Stampa sotto controllo, più poteri all’esecutivo, Corte costituzionale depotenziata, meno diritti alle minoranze… quello che in Italia è il sogno del centrodestra, in Ungheria sta diventando realtà. Dopo aver varato a dicembre scorso una «legge bavaglio» sull’informazione, la maggioranza del premier Viktor Orban ha fatto approvare ad aprile una nuova Costituzione che tutti gli osservatori internazionali hanno valutato con estrema preoccupazione.
I leader di un partito che pure comprende parecchi degli oppositori democratici che una ventina d’anni fa avevano concorso ad abbattere la dittatura in Ungheria, dopo qualche faticoso tentativo di apprendistato hanno deciso che per il loro paese la democrazia liberale in effetti non andava bene. Troppa astrattezza, troppe lungaggini, troppo difficile da spiegare e da capire, troppa «correttezza politica», troppa distanza dai sentimenti spontanei del popolo.
Dopo avere introdotto una legge fortemente limitativa della libertà di espressione, forti di una maggioranza parlamentare dei due terzi (frutto di un successo elettorale ma anche di una legge fortemente maggioritaria), hanno così colto l’occasione di sostituire la vecchia Costituzione – che soddisfaceva le esigenze della democrazia europea e i «criteri di Copenaghen» e grazie alla quale l’Ungheria poté entrare nell’Unione europea – per imporne a colpi di maggioranza una autoritaria: a farle da argine sono rimasti solo gli obblighi internazionali e le norme europee. La nuova Carta è stata approvata dal solo partito di governo e con il voto contrario della sola estrema destra: l’opposizione liberale e socialista ha abbandonato l’aula.
È una costituzione etnica, come la vorrebbero in Italia i leghisti, che relega da un giorno all’altro alla serie B tutti i cittadini ungheresi non di pura etnia, non cattolici, o che non si riconoscano al cento per cento in una tradizione politica nazionale che la democrazia liberale, anche prima dell’occupazione sovietica del dopoguerra, non l’aveva praticamente mai davvero praticata o conosciuta.
Lo Stato non si chiama più «Repubblica ungherese», ma «Paese magiaro». Si definisce cioè su base etnica, e su base religiosa: magniloquente il riferimento a Dio, come lo volevano il Vaticano e i politici obbedienti nella Costituzione europea. Le minoranze nazionali e religiose, a cominciare dalle minoranze autoctone calvinista ed ebraica, per non parlare dei rom, d’ora in poi saranno solo tollerate se si sottometteranno a una tale supremazia; coerentemente, si estende invece la cittadinanza agli ungheresi etnici rimasti in tutti i Paesi confinanti dopo il trattato del Trianon stipulato alla fine della prima guerra mondiale. Nessuna menzione di diritti delle minoranze nazionali, ma priorità per i diritti dei feti; esclusione di qualunque possibile riconoscimento delle famiglie gay; drastico ridimensionamento del controllo di costituzionalità della legislazione ordinaria; abbassamento dell’età pensionabile dei giudici a 62 anni per consentire al potere politico di nominarne al più presto nuovi di proprio gradimento; il diritto al lavoro trasformato sinistramente in «obbligo»; travolto ogni sistema di freni e contrappesi a vantaggio dell’esecutivo; abbassato il livello di tutela della privacy.
Una forte maggioranza parlamentare non ha cioè solo imposto alla minoranza, com’è normale, il proprio programma di legislatura, ma ha preteso di imporre all’intero Paese un’identità nuova – o antica, o vagheggiata e inventata – e nuove regole del gioco unilateralmente stabilite. A monte sta l’idea che la democrazia consista nel diritto della maggioranza di imporre qualunque cosa alla minoranza. Se è abbastanza ampia, anche di riscrivere unilateralmente libertà, diritti, regole, identità. Anche in contrasto con le carte dei diritti e le conquiste civili della democrazia occidentale che costituiscono obblighi internazionali assunti anche dall’Ungheria dopo la fine del comunismo. Come sola «fonte del potere pubblico» è indicato «il popolo», senza limiti e senza argini: come già nelle «democrazie popolari» e com’è di moda fra i nuovi populisti. A noi poveri italiani ricorda funestamente qualcosa: anche se ad applaudire fragorosamente sono stati soprattutto quelli di Forza Nuova, è tutta la destra italiana ad essere più o meno radicalmente sulla stessa linea da circa vent’anni.
La Commissione europea ha educatamente fatto presenti le proprie obiezioni, ma alla fine l’Ue ha abbozzato, nonostante quello in corso sia il semestre di presidenza ungherese. È vero che la levata di scudi contro la presenza di Haider nel governo austriaco anni fa si era rivelata controproducente; ma Haider si era limitato a dichiarazioni oscenamente equivoche e volutamente ambigue, non aveva potuto o voluto stravolgere un ordinamento costituzionale.
L’Ue non ha reagito perché non si prende sul serio. Altrimenti non avrebbe neppure tollerato che uno dei membri fondatori, l’Italia, si fosse messa a sua volta fuori dai «criteri di Copenaghen», come fece notare anni fa il capogruppo liberale al Parlamento Graham Watson, in materia di pluralismo dei media. E non si può pretendere che i cittadini europei prendano sul serio quel che non prendono sul serio le stesse istituzioni.
Sarà interessante vedere come la prenderanno i giudici di Lussemburgo – perché ci sono dei giudici a Lussemburgo – finora i più efficaci tutori dei trattati. Anche se questa volta dovranno affrontare il nodo quasi inedito dei rapporti fra norme europee e norme statali di rango costituzionale.
I 27 nani continuano a dimostrarsi impari di fronte alla sfida epocale della globalizzazione: esistere da europei o rinunciare a qualunque ruolo nella storia del mondo. Ungheria e Italia sono solo due casi estremi.
Felice Mill Colorni