Sul tema dell’acqua pubblica, oggetto dei referendum del 12 e 13 giugno, abbiamo intervistato Ugo Mattei, professore di diritto privato all’Università di Torino e a Berkeley (California) e autore di «Saccheggio. Regime di legalità e trasformazioni globali» (Bruno Mondadori editore), «La legge del più forte» e «L’acqua e i beni comuni raccontati a ragazze e ragazzi» (ManifestoLibri).
intervista a Ugo Mattei a cura di Andrea Ughetto
Perché sono importanti i referendum di giugno? Cosa succede se vincono i sì e cosa, invece, se vincono i no (o l’astensione)?
Questi referendum sono importantissimi per diverse ragioni. La prima ragione è la questione di merito: acqua e nucleare sono due temi, due pietre angolari del modello di sviluppo fallimentare del nostro Occidente. C’è la possibilità, seria, di invertire la rotta nell’affrontare queste due questioni. L’acqua che viene privatizzata e che quindi confermerebbe la fede incrollabile in un sistema di mercato, che invece ha dimostrato di essere truffaldino e fallimentare, e dall’altra parte il nucleare che costituisce un modello di sviluppo autoritario, centralistico, che concentra il potere, che costruisce una società dei controlli e che, per di più, sottopone a rischi giganteschi la popolazione. Le alternative che escono se i referendum si vincono sono dei modelli decentrati a potere diffuso. Sono dei modelli, quindi, di produzione energetica da un lato e di gestione del servizio idrico dall’altra, che si basano sul coinvolgimento diretto delle persone e che si basano su dei modelli di produzione decentrata. Il sistema del nucleare, del resto, non produce una quantità di energia decisiva. In Giappone tutte quelle centrali producevano solo il 17% del fabbisogno. Sappiamo benissimo che è possibile, con delle misure estremamente semplici, risparmiare energia. La questione del nucleare ha a che fare con la concentrazione del potere ed altre cose che non hanno a che vedere con la questione energetica. Se vince il sì, si cambia. Il popolo si esprime chiaramente, per la prima volta in Italia da 24 anni, per una chiara inversione di rotta rispetto alla tendenza mercatistica ed autoritaria degli ultimi tempi e sarebbe un evento di grande importanza. È la prima vera battaglia di opposizione in questo Paese.
Perché afferma questo?
Noi siamo in un Paese nel quale la democrazia rappresentativa è stata ormai sostanzialmente soffocata dalla legge elettorale. Il Parlamento non è più rappresentativo del popolo. La democrazia diretta, nel nostro quadro costituzionale, costituisce in qualche modo la valvola di sicurezza. Quando la democrazia rappresentativa non funziona, scatta quella diretta. Questo era l’intendimento di Piero Calamandrei e degli altri. Se il quorum non venisse raggiunto, si dimostrerebbe sostanzialmente che il popolo italiano non ha alcun interesse a prendere in mano direttamente le proprie cose e il gioco sarebbe fatto, facendo saltare anche la democrazia diretta.
Ci può fare alcune considerazioni riguardo ai beni comuni, campo di battaglia politico da un lato e campo di intensa riflessione teorica dall’altro?
Questa è una cosa molto importante. Di questa nozione di beni comuni oggi finalmente si parla molto, costituisce probabilmente una delle categorie del pensiero politico più innovative che sono state elaborate in questi ultimi tempi, idonea a produrre un cambiamento di linguaggio. Categoria diversa da quelle attuali, che sono tutte categorie che hanno sostanzialmente spostato il discorso dominante a destra. Il bene comune è stato teorizzato solo recentemente, ma l’emersione delle lotte per i beni comuni sono delle prassi che ci sono da molti anni. Possiamo datare l’inizio della lotta per i beni comuni ai movimenti per l’acqua in Bolivia, ai movimenti contro l’estrazione energetica selvaggia in Ecuador e poi a tutte le varie forme di inversione di rotta rispetto al privato, come a Parigi e Berlino. Oggi, tante battaglie e istanze territoriali trovano nella nozione di beni comuni la loro riduzione ad unità, cosa importante perché consente di trasferire il sapere e la prassi da un argomento all’altro.
I beni comuni non sono né beni privati né beni pubblici. Sono diversi rispetto alla proprietà privata e diversi rispetto alla proprietà demaniale pubblica. Sono direttamente a titolarità diffusa, appartengono direttamente alle persone, devono essere tutelati in modo decentrato e costituiscono una sorta di cuscinetto che porta a riequilibrare i rapporti tra pubblico e privato nel nostro sistema costituzionale. Oggi, se una proprietà privata viene espropriata, può essere fatto solo con delle garanzie molto importanti, ad esempio la riserva di legge o l’indennizzo. Se invece una proprietà pubblica viene privatizzata, prendi l’Alitalia, prendi l’Università, prendi degli ospedali… ciò può avvenire per un mero atto esecutivo del Governo in carica che la gestisce come se fosse una sua proprietà. I beni comuni invece rivendicano un luogo di tutela della proprietà che appartenga direttamente alle persone per cui la privatizzazione non possa avvenire contro gli interessi del popolo sovrano ma debba, a sua volta, avvenire soltanto in casi di pubblica utilità e soltanto con garanzie di riutilizzo dei proventi della privatizzazione per quegli stessi servizi e per quegli stessi diritti che erano tutelati per quei beni che vengono privatizzati.
In questa categoria politica, teorica, giuridica dei beni comuni che cosa ci fa rientrare?
Intanto non è una categoria merceologica, questo è molto importante. Beni comuni sono tutte quelle cose che le persone rivendicano come proprie nell’ambito di istanze, di vertenze e di lotte. Fra i beni comuni più classici abbiamo tutte quelle risorse che devono essere governate secondo criteri d’accesso. Criterio, quindi, dell’inclusione e non di esclusione. L’acqua è un ottimo esempio. Altri beni comuni sono l’ambiente salubre, i grandi parchi, le zone montane, il patrimonio culturale, quello della conoscenza, internet, la cultura critica, il giornalismo libero, il cibo, gli stessi servizi pubblici quando questi sono gestiti nell’interesse delle persone. Quella di beni comuni è potenzialmente una categoria molto ampia che giuridicamente stiamo definendo in questi anni. Beni comuni sono quei beni funzionali alla soddisfazione diretta di diritti fondamentali della persona, quindi hanno un forte ancoraggio sia nella Costituzione che nei bisogni reali delle persone.
È stato uno dei promotori dei referendum sull’acqua. Che tipo di risorse specifiche le ha dato, nell’affrontare questi temi, la formazione di studi giuridici ?
Sono un civilista e vengo da una vita dedicata allo studio della proprietà privata. Di conseguenza, i beni comuni sono stati per me un terreno naturale di approdo nel cercare delle limitazioni strutturali del diritto di proprietà che superino l’attuale problema, che è quello della sostanziale connivenza del pubblico e del privato al servizio degli interessi forti. Senza il nostro lavoro, fatto nella commissione Rodotà nel 2007-2008 e, precedentemente, gli studi compiuti all’Accademia dei Lincei, non ci saremmo probabilmente neanche accorti della privatizzazione dell’acqua che stava avvenendo in Italia, perché il decreto Ronchi è stato inserito in una manovra che è stata votata con la fiducia. Noi, in risposta, abbiamo immediatamente elaborato il quesito referendario e ci siamo messi in collegamento con i compagni dei movimenti per l’acqua che da molti anni stavano lavorando su questa questione. Il Forum per l’acqua aveva già proposto un progetto di legge popolare sull’acqua gestita in modo democratico e partecipato. Questa sinergia tra l’accademia e la prassi dei movimenti sta dando dei risultati importanti e credo che sia uno degli aspetti più nuovi della politica in questo Paese. È un modo di esercitare e di interpretare la politica che non ha ancora nessuno spazio di visibilità mediatica ma che nasce nella società, dal basso. Se vinciamo questo referendum sarebbe un successo clamoroso, visto l’incredibile silenzio e boicottaggio mediatico.
Ha recentemente scritto un libro sul tema dell’acqua rivolto esplicitamente ai ragazzi e alle ragazze. Perché la scelta di rivolgersi a loro?
Il libro è nato per caso, su suggerimento e invito di un gruppo di professori di un liceo di Vignola, dove ero andato a parlare agli studenti dell’acqua e del referendum. È un anno che giro come un pazzo per tutta l’Italia, cercando di tenere alto il livello di vigilanza e partecipazione sulla questione dei beni comuni. Credo molto a questo progetto perché la battaglia per i beni comuni è anche una battaglia per le generazioni future. I beni comuni devono essere gestiti con una logica di riproduzione, non di produzione. Noi non siamo capaci di produrre l’acqua. Sono tutti doni che arrivano a noi ed è importante che vengano gestiti nell’interesse delle generazioni future.
Quali sono le sue previsioni sui referendum?
Non so dire. Abbiamo lavorato molto partendo dal basso, dalla rete, dai piccoli servizi di informazione che sono i più liberi: radio locali, giornali locali… Abbiamo avuto pochissimi spazi sulla televisione nazionale, però continuiamo a tenere viva l’informazione in tutti i modi alternativi possibili, con i banchetti per le strade…
Nella sua ricostruzione sul movimento per i beni comuni ha fatto soprattutto riferimento alle lotte latinoamericane. A livello teorico, che tipo di genealogia può invece tratteggiare?
A livello teorico è abbastanza evidente che è stata l’accumulazione originaria dell’inizio del capitalismo, quindi della prima fase della modernità che in Occidente ha costruito una tenaglia poderosa, quella fra Stato sovrano e proprietà privata, che ha distrutto i beni comuni. I «commons» inglesi sono ancora oggi gli ultimi residui di quei liberi spazi d’accesso, di quel modello di sviluppo precedente al capitalismo. Un modello di sviluppo in cui le persone vivevano a contatto con la natura. La produzione industriale ha portato alle «enclosures», alle recinzioni. Le recinzioni hanno provocato lo spossessamento delle classi contadine, che sono diventate il proletariato urbano.
In Occidente i beni comuni sono sostanzialmente spariti. Nei paesi dell’America Latina, che a loro volta hanno subìto fortemente processi di saccheggio e di accumulazione originaria nella modernità, quelle strutture comuni hanno resistito di più. Il popolo è ancora molto legato alla terra, l’idea di mercificarla e l’idea che la natura possa appartenere all’uomo è aliena alla mentalità non occidentale e quindi è normale che in quei contesti, ora che sono demograficamente cambiati e che vedono gli eredi degli indios in maggioranza, siano emerse queste istanze in maniera poderosa. Un altro elemento di questa genealogia sono le nuove frontiere del capitalismo cognitivo: la Rete, per intenderci. La Rete è un nuovo immenso bene comune e andrebbe gestita come tale, anche se al momento viene sempre più privatizzata.
intervista a cura di Andrea Ughetto