Come osserva il presidente della Federazione nazionale della stampa italiana, la Rai sta dando – ancor più che in passato – prove sempre maggiori di faziosità politica. Ma molti spettatori se ne sono accorti e cominciano ad abbandonarla.
«Il pluralismo e la libertà dei media nell’Unione europea e nei suoi stati membri continuano a destare gravi preoccupazioni (in particolare per quanto concerne Italia, Bulgaria, Romania, Repubblica ceca ed Estonia)». Sono parole tratte dalla risoluzione votata a marzo dal Parlamento di Strasburgo e dedicata alla legge-bavaglio ungherese. La lista delle nazioni è da tenere a mente, perché consente di misurare una volta di più l’involuzione profonda che ha subìto il nostro Paese: fondatore della Comunità europea, si ritrova oggi ad essere considerato alla stregua delle fragili democrazie post-sovietiche.
Di questo quadro allarmante il servizio pubblico porta segni vistosi: lividi, verrebbe da definirli. Ci stiamo mettendo alle spalle una campagna elettorale per le amministrative in cui si è dovuto faticare per impedire che, come era già successo un anno fa, venissero chiusi i talk-show di approfondimento politico. Lo scampato pericolo non deve però occultare il fatto che certe spinte autoritarie hanno ormai messo radici nel centrodestra, che considera normale chiudere testate giornalistiche proprio nel momento in cui maggiore dovrebbe essere l’informazione. Del resto, è la stessa azienda il cui direttore generale telefona al programma di Michele Santoro con toni minacciosi e telefona invece all’«Isola dei famosi» per dire che «questa sì che è una trasmissione che rispetta le regole del servizio pubblico». E se la sua poltrona per mesi è stata considerata vacillante non è per il ridicolo della seconda telefonata, ma perché le minacce contenute nella prima non hanno ancora prodotto l’esito censorio voluto dal Capo. Tremonti può permettersi di chiedere e ottenere dall’Agcom (l’Autorità di garanzia nelle comunicazioni) che Milena Gabanelli venga costretta ad una puntata «di riparazione» sulla manovra finanziaria del governo perché il modo in cui Report se ne è già occupato lui lo considera insopportabilmente critico: anche se il ministro era stato correttamente e ripetutamente invitato in trasmissione, ma aveva rifiutato di andarci. Il Tg1 esibisce una tale sproporzione nei tempi dedicati al governo e all’opposizione da sentirsi ordinare il riequilibrio, pur se la sanzione Agcom arriva dopo mesi. Ben prima dell’Autorità di garanzia se ne erano accorti gli spettatori, che a centinaia di migliaia hanno lasciato la testata per passare, dall’autunno scorso, al Tg de La7 diretto da Enrico Mentana: un telegiornale in cui i fatti della politica vengono raccontati per farsi capire dal pubblico e non per compiacere il presidente del Consiglio. Ma forse non soltanto il rifiuto della faziosità politica ha favorito la migrazione. Il Tg1 paga anche – per fortuna – il fastidio crescente per la pseudo-informazione, per quei servizi confezionati sul nulla che occupano gli ultimi minuti del giornale. Le «frivolezze», come vengono definite educatamente nel «libro bianco» sulla gestione Minzolini preparato dal Comitato di redazione, cioè dalla rappresentanza sindacale dei giornalisti della testata: un puntiglioso elenco (chi vuole può scorrerlo sul sito www.fnsi.it) di due anni di manomissioni politiche e di futilità. Il direttore del Tg1 parla di «caramelle» offerte al pubblico per indurlo ad «ingoiare» anche le notizie più istituzionali, senza che nessuno lo convochi d’urgenza a viale Mazzini per dar conto di questa offesa agli spettatori.
Il pluralismo politico è importante, ma non solo dai tempi dedicati ai leader passa la formazione e il rispetto dell’opinione pubblica. Le «caramelle» servono per distrarre i cittadini-bambini. All’opposto, i servizi sulle stragi nei luoghi di lavoro possono produrre una nuova consapevolezza, un più civile senso comune: la sentenza per il rogo della Thyssen-Krupp, con l’imputazione di omicidio volontario addebitata ai responsabili della fabbrica, forse non avrebbe avuto la sua forza esemplare se i media non avessero tenuto alta l’attenzione, sconfiggendo almeno per una volta il rischio dell’oblio.
Berlusconi calamita l’interesse, ma non dobbiamo cadere nella trappola di far rinsecchire dalla polemica politica la nostra idea ricca di pluralismo: che è pluralismo sociale, culturale, di genere, di territorio, di pelle, di lingua, di orientamenti etici, di credo religioso. Sì, anche del trattamento clamorosamente diverso riservato alle diverse confessioni religiose dovrebbe rispondere la Rai. I numeri lo testimoniano, gli squilibri sono ancor più marcati di quelli che eccitano la polemica politica, ma non fanno notizia: da ben prima dell’era Berlusconi, a dire il vero. Dovremo ricordarcene, il giorno in cui si potrà metter mano alla ricostruzione del servizio pubblico: ricordarci, ad esempio, del monolitismo etico-religioso esibito ai tempi della morte di Eluana Englaro. E mettere anche questo tipo di pluralismo tra i compiti di chi dovrà rilanciare la Rai. Non potremo certo accontentarci di veder cambiare la bandiera di partito che sventola sui diversi lotti.
Roberto Natale