa di quattromilacinquecento euro a chiunque, se il governo tentennerà, uccida Asia Bibi. Si deve però aggiungere che, nel contempo, si erano levate ad Islamabad varie voci – non solo dell’episcopato cattolico, ma anche di personalità musulmane – per chiedere una sostanziale revisione della legge sulla blasfemia.

La strage nella chiesa copta. La notte di Capodanno, mentre ad Alessandria d’Egitto molta gente affollava la chiesa dei Due santi, appartenente alla Chiesa copta ortodossa, un kamikaze si è fatto esplodere sulla porta del tempio, provocando ventitré morti e decine di feriti. Chi vuole intimidire i copti, per ridurre il più possibile – spingendoli magari ad emigrare – la loro presenza in Egitto? Quella copta (l’aggettivo deriva dal greco, e significa «egiziana») è una Chiesa che si gloria di essere stata fondata da Marco, il «segretario» di Pietro. Ai tempi del Concilio di Calcedonia, sul Bosforo, nel 451, si oppose a bizantini e latini e, dunque, rifiutò le sue definizioni – in Cristo vi sono due «nature» e una «persona» – sostenendo invece, insieme ad armeni e siri, che nel Verbo incarnato vi sono una «natura» e una «persona». Perciò i trionfatori di Calcedonia designarono i tre gruppi come «monofisiti», quanti vedono in Cristo una sola natura. Al di là delle sottigliezze teologiche (ma oggi si ritiene che, malgrado differenze verbali e filosofiche, in realtà copti armeni e siri avevano la stessa fede di latini e bizantini), i critici di quel Concilio non volevano sottostare all’imperatore di Costantinopoli. In patria oggi i copti sono circa otto/dieci milioni, su una popolazione complessiva di ottanta milioni di abitanti, in massima parte musulmani sunniti (ma vi sono anche minoranze greco-ortodosse, cattolico-melkite, armene; e copti cattolici, nati nell’Ottocento staccandosi dalla Chiesa-madre).

A parte le questioni teologiche, che non interessano chi odia i copti, la loro «colpa» è di essere la principale minoranza religiosa in Egitto; e non una minoranza qualsiasi, visto che la loro Chiesa è radicata nel paese da ben sette secoli prima dell’arrivo dei musulmani. In teoria, i copti hanno piena libertà religiosa ma, di fatto, la legislazione, oppure una sua interpretazione burocratica, spesso rende loro difficile la vita, perché i tribunali tendono a favorire i musulmani. Il governo – retto dal presidente Hosni Mubarak, che, con successive rielezioni, guida il paese dal 1981 (quando successe ad Anwar Sadat, assassinato dai «Fratelli musulmani») – proclama di garantire piena libertà religiosa a tutti i cittadini; ma deve tener conto della fronda dei movimenti islamisti che vorrebbero, appunto, un Egitto solo musulmano. Inoltre, Mubarak si considera, ed è considerato, un alleato indispensabile dell’Occidente, e degli Stati Uniti in particolare, in Medio Oriente; ma proprio questa alleanza non piace a molti suoi nemici. D’altra parte, a proposito della strage di Capodanno le autorità del Cairo hanno sostenuto che i suoi responsabili non sono egiziani, ma «vengono da fuori»: seguaci di Bin Laden? Oppure è stata una qualche potenza straniera ad organizzare una strage che – dato il periodo natalizio – non poteva non avere particolare eco in tutto il mondo, e dunque ancor più mettere Mubarak in cattiva luce? Quest’anno, infatti, dovrebbero svolgersi in Egitto le elezioni presidenziali: ma per ora non si sa se l’attuale titolare (classe 1928) si ricandiderà, oppure se candiderà un suo figlio, con vittoria plebiscitaria comunque già garantita.

Contrastanti reazioni al Cairo e ad Islamabad

Sottolineando l’importanza della libertà religiosa – «questo diritto dell’uomo, che in realtà è il primo dei diritti» – nel suo discorso ai diplomatici Benedetto XVI ha elencato i paesi dove, a suo giudizio, essa è maggiormente violata. Oltre l’Iraq (degli attentati anti-cristiani in quel paese già abbiamo riferito: vedi Confronti 12/2010), egli ha citato appunto Cina, Nigeria, Pakistan, Egitto. Se Pechino non ha replicato (ma già lo aveva fatto in dicembre, respingendo le «interferenze vaticane negli affari interni della Cina»), e nemmeno la Nigeria, ha replicato invece, seccato, il Cairo, perché Ratzinger, dopo aver citato le stragi a Baghdad, aveva detto: «Anche in Egitto, ad Alessandria, il terrorismo ha colpito brutalmente dei fedeli in preghiera in una chiesa. Questa successione di attacchi è un segno ulteriore dell’urgente necessità per i governi della regione di adottare, malgrado le difficoltà e le minacce, misure efficaci per la protezione delle minoranze religiose».

Personalità musulmane hanno criticato il papa che, a suo tempo, non avrebbe levato la voce per denunciare le stragi di musulmani in Iraq; e il raìs egiziano ha fatto richiamare in patria «per consultazioni» (formula diplomatica per dire che un Paese è irritato con quello presso il quale è accreditato un ambasciatore), l’ambasciatore dell’Egitto presso la Santa Sede, la signora Lamia Aly Hamada Mekhemar. Ad essa, prima della sua partenza, monsignor Dominique Mamberti, «ministro degli Esteri vaticano», ha ribadito che il papa «condivide pienamente la preoccupazione del governo egiziano di “evitare l’escalation dello scontro e delle tensioni per motivazioni religiose”, ed apprezza gli sforzi che esso fa in tale direzione». Intanto, la notte di Natale – che i copti celebrano il 7 gennaio – anche molti musulmani hanno raggiunto, per solidarietà, le chiese dei copti. E intellettuali musulmani hanno affermato: «In Egitto o ci salviamo tutti insieme, musulmani e cristiani, o periremo tutti».

Sul fronte del Pakistan, Ratzinger aveva affermato: «Incoraggio le autorità di quel Paese a compiere gli sforzi necessari per abrogare la legge sulla blasfemia, tanto più che è evidente che essa serve da pretesto per provocare ingiustizie e violenze contro le minoranze religiose. Il tragico assassinio del governatore del Punjab mostra quanto sia urgente procedere in tal senso». In proposito, il citato Quraishi, pur non negando violenze anti-cristiane nel suo paese, ha notato che esse «non sono paragonabili a ciò che nel 2008-09 è stato fatto ai cristiani in India ove [soprattutto nello Stato di Orissa] centinaia di chiese e di case di cristiani furono sventrate da hindù estremisti, suore furono violentate e un missionario australiano fu bruciato vivo insieme ai suoi due figli». Il papa – egli concludeva – non ha denunciato tali episodi come invece ha fatto per quelli in Pakistan o in Egitto. Ma, a parte questa voce, è stato il premier di Islamabad, Yousaf Raza Gilani, a replicare al pontefice, confermando – malgrado le proteste dell’episcopato cattolico e del Consiglio nazionale delle Chiese in Pakistan – che il governo manterrà la legge sulla blasfemia, pur impedendone un «uso distorto».

Tehrik-e-Tahaffuz-e-Namoos-e-Risalat (Alleanza per difendere l’onore del Profeta), che considera «un eroe» l’assassino di Taseer, ha convocato per venerdì 14 gennaio manifestazioni nazionali di protesta contro il papa: le quali si sono svolte, in varie città, senza incidenti ma, con grande delusione degli sponsor, scarsamente partecipate. Queste iniziative sono però solo una faccia della medaglia. Infatti, riporta l’agenzia AsiaNews, per il capo del Consiglio islamico di Islamabad, il mullah Mehfuz Ahmed, «è tempo di assumere posizioni ferme e promuovere la libertà religiosa. Pure io sostengo le parole del papa per l’abrogazione della legge sulla blasfemia». Anche per Muhammad Asad Shafique, capo del dipartimento di Studi islamici presso l’università Quaid-e-Azam di Islamabad, l’intervento del pontefice è stato opportuno, ed è arrivato in un «momento cruciale», perché il processo contro l’assassino di Taseer sarà «un banco di prova per il sistema giudiziario» del paese. Sarcastico, poi, il commento di Waqas Ali Wasti, un altro studioso musulmano: persino il fondatore del Pakistan, Muhammad Alì Jinnah (†1948), verrebbe oggi ucciso da estremisti islamici «con false accuse di blasfemia»!

La questione occidentale: una singolare tesi del pontefice

«Spostando il nostro sguardo dall’Oriente all’Occidente, ci troviamo di fronte ad altri tipi di minacce contro il pieno esercizio della libertà religiosa. Penso, in primo luogo, a Paesi nei quali si accorda una grande importanza al pluralismo e alla tolleranza, ma dove la religione subisce una crescente emarginazione». Come «prova» Ratzinger citava la questione del crocifisso nei luoghi pubblici. Nel novembre 2009 la Corte europea dei diritti dell’uomo, su istanza presentata da una cittadina italiana, aveva stabilito che la presenza dei crocifissi nelle aule scolastiche è «una violazione della libertà dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni e della libertà di religione degli alunni». Ebbene, ricordava il papa con soddisfazione, «l’anno scorso, alcuni Paesi europei si sono associati al ricorso del governo italiano nella ben nota causa concernente l’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici [ricorso accolto; ora dovrà pronunciarsi la Grande Camera della Corte europea]. Desidero esprimere la mia gratitudine alle autorità di queste nazioni, come pure a tutti coloro che si sono impegnati in tal senso, episcopati, organizzazioni e associazioni civili o religiose, in particolare il patriarcato di Mosca e gli altri rappresentanti della gerarchia ortodossa, come tutte le persone – credenti ma anche non credenti – che hanno tenuto a manifestare il loro attaccamento a questo simbolo portatore di valori universali». Mentre lodava di fronte al mondo Berlusconi (mai invece, di fronte al mondo, esplicitamente criticato per gravi scelte politiche su altri temi, o per suoi comportamenti personali diametralmente opposti all’etica cattolica), Ratzinger dimenticava le ragioni «laiche» per cui molti, credenti e non credenti, hanno lodato la sentenza della Corte europea e, pure, le ragioni «evangeliche» per le quali anche molti cattolici ritengono estranea alla fede la battaglia per l’esposizione del crocifisso in luoghi pubblici.

Poi, proseguiva, «non posso far passare sotto silenzio un’altra minaccia alla libertà religiosa delle famiglie in alcuni Paesi europei, là dove è imposta la partecipazione a corsi di educazione sessuale o civile che trasmettono concezioni della persona e della vita presunte neutre, ma che in realtà riflettono un’antropologia contraria alla fede e alla retta ragione». Mentre per i casi orientali il pontefice aveva fatto i nomi (Cina, Pakistan, Egitto…), per quelli occidentali è rimasto sul generico; forse aveva in mente la Spagna di Zapatero. Egli ha comunque espresso un alt di carattere generale: per ribadire che solo la Chiesa cattolica, guidata dal papato, può dare un’educazione sessuale ai giovani – anche nelle scuole pubbliche! – salvando, oltre alla fede, anche la ragione. Quella del pontefice è perciò l’affermazione di una visione teocratica e assolutista, inammissibile in un mondo caratterizzato dai valori «non negoziabili» della laicità e del pluralismo – che, tra l’altro, garantiscono a tutti la libertà religiosa ma, certo, non vogliono privilegiare una data religione!

Domenica 9 gennaio un gruppo di parlamentari italiani, bipartisan, era in piazza San Pietro per l’Angelus e per manifestare solidarietà a quanti, nel pianeta, soffrono per mancanza di libertà religiosa. Input per l’iniziativa erano stati i luttuosi eventi in Pakistan e in Egitto. Benedetto XVI ha espressamente ringraziato i convenuti «per il loro impegno, condiviso con altri colleghi, in favore della libertà religiosa». E molti di loro, in dichiarazioni riportate dai telegiornali, si sono accalorati a difesa della causa. Intanto, però, in Parlamento giacciono i disegni di legge per l’approvazione di sei Intese (stipulate in base all’articolo otto della Costituzione) con buddhisti, testimoni di Geova, induisti, ortodossi, Chiesa apostolica in Italia e Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni: progetti che il governo in carica, sapendo di far così piacere a Oltretevere, tiene sotto naftalina. E, ancora, si dà il caso che un partito del governo tanto lodato da Ratzinger si oppone alla costruzione di moschee. Ed è un fatto che in Italia per anni si è tentato invano di far approvare dal Parlamento una legge generale sulla libertà religiosa, il cui iter nella scorsa legislatura (in questa non è stata presentata, non essendo stati rieletti i due parlamentari che l’avevano elaborata: Marco Boato e Valdo Spini), oltre che dal Centrodestra – e per la «distrazione» di molti dell’opposizione – è stato reso impraticabile da monsignor Giuseppe Betori, allora segretario della Conferenza episcopale italiana e oggi arcivescovo di Firenze. Egli, parlando ovviamente per mandato vaticano, nel corso di due audizioni alla commissione Affari costituzionali della Camera (9 gennaio e 16 luglio 2007), si oppose fermamente alla proposta di legge perché – questo il motivo balenato – essa avrebbe messo in questione i privilegi che il Concordato dà alla Chiesa cattolica. Perché in Italia una religione sia, e rimanga, più uguale delle altre.

David Gabrielli

Libertà religiosa. Le sue ferite nel mondo, le ambiguità in Italia

Il papa ha denunciato le violenze anticristiane in Nigeria, Pakistan ed Egitto. Le risposte seccate dei governi di Islamabad e del Cairo.
Il caso della Cina. Ma in Italia il Vaticano ha fatto la sua parte per impedire l’approvazione di una legge sulla libertà religiosa perché, a suo parere, essa offuscherebbe il primato della Chiesa cattolica.

Il tema della libertà religiosa – antico e nuovo, complesso ed urgente – si è riproposto all’opinione pubblica per eventi, alcuni drammatici altri meno, seppur anch’essi problematici, accaduti negli ultimi tre mesi, e per il discorso con cui il 10 gennaio il papa, ricevendo il corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, ha parlato dell’argomento, che era stato da lui scelto anche per la Giornata mondiale della pace di Capodanno, citando in particolare i casi (differenti) di Cina, Nigeria, Pakistan ed Egitto. Si è riproposto, ma facendo pure emergere, in Italia almeno, che da una parte, nel mondo vaticano e in quello politico, si fanno solenni proclamazioni a favore della libertà religiosa ma, dall’altra, si prosegue un abile lavorìo perché essa non sia davvero affermata nel nostro paese. Alcuni, infatti, sembrano voler difendere solo i cattolici, e non anche i seguaci di qualsiasi altra religione.

Sotto esame Cina, Nigeria, Pakistan, Egitto

La grande Muraglia. A Chengde, provincia di Hebei – duecento chilometri a nordest di Pechino – il 20 novembre il reverendo Joseph Guo Jincai è stato consacrato vescovo, contro il parere del Vaticano; il quale, quattro giorni dopo, ha accusato le autorità cinesi di aver «forzato diversi vescovi a partecipare alla cerimonia e a conferire l’ordinazione episcopale». Il comunicato ricordava la lettera ai cattolici cinesi del 27 maggio 2007, con cui Benedetto XVI aveva auspicato un dialogo rispettoso al fine di trovare un accordo con il Governo sulla nomina dei vescovi; un dialogo – precisava il comunicato – interrotto per responsabilità dell’Associazione patriottica cattolica cinese sotto l’influenza del signor Liu Bainian. Tale associazione, nata nel ’51 e strettamente controllata dal governo cinese, non è riconosciuta dalla Santa Sede: essa accetta, infatti, tutti i dogmi cattolici, ma rivendica una totale autonomia da Roma, in particolare il diritto di nominarsi i vescovi. Quella parte del clero che ha inteso e intende rimanere fedele al papa, e dunque non all’associazione, ha patito e patisce limitazioni gravi o, anche, la condanna a molti anni di carcere. Non è facile, tuttavia, districarsi nella realtà, perché vi sono vescovi che Roma non riconosce e altri scelti dal governo ma in qualche modo insieme alla Santa Sede o, comunque, da essa poi riconosciuti. Ancor meno facile è distinguere tra i fedeli «patriottici» e non, perché la gente fa quello che può, e va alla chiesa che trova. Arduo, poi, quantificare il loro numero: quattro-cinque milioni, o molti di più? Per l’insieme dei cristiani (vi sono anche Chiese protestanti), poi, si parla di cento milioni di fedeli – in un paese di un miliardo e quattrocento milioni di abitanti.

Dopo la contestata consacrazione episcopale, dal 7 al 9 dicembre si è poi svolta a Pechino l’ottava Assemblea dei Rappresentanti cattolici cinesi, la quale – precisava un nuovo comunicato vaticano del 17 dicembre – «è stata imposta a numerosi vescovi, sacerdoti, religiose e fedeli laici». Essa ha eletto alla presidenza dell’associazione patriottica Fang Xingyao, un vescovo in comunione col papa, e a capo del Collegio dei vescovi Ma Yinglin, vescovo non riconosciuto dal Vaticano. Per decifrare il gioco di Pechino occorre ricordare che il Vaticano continua ad intrattenere rapporti diplomatici con Taiwan; anche se da vari anni Roma non nomina più nunzi nell’isola, ma solo un incaricato d’affari, rimane pur vero che Taipei ha un suo ambasciatore presso la Santa Sede.

Dunque – si ragiona sulla grande Muraglia – perché mai la Cina dovrebbe lasciare la mano libera al papa che, intanto, intrattiene rapporti diplomatici con un paese che non c’è, e che è considerato parte integrante dell’unica Cina? Pechino poi non dimentica che, malgrado le grandi prospettive aperte dal gesuita Matteo Ricci (†1610), che aveva gettato i germi per un cristianesimo autenticamente cinese, infine Roma, incapace di superare il proprio occidentalismo, condannò i «riti cinesi». Oggi, naturalmente, i tempi sono cambiati e riferirsi a vicende antiche potrebbe sembrare pretestuoso. Ma i cinesi hanno la memoria lunga e, per intanto, ribadiscono l’inammissibilità dell’atteggiamento passato e presente della Santa Sede. La quale, da parte sua, dovrebbe forse prendere atto che la commistione di ruoli nel papa – uno politico come sovrano di uno Stato (minuscolo fin che si vuole, ma reale) e uno religioso come capo della Chiesa cattolica – finisce per offuscare e l’uno e l’altro ruolo, o fare considerare lui come un politico. Ma, in politica, i cinesi sono maestri.

Scontri sull’altipiano. Vasta tre volte l’Italia, la Nigeria, con i suoi centocinquanta milioni di abitanti, è il più popoloso paese d’Africa e, date le sue riserve petrolifere, uno dei più ricchi, anche se di tali ricchezze i più non beneficiano affatto. Il paese è una confederazione di Stati, uno dei quali, il Plateau – altipiano, con capitale Jos – si trova al centro del paese, alla confluenza del nord, musulmano, e del sud, animista e cristiano. Proprio Jos e la regione circostante sono al centro di violentissimi scontri che dal 2008 hanno provocato più di un migliaio di morti e la distruzione di chiese e moschee; l’ultimo round di violenze, con un centinaio di vittime, ha segnato la città a fine dicembre scorso. Formalmente lo scontro è di tipo religioso, tra musulmani e cristiani (con responsabilità equamente divise); in realtà, come sostiene l’arcivescovo cattolico di Jos, monsignor Ignatius Ayau Kaigama, all’origine dei contrasti vi sono motivazioni etniche e politiche. Gli abitanti della città, in maggioranza cristiani, tenderebbero con qualsiasi mezzo a impedire l’arrivo, dalle campagne, di hausa, etnia di religione musulmana. Ognuna delle due parti vorrebbe controllare lo Stato, cruciale per la sua posizione geografica; e questo tanto più ora, dato che quest’anno si dovrebbero svolgere in Nigeria le elezioni per scegliere il presidente della repubblica, il cui mandato è quadriennale. Umaru Yar’Adua, musulmano, in carica dal 2007, è morto nel maggio scorso, e l’interim è stato assunto dal suo vice, Goodluck Jonathan, cristiano. Alcuni Stati del nord, musulmani, contestano la legittimità costituzionale di tale «interregno». Naturalmente, molti paesi, non solo africani, sono interessati al futuro politico-religioso della Nigeria: gli occidentali per garantirsi il suo petrolio; e l’Arabia Saudita nella speranza che essa diventi uno Stato musulmano doc.

La blasfemia contro Muhammad. Dal punto di vista geopolitico, il Pakistan è considerato filo-occidentale; insomma, come amava dire il capo della Casa Bianca Ronald Reagan, «è dei nostri», pur essendo massicciamente musulmano, a prevalenza sunnita (le altre religioni, nell’insieme, sono solamente il 5% – tra essi, i cristiani il 2% – dei centottanta milioni di abitanti). Perciò nessuno in Occidente ha protestato con il Pakistan che si è armato con la bomba nucleare. Né – essendo negli anni Ottanta un prezioso alleato contro l’Urss che aveva invaso l’Afghanistan – preoccupava troppo il fatto che nel 1986 il governo di Islamabad avesse introdotto la legge sulla blasfemia, che prevede l’ergastolo per chi offende il Corano e la pena di morte in caso di offesa del profeta Muhammad. Con tale legge, che permette di accusare senza avere prove inconfutabili, decine di cristiani sono stati messi a morte, dopo processi sommari gravati dal sospetto che l’accusa di blasfemia sia stata un comodo pretesto per regolare altri conti. Molti altri cristiani non sono stati condannati ma, per evitare guai, hanno dovuto abbandonare il luogo natìo.

Tuttavia qualche intellettuale pakistano, come Ahmed Quraishi, sostiene che la legge non fu voluta in funzione anticristiana, ma soprattutto per sedare le tensioni tra i gruppi pakistani filo-occidentali, magari anche musulmani ma di ispirazione «laica», insofferenti di fronte ad una comprensione fondamentalista dell’islam e, dall’altra parte, i più accaniti gruppi islamici sostenitori di una interpretazione rigorista del Corano. La Commissione cattolica pakistana Giustizia e pace sembra confermare questa tesi: secondo i suoi dati, dall’86 all’agosto 2009 sono state incriminate per «blasfemia» 964 persone: tra esse, 479 erano musulmane, 340 appartenenti all’«Ahmadiyya» (associazione fondata a fine Ottocento da Mirza Gulam Ahmad allo scopo di rinnovare l’islam; in Pakistan non è considerata musulmana né dai sunniti né dagli sciiti; nel paese conta quattro milioni di seguaci), 119 cristiane. Rimane comunque il fatto che le ultimissime vicende legate alla discussa legge dimostrano che essa non ha calmato, in nessuna direzione, le pretese degli oltranzisti islamici.

Infatti, il 4 gennaio, ad Islamabad, il governatore del Punjab, Salman Taseer, è stato assassinato dalla sua stessa guardia del corpo, decisa a punirlo per aver egli definito «nera» la legge sulla blasfemia. Poco tempo prima l’uomo politico, favorevole ad abolire quella legge, aveva chiesto al presidente pakistano Asif Ali Zardari di concedere la grazia ad Asia Bibi, la donna cristiana del Punjab, quarantacinquenne e madre di cinque figli, condannata a morte in novembre – ma è in atto un ricorso – dopo una denuncia per blasfemia. A dicembre l’imam di una moschea di Peshawar (città ai confini con l’Afghanistan) aveva offerto una ricompensa di quattromilacinquecento euro a chiunque, se il governo tentennerà, uccida Asia Bibi. Si deve però aggiungere che, nel contempo, si erano levate ad Islamabad varie voci – non solo dell’episcopato cattolico, ma anche di personalità musulmane – per chiedere una sostanziale revisione della legge sulla blasfemia.

La strage nella chiesa copta. La notte di Capodanno, mentre ad Alessandria d’Egitto molta gente affollava la chiesa dei Due santi, appartenente alla Chiesa copta ortodossa, un kamikaze si è fatto esplodere sulla porta del tempio, provocando ventitré morti e decine di feriti. Chi vuole intimidire i copti, per ridurre il più possibile – spingendoli magari ad emigrare – la loro presenza in Egitto? Quella copta (l’aggettivo deriva dal greco, e significa «egiziana») è una Chiesa che si gloria di essere stata fondata da Marco, il «segretario» di Pietro. Ai tempi del Concilio di Calcedonia, sul Bosforo, nel 451, si oppose a bizantini e latini e, dunque, rifiutò le sue definizioni – in Cristo vi sono due «nature» e una «persona» – sostenendo invece, insieme ad armeni e siri, che nel Verbo incarnato vi sono una «natura» e una «persona». Perciò i trionfatori di Calcedonia designarono i tre gruppi come «monofisiti», quanti vedono in Cristo una sola natura. Al di là delle sottigliezze teologiche (ma oggi si ritiene che, malgrado differenze verbali e filosofiche, in realtà copti armeni e siri avevano la stessa fede di latini e bizantini), i critici di quel Concilio non volevano sottostare all’imperatore di Costantinopoli. In patria oggi i copti sono circa otto/dieci milioni, su una popolazione complessiva di ottanta milioni di abitanti, in massima parte musulmani sunniti (ma vi sono anche minoranze greco-ortodosse, cattolico-melkite, armene; e copti cattolici, nati nell’Ottocento staccandosi dalla Chiesa-madre).

A parte le questioni teologiche, che non interessano chi odia i copti, la loro «colpa» è di essere la principale minoranza religiosa in Egitto; e non una minoranza qualsiasi, visto che la loro Chiesa è radicata nel paese da ben sette secoli prima dell’arrivo dei musulmani. In teoria, i copti hanno piena libertà religiosa ma, di fatto, la legislazione, oppure una sua interpretazione burocratica, spesso rende loro difficile la vita, perché i tribunali tendono a favorire i musulmani. Il governo – retto dal presidente Hosni Mubarak, che, con successive rielezioni, guida il paese dal 1981 (quando successe ad Anwar Sadat, assassinato dai «Fratelli musulmani») – proclama di garantire piena libertà religiosa a tutti i cittadini; ma deve tener conto della fronda dei movimenti islamisti che vorrebbero, appunto, un Egitto solo musulmano. Inoltre, Mubarak si considera, ed è considerato, un alleato indispensabile dell’Occidente, e degli Stati Uniti in particolare, in Medio Oriente; ma proprio questa alleanza non piace a molti suoi nemici. D’altra parte, a proposito della strage di Capodanno le autorità del Cairo hanno sostenuto che i suoi responsabili non sono egiziani, ma «vengono da fuori»: seguaci di Bin Laden? Oppure è stata una qualche potenza straniera ad organizzare una strage che – dato il periodo natalizio – non poteva non avere particolare eco in tutto il mondo, e dunque ancor più mettere Mubarak in cattiva luce? Quest’anno, infatti, dovrebbero svolgersi in Egitto le elezioni presidenziali: ma per ora non si sa se l’attuale titolare (classe 1928) si ricandiderà, oppure se candiderà un suo figlio, con vittoria plebiscitaria comunque già garantita.

Contrastanti reazioni al Cairo e ad Islamabad

Sottolineando l’importanza della libertà religiosa – «questo diritto dell’uomo, che in realtà è il primo dei diritti» – nel suo discorso ai diplomatici Benedetto XVI ha elencato i paesi dove, a suo giudizio, essa è maggiormente violata. Oltre l’Iraq (degli attentati anti-cristiani in quel paese già abbiamo riferito: vedi Confronti 12/2010), egli ha citato appunto Cina, Nigeria, Pakistan, Egitto. Se Pechino non ha replicato (ma già lo aveva fatto in dicembre, respingendo le «interferenze vaticane negli affari interni della Cina»), e nemmeno la Nigeria, ha replicato invece, seccato, il Cairo, perché Ratzinger, dopo aver citato le stragi a Baghdad, aveva detto: «Anche in Egitto, ad Alessandria, il terrorismo ha colpito brutalmente dei fedeli in preghiera in una chiesa. Questa successione di attacchi è un segno ulteriore dell’urgente necessità per i governi della regione di adottare, malgrado le difficoltà e le minacce, misure efficaci per la protezione delle minoranze religiose».

Personalità musulmane hanno criticato il papa che, a suo tempo, non avrebbe levato la voce per denunciare le stragi di musulmani in Iraq; e il raìs egiziano ha fatto richiamare in patria «per consultazioni» (formula diplomatica per dire che un Paese è irritato con quello presso il quale è accreditato un ambasciatore), l’ambasciatore dell’Egitto presso la Santa Sede, la signora Lamia Aly Hamada Mekhemar. Ad essa, prima della sua partenza, monsignor Dominique Mamberti, «ministro degli Esteri vaticano», ha ribadito che il papa «condivide pienamente la preoccupazione del governo egiziano di “evitare l’escalation dello scontro e delle tensioni per motivazioni religiose”, ed apprezza gli sforzi che esso fa in tale direzione». Intanto, la notte di Natale – che i copti celebrano il 7 gennaio – anche molti musulmani hanno raggiunto, per solidarietà, le chiese dei copti. E intellettuali musulmani hanno affermato: «In Egitto o ci salviamo tutti insieme, musulmani e cristiani, o periremo tutti».

Sul fronte del Pakistan, Ratzinger aveva affermato: «Incoraggio le autorità di quel Paese a compiere gli sforzi necessari per abrogare la legge sulla blasfemia, tanto più che è evidente che essa serve da pretesto per provocare ingiustizie e violenze contro le minoranze religiose. Il tragico assassinio del governatore del Punjab mostra quanto sia urgente procedere in tal senso». In proposito, il citato Quraishi, pur non negando violenze anti-cristiane nel suo paese, ha notato che esse «non sono paragonabili a ciò che nel 2008-09 è stato fatto ai cristiani in India ove [soprattutto nello Stato di Orissa] centinaia di chiese e di case di cristiani furono sventrate da hindù estremisti, suore furono violentate e un missionario australiano fu bruciato vivo insieme ai suoi due figli». Il papa – egli concludeva – non ha denunciato tali episodi come invece ha fatto per quelli in Pakistan o in Egitto. Ma, a parte questa voce, è stato il premier di Islamabad, Yousaf Raza Gilani, a replicare al pontefice, confermando – malgrado le proteste dell’episcopato cattolico e del Consiglio nazionale delle Chiese in Pakistan – che il governo manterrà la legge sulla blasfemia, pur impedendone un «uso distorto».

Tehrik-e-Tahaffuz-e-Namoos-e-Risalat (Alleanza per difendere l’onore del Profeta), che considera «un eroe» l’assassino di Taseer, ha convocato per venerdì 14 gennaio manifestazioni nazionali di protesta contro il papa: le quali si sono svolte, in varie città, senza incidenti ma, con grande delusione degli sponsor, scarsamente partecipate. Queste iniziative sono però solo una faccia della medaglia. Infatti, riporta l’agenzia AsiaNews, per il capo del Consiglio islamico di Islamabad, il mullah Mehfuz Ahmed, «è tempo di assumere posizioni ferme e promuovere la libertà religiosa. Pure io sostengo le parole del papa per l’abrogazione della legge sulla blasfemia». Anche per Muhammad Asad Shafique, capo del dipartimento di Studi islamici presso l’università Quaid-e-Azam di Islamabad, l’intervento del pontefice è stato opportuno, ed è arrivato in un «momento cruciale», perché il processo contro l’assassino di Taseer sarà «un banco di prova per il sistema giudiziario» del paese. Sarcastico, poi, il commento di Waqas Ali Wasti, un altro studioso musulmano: persino il fondatore del Pakistan, Muhammad Alì Jinnah (†1948), verrebbe oggi ucciso da estremisti islamici «con false accuse di blasfemia»!

La questione occidentale: una singolare tesi del pontefice

«Spostando il nostro sguardo dall’Oriente all’Occidente, ci troviamo di fronte ad altri tipi di minacce contro il pieno esercizio della libertà religiosa. Penso, in primo luogo, a Paesi nei quali si accorda una grande importanza al pluralismo e alla tolleranza, ma dove la religione subisce una crescente emarginazione». Come «prova» Ratzinger citava la questione del crocifisso nei luoghi pubblici. Nel novembre 2009 la Corte europea dei diritti dell’uomo, su istanza presentata da una cittadina italiana, aveva stabilito che la presenza dei crocifissi nelle aule scolastiche è «una violazione della libertà dei genitori ad educare i figli secondo le loro convinzioni e della libertà di religione degli alunni». Ebbene, ricordava il papa con soddisfazione, «l’anno scorso, alcuni Paesi europei si sono associati al ricorso del governo italiano nella ben nota causa concernente l’esposizione del crocifisso nei luoghi pubblici [ricorso accolto; ora dovrà pronunciarsi la Grande Camera della Corte europea]. Desidero esprimere la mia gratitudine alle autorità di queste nazioni, come pure a tutti coloro che si sono impegnati in tal senso, episcopati, organizzazioni e associazioni civili o religiose, in particolare il patriarcato di Mosca e gli altri rappresentanti della gerarchia ortodossa, come tutte le persone – credenti ma anche non credenti – che hanno tenuto a manifestare il loro attaccamento a questo simbolo portatore di valori universali». Mentre lodava di fronte al mondo Berlusconi (mai invece, di fronte al mondo, esplicitamente criticato per gravi scelte politiche su altri temi, o per suoi comportamenti personali diametralmente opposti all’etica cattolica), Ratzinger dimenticava le ragioni «laiche» per cui molti, credenti e non credenti, hanno lodato la sentenza della Corte europea e, pure, le ragioni «evangeliche» per le quali anche molti cattolici ritengono estranea alla fede la battaglia per l’esposizione del crocifisso in luoghi pubblici.

Poi, proseguiva, «non posso far passare sotto silenzio un’altra minaccia alla libertà religiosa delle famiglie in alcuni Paesi europei, là dove è imposta la partecipazione a corsi di educazione sessuale o civile che trasmettono concezioni della persona e della vita presunte neutre, ma che in realtà riflettono un’antropologia contraria alla fede e alla retta ragione». Mentre per i casi orientali il pontefice aveva fatto i nomi (Cina, Pakistan, Egitto…), per quelli occidentali è rimasto sul generico; forse aveva in mente la Spagna di Zapatero. Egli ha comunque espresso un alt di carattere generale: per ribadire che solo la Chiesa cattolica, guidata dal papato, può dare un’educazione sessuale ai giovani – anche nelle scuole pubbliche! – salvando, oltre alla fede, anche la ragione. Quella del pontefice è perciò l’affermazione di una visione teocratica e assolutista, inammissibile in un mondo caratterizzato dai valori «non negoziabili» della laicità e del pluralismo – che, tra l’altro, garantiscono a tutti la libertà religiosa ma, certo, non vogliono privilegiare una data religione!

Domenica 9 gennaio un gruppo di parlamentari italiani, bipartisan, era in piazza San Pietro per l’Angelus e per manifestare solidarietà a quanti, nel pianeta, soffrono per mancanza di libertà religiosa. Input per l’iniziativa erano stati i luttuosi eventi in Pakistan e in Egitto. Benedetto XVI ha espressamente ringraziato i convenuti «per il loro impegno, condiviso con altri colleghi, in favore della libertà religiosa». E molti di loro, in dichiarazioni riportate dai telegiornali, si sono accalorati a difesa della causa. Intanto, però, in Parlamento giacciono i disegni di legge per l’approvazione di sei Intese (stipulate in base all’articolo otto della Costituzione) con buddhisti, testimoni di Geova, induisti, ortodossi, Chiesa apostolica in Italia e Chiesa di Gesù Cristo dei santi degli ultimi giorni: progetti che il governo in carica, sapendo di far così piacere a Oltretevere, tiene sotto naftalina. E, ancora, si dà il caso che un partito del governo tanto lodato da Ratzinger si oppone alla costruzione di moschee. Ed è un fatto che in Italia per anni si è tentato invano di far approvare dal Parlamento una legge generale sulla libertà religiosa, il cui iter nella scorsa legislatura (in questa non è stata presentata, non essendo stati rieletti i due parlamentari che l’avevano elaborata: Marco Boato e Valdo Spini), oltre che dal Centrodestra – e per la «distrazione» di molti dell’opposizione – è stato reso impraticabile da monsignor Giuseppe Betori, allora segretario della Conferenza episcopale italiana e oggi arcivescovo di Firenze. Egli, parlando ovviamente per mandato vaticano, nel corso di due audizioni alla commissione Affari costituzionali della Camera (9 gennaio e 16 luglio 2007), si oppose fermamente alla proposta di legge perché – questo il motivo balenato – essa avrebbe messo in questione i privilegi che il Concordato dà alla Chiesa cattolica. Perché in Italia una religione sia, e rimanga, più uguale delle altre.

David Gabrielli

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