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Una scuola pubblica da difendere e riformare

by redazione

Nonostante i molti fallimenti, occorre difendere la scuola come strumento di emancipazione e di promozione sociale. Una scuola democratica deve assicurare un solido sapere di base in età precoce a chi non ha altra possibilità di acquisirlo. Come maestro elementare «di strada» in quartieri disagiati, Rossi-Doria si è battuto contro la dispersione scolastica e l’esclusione precoce e ha fondato il progetto Chance.

Nell’anno dei centocinquanta anni dell’Italia unita andrebbe riproposta – con una sorta di sereno «spirito di verità» – la questione della scuola pubblica. In modo molto schietto, facendosi due domande: la scuola va difesa? A quali condizioni e in quale prospettiva propositiva è oggi difendibile la scuola?

Sì, la scuola va difesa, ancor più di fronte ai recenti attacchi. Perché la scuola fa una grande opera di tenuta e anche di «riduzione del danno», in risposta a modelli educativi che sono profondamente cambiati e che, in modo crescente, hanno determinato un’emergenza educativa. E perché la scuola ogni mattina mette insieme i mondi interiori di ogni bambino e ragazzo che sta crescendo con quello di ciascun altro e, al contempo, con l’universo mondo, le sue leggi, la sua storia, i suoi problemi e i molti alfabeti che servono a leggerlo. È in questa doppia funzione – mettere insieme persone diverse e apprendere – che la scuola è l’unico luogo salvo dalla parzialità, dall’eccesso di soggettivismo, dal «particolare».

Le condizioni per difendere la scuola sono legate ad alcuni evidenti fallimenti, che non si possono più nascondere. E che sono: apprendimenti poveri, dispersione scolastica di massa proprio nelle aree di massima povertà delle famiglie, un fallimento formativo che coinvolge ben 1/5 del totale degli aventi diritto alla scuola e 1/3 nel Mezzogiorno, comportamenti distruttivi molto diffusi e più generali e complessi fenomeni di disagio, che sono, certo, problemi ulteriori e riferibili, appunto, all’intero impianto educativo della società – famiglia, comunità, media, modelli legati al mercato ecc. – ma che si manifestano a scuola e che, dalla scuola, investono la pubblica opinione.

In risposta a questo, in primo luogo deve riprendere forza la scuola come leva di emancipazione, di promozione sociale. Per farlo c’è bisogno di imparare presto e bene nella vita, più di quanto oggi si faccia a scuola.

Ma cosa sono le cose da imparare presto nella vita? In primo luogo muoversi fisicamente bene. Esprimersi in diversi modi e contesti. Imparare presto e bene a leggere, comprendere e scrivere la lingua italiana. Perché la si sta perdendo in termini di lessico, di costruzione sintattica, di ortografia. E perché solo l’italiano può oggi assumere la funzione decisiva di veicolo di nuova cittadinanza per chi arriva, senza negare le identità di ognuno. Acquisire i cardini della matematica e le procedure della logica indispensabili quanto la lingua a orientarsi nella complessità. Comunicare in una lingua straniera. Perché prima avviene e più si potrà migliorare poi. E perché mette su un piano di parità bambini italiani e non italiani rispetto al nominare il mondo in modo altro.

Sapere la geografia e conoscere le basi di funzionamento della biosfera per guardare, insieme, ai problemi globali comuni, fin da piccoli. Sapere le linee fondamentali della storia, in ordine cronologico – come raccomandava Braudel; e le grandi questioni antiche eppure aperte dell’umanità. Ma c’è anche da far invadere la scuola dalla musica. Suonata insieme. Perché, insieme alla danza, è una lingua universale e sviluppa comunità; favorisce la creatività unitamente al rigore e la realistica valutazione della propria reale competenza e di quelle costruite insieme con gli altri. Tutte queste cose si imparano meglio con un approccio fondato sulla ricerca, sulla co-costruzione di procedure e di creazioni. Sul laboratorio. Che funziona proprio se condotto con rigore.

Poi, si deve iniziare a imparare presto la cura delle coerenze tra contenuti e forme, la capacità di ideare, organizzare e portare a compimento azioni, opere, prodotti, da soli e insieme agli altri. E presto si deve avviare l’allenamento alla fatica e alle mediazioni che ciò comporta.

Per chi nasce in famiglie ben scolarizzate, l’acquisizione delle conoscenze nelle diverse discipline può avvenire anche altrove dalla scuola. Per chi non ha questo privilegio no. Perciò: assicurare un solido sapere di base in età precoce a chi non ha altra possibilità di acquisirlo è esattamente ciò che distingue una scuola democratica. Una scuola democratica non è, dunque, contraria al merito. Al contrario, il poter acquisire merito, potenzialmente, da parte di tutti quelli che la frequentano è il suo mandato, è ciò che la rende repubblicana in senso proprio. Quello che, invece, non può essere il suo mandato è che vi sia una meritocrazia intesa in modo indipendente dalla discriminazione positiva indispensabile a compensare le differenze di partenza.

E se tutta questa opera deve iniziare nella scuola di base, deve continuare dopo.

Di fronte a questa prospettiva avviene che si dica: già lo facciamo.

Il problema è che i risultati ci dicono che questo non è più vero e non è vero con i deboli, i fragili, i poveri, ma anche con le parti forti di ciascuno, con il talento, con l’inclinazione del singolo. E questo, a sua volta, rimanda al fatto che se cadono fuori dalla scuola o non imparano centinaia di migliaia di ragazzi e altre centinaia di migliaia si annoiano e non crescono nelle loro parti deboli e neanche in quelle forti, beh, allora qualcosa non va. E non va in termini, appunto, democratici – cioè riguardo alla stessa nozione di eguaglianza, di equità.

Così i temi dell’equità e della differenza vanno rimessi al centro della politica per la scuola. Ma cos’è l’equità? Spesso l’equità a scuola è stata intesa come il dare la stessa scuola standard a tutti: stesse ore di Italiano, Scienze, Matematica, offerte nello stesso modo. Ma questo non fa i conti con le differenze. Le rimuove. E le differenze, però, esistono. Allora: come dare diritto uguale a ragazzi che sono tra loro diversi per stili cognitivi, conoscenze di partenza, culture, modi di essere e fare? Non basta dire «eguali» per risolvere questa questione. Anzi, spesso è sbagliato. Va detto «diversi». Perché è solo dalla diversità che è possibile negoziare i termini di un’effettiva eguaglianza.

Nei confronti di una destra che, ben al di là degli estremismi della Lega, ha un’idea di scuola omologante perché fondata sulle funzioni trasmissive, che riducono le opportunità di apprendere e misurano il merito in modo riduttivo rispetto a una promozione delle persone che accolga le differenze, non si può più rispondere con la mera difesa della scuola standard uguale per tutti. E bisogna accogliere l’evidenza che i bisogni formativi non sono uniformi. La rinuncia all’offerta standard dovrà essere accompagnata da un’idea di equità che ci fa finalmente uscire dal ventesimo secolo. E che si muove in tre direzioni contemporaneamente. Dà di più a chi parte con meno. Offre a ciascuno le opportunità sia per recuperare le proprie parti deboli che per nutrire le proprie parti forti, inclinazioni, talenti. Dedica spazi e tempi per fare scoprire a ognuno le proprie parti nascoste, non conosciute. Questo approccio necessita di un tempo-scuola duale, con momenti per tutti e momenti secondo i diversi bisogni. Chiama al superamento della rigida corrispondenza tra aula e classe. Il che richiede, necessariamente, il fatto che le aule diventino dei laboratori tematici, delle botteghe cognitive, pensati per livelli di competenza.

Questa prospettiva è ancor più matura perché non ha davvero più senso l’insegnamento prevalentemente trasmissivo, in quanto oggi si impara ovunque e la funzione docente può riprendere un senso solo se chi insegna è promotore di ricerca, costruttore, insieme ai ragazzi, di azioni progettuali che tengano insieme molti modi di apprendere, nelle mura di scuola, fuori, nel mondo reale e in quello virtuale, insieme.

Tutto questo muta i termini stessi del governo degli spazi, della didattica, delle docenze. Ciò implica di allargare il tempo per il confronto tra insegnanti, di pensare a un organico a ciò funzionale, di rivedere il contratto scuola.

È difficile? Sì. Ma non c’è alternativa.

Marco Rossi-Doria

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