Nucleare, privatizzazione dell’acqua e legittimo impedimento. Per fermarli occorre rispondere «sì» ai quattro quesiti referendari su cui saremo chiamati a pronunciarci il 12 e 13 giugno prossimi. Affinché la consultazione sia valida, occorre però superare il quorum della metà più uno degli elettori. E ora il governo tenta anche lo «scippo».
Mentre il mondo della politica ha la testa rivolta alle ultime battute della campagna elettorale per le elezioni amministrative, la società civile e i movimenti ambientalisti sono impegnati nella difficile battaglia per il quorum nei quattro referendum del 12 e 13 giugno. Due quesiti sono contro la privatizzazione della gestione del servizio idrico (si veda l’intervista di Confronti a Ugo Mattei), uno per abrogare la legge sul legittimo impedimento e uno contro il nucleare. Quest’ultimo però è messo seriamente a rischio dalla decisione del governo che, pur di affondare il quesito sul legittimo impedimento che come è ovvio sta molto a cuore a Berlusconi, ha fatto approvare un emendamento al decreto legge «omnibus» che pone una sorta di moratoria sul nucleare. Si tratta ovviamente di uno stop temporaneo e puramente strumentale: giusto il tempo di evitare il referendum per poi, fra un anno o due, riproporre come niente fosse il piano di ritorno al nucleare. Più che un addio, un arrivederci. Se riuscisse l’affondamento di questo quesito (su cui si registra un grande interesse da parte dell’opinione pubblica), raggiungere il quorum sugli altri tre risulterebbe ancora più difficile. Ma per fortuna sulla strada dello scippo ci sono ancora due ostacoli: occorre la firma del presidente della Repubblica, che molti sperano non arrivi, e poi la Corte di cassazione dovrà comunque valutare se le norme approvate vadano nel senso richiesto dai quesiti referendari. Ma i tempi sono strettissimi.
Come è noto, se non si reca alle urne almeno il 50% (più uno) degli elettori la consultazione è nulla: uno spreco totale di tempo e denaro. Ben consapevole di questo, e anzi proprio nel tentativo di rendere difficile il raggiungimento del quorum, il Governo ha fissato i referendum a giugno, decidendo scientemente di far spendere allo Stato centinaia di milioni di euro che si sarebbero potuti risparmiare con una semplice scelta di civiltà, accorpando le consultazioni referendarie con quelle amministrative.
Da quel famoso 12 maggio del 1974, quando «solo» l’87,7% degli elettori si era recato alle urne (in un periodo in cui l’affluenza alle elezioni politiche oscillava tra il 92 e il 93%), votando quasi al 60% contro l’abrogazione della legge sul divorzio, il numero di elettori interessati alle consultazioni referendarie è andato calando in modo costante, ma tenendosi sempre al di sopra del 50% fino al 1990. Quell’anno si votava su caccia e pesticidi. Al 35-40% di astensionismo «fisiologico», costituito da persone non interessate a quei temi, si aggiunse un’altra fetta di elettori che scelsero di non recarsi alle urne per far mancare il quorum. Risultato: solo il 43% di votanti, referendum fallito, un milione e mezzo di doppiette in festa. Ma l’anno successivo uno sbiaditissimo referendum sulla preferenza unica fece improvvisamente risalire il numero di votanti a quota 62%. Il motivo principale non era tanto il contenuto del quesito, quanto la voglia di una gran parte degli elettori di dare uno schiaffo al sistema dei partiti (allora ai primi scricchiolii che poi avrebbero portato, di lì a poco, al crollo provocato dall’inchiesta Mani pulite) che ovviamente si opponeva a qualsiasi riforma del sistema elettorale. In particolare, è rimasto famoso l’invito del segretario del Psi Bettino Craxi ad «andare al mare». Chiedeva agli elettori di far fallire il referendum non recandosi alle urne, ma poi al mare ci è finito lui: nella spiaggia di Hammamet.
In seguito (nel ’93 e nel ‘95) si sono tenute altre consultazioni referendarie nelle quali il quorum è stato raggiunto, ma dal 1997 in poi tutte le volte che gli italiani sono stati chiamati ad esprimersi su quesiti referendari hanno disertato in maggioranza le urne. La sfida del 12 e 13 giugno prossimi è quindi molto difficile, perché si tratta di invertire una tendenza negativa dovuta al disinteresse e alla sfiducia dell’elettorato (che si manifesta con un calo complessivo della partecipazione anche alle elezioni amministrative ed europee e – pur se in modo meno grave – a quelle politiche), ma anche alla forza di chi, di volta in volta, si mobilita attivamente per far fallire il quorum. Nel referendum del 2005 sulla procreazione medicalmente assistita ha pesato in modo determinante la campagna di astensionismo guidata dall’allora presidente della Conferenza episcopale italiana Camillo Ruini: l’«onorevole cardinale», come lo avevamo definito sulla copertina della nostra rivista. Questa volta rischiano di pesare molto la lobby pro-nucleare (che però, dopo Fukushima, pare aver perso un po’ di appeal agli occhi degli elettori), quella che vuole privatizzare la gestione dell’acqua e soprattutto quel potentissimo esercito politico-mediatico che sta dietro a un’unica ben nota persona. La stessa che, incurante dei danni collaterali, sequestra il Parlamento e la sua maggioranza per far approvare una legge che gli garantisca il processo – pardon: la prescrizione – breve. E che ora trema al pensiero che l’elettorato possa bocciargli un’altra legge confezionata su misura per la sua situazione giudiziaria, ossia il legittimo impedimento.
Per fortuna, quando si parla di referendum l’appartenenza politica ha un peso relativo. I risultati sono stati quasi sempre molto diversi dai rapporti di forza «sulla carta», ossia da come i rispettivi partiti invitavano a votare i propri elettori. Ma per raggiungere il quorum occorre che circa 25 milioni di italiani si rechino alle urne. Questo significa che, anche ipotizzando che lo facciano disciplinatamente tutti gli elettori che nel 2008 avevano votato per partiti di centro-sinistra (rappresentati in Parlamento e non), ne servirebbero ancora altri 10 milioni. Rimbocchiamoci le maniche!
Adriano Gizzi