Come nel maggio francese, «non è che l’inizio, continuiamo la lotta». Le grandi manifestazioni che si sono tenute in tutta Italia per difendere la dignità della donna stanno innescando nuove iniziative e mobilitazioni per affermare che le donne sono molto diverse da come le vorrebbe il presidente del Consiglio.
«Contro il male pensa, non urlare!». Nel minuto e mezzo di silenzio nella gremita piazza del Popolo a Roma, sotto il sole tiepido del 13 febbraio, insistentemente si agita nella mia testa questa citazione di Soren Kierkegaard… La frase si trova in La malattia mortale, che per il filosofo danese è la disperazione. Quando l’hai capito, puoi anche urlare. Quando hai capito che la disperazione può diventare azione e cambiamento, puoi rispondere «adesso!» all’interrogativo del palco «se non ora, quando?».
Ma l’urlo è solo un momento di identificazione liberatoria; contro il male e l’assuefazione ad una mercificazione di corpi e di cervelli, devi vedere, devi pensare, devi appassionarti alla sorte di tanti giovanissimi, di tante bambine che giocano in questa piazza vistosamente intergenerazionale con la parola «basta!» scritta sui loro cartelli.
L’appuntamento è in oltre 200 città d’Italia. È una manifestazione inusuale, non solo per la novità della presenza maschile in un evento promosso e gestito da donne, ma anche per la mancanza di sigle, sia di movimento che istituzionali: una mobilitazione culturale, profondamente politica, lanciata da un comitato spontaneo di donne per la difesa della dignità di ogni persona, perché abbia rilevanza politica uno sguardo femminile sul mondo. Per dirlo con un esempio, la regista Cristina Comencini ricorda che la cancelliera tedesca Merkel, che pare non essere né una comunista né una fanatica femminista, appena eletta decise di triplicare gli asili nido, liberando così un prezioso tempo-lavoro femminile; e ora la Germania vola! «Non si pensi di poter cancellare la nostra intelligenza – afferma Susanna Camusso, segretario generale della Cgil, in un intenso intervento conclusivo – nessuna di noi abbasserà lo sguardo, perché non dovremo mai dire di essere state zitte».
La cultura di genere ha bisogno di spazi di libertà, di confronto, di creatività; ha bisogno di pesare nei rapporti di forza per permettere alle donne la pratica di una piena cittadinanza. Di questo scrive Serena Sapegno nel suo editoriale in rete (www.inGenere.it), in cui insiste sulla necessità di un analogo e rovesciato percorso di genere da parte degli uomini, citando come esempio il Gruppo maschile-plurale. Ed è un uomo, un credente noto ai nostri lettori, Enzo Mazzi, che sulle pagine de la Repubblica (Firenze, 13/2) dice: «La cultura femminile è essenziale oggi per un superamento delle vecchie prigioni delle anime e dei corpi». Leggo la dichiarazione e registro per contrasto un flash visivo: la scena è una popolare trasmissione televisiva, ospite il presidente del Consiglio. Una graziosa ragazza chiede lumi, perché non riesce a trovare un lavoro adeguato ai suoi studi; la sorridente risposta è: «Purtroppo mio figlio non è libero, ma lei si dia da fare e troverà certamente un marito ricco!». Era una battuta, naturalmente! Siamo noi che non abbiamo humour.
Una politica che inventa la «donna-tangente», per usare un’espressione di Norma Rangeri su il manifesto, non è immorale: di più; ci rimanda indietro, in un Medioevo feudale dove il mercato tra sesso e potere è pratica diffusa, senza neppure l’impaccio di una legge contro la corruzione.
I guasti di questa vicenda hanno oggi una ricaduta culturale grave: un modello di vita fatto di visibilità e di denaro; di una bellezza omologata, costruita a caro prezzo in funzione del sogno: comparire in televisione, a tutti i costi, belli, «palestrati», ignari della propria ignoranza, pronte a tutto pur di apparire in unreality show o, mute «veline», in qualche altro programma. Una società dove tutto ha un prezzo e può essere comprato.
Ed eccoci al dibattito di attualità. L’accusa chiama in causa il puritanesimo protestante «sessuofobico e bigotto». Scende nell’arena il direttore de Il Foglio, Giuliano Ferrara, che indice una manifestazione in sostegno di Berlusconi, contro i nuovi puritani fustigatori di costumi, violenti rivoluzionari, incapaci di mediazioni e di tolleranza.
In realtà i calvinisti del Seicento in Inghilterra volevano creare una Chiesa riformata democratica, mentre in politica sognavano la repubblica ginevrina. Furono anche violenti; furono anche perseguitati: la storia non si semplifica in due parole. Certo è che con loro nasce la modernità: il primato della coscienza individuale, il rapporto personale con Dio, la responsabilità di ognuno del bene comune. Ed è del «bene comune» che ci occupiamo; non della libertà sessuale, ma del controllo del potere su corpi-merce e della ricaduta di queste pratiche sulle giovani generazioni. Per questo disturba un movimento che chiede solo dignità, ma la chiede a voce alta e forte.
Franca Long