Era un’accogliente serata estiva ad Assisi-Santa Maria degli Angeli, una ventina d’anni fa, quando ho assaporato da vicino il senso del passo evangelico della Trasfigurazione, in cui un eccitato Pietro – accompagnato dai «soliti» Giacomo e Giovanni – dichiara a Gesù di esser pronto a fare tre tende, una per lo stesso suo Rabbi, una per Mosè e la terza per Elia (Mc 9,5). In occasione di un convegno di CEM Mondialità, infatti, fui il complice semitrasfigurato della prima (e unica, purtroppo) chiacchierata in libertà fra due autentici profeti del cristianesimo del nostro tempo, Bruno Hussar, fondatore in Israele del Villaggio della pace di Nevè Shalom/Waahat as-Salaam, e Raimon Panikkar, autorevole interprete, fra vita e teoria, del meticciamento interreligioso fra l’occidente e l’oriente, scomparso ad agosto dell’anno scorso. Nel colloquio, svoltosilaicamente tra i tavolini all’aperto di un piccolo caffè, tra i due – che si erano appunto appena conosciuti – riuscii timidamente a intromettermi, domandando quale avrebbe dovuto essere, dal loro punto di vista, l’argomento di un eventuale prossimo concilio della Chiesa cattolica. Ero curioso di sapere come sarebbe andata: rammento bene che entrambi ebbero una risposta pronta, espressa senza farsi pregare più di tanto.
Per primo, padre Bruno, «l’uomo delle quattro identità» (che fu anche uno dei principali ispiratori della Nostra Aetate, il documento del Vaticano II con cui si riaprivano le porte alle relazioni positive della Chiesa con Israele dopo i lunghi secoli dell’«insegnamento del disprezzo»), sostenne l’assoluta necessità, per la comunità cristiana, di recuperare definitivamente le proprie radici ebraiche, ripristinando la situazione precedente alla grave frattura con la sinagoga avvenuta nel primo secolo dopo Cristo: tutte le altre rotture intracristiane successive, nel corso dei secoli, non sarebbero che pallidi riflessi di quella prima, originaria, tra ebrei e «gentili». Il prossimo concilio, dunque, in una simile ottica, dovrà essere il Concilio di Gerusalemme II, dopo e in prosecuzione di quello narrato negli Atti degli Apostoli al capitolo 15, chiamato a proclamare soprattutto l’ebraicità di Gesù di Nazaret e a fare i conti con i suoi inevitabili riflessi sulla pastorale, la teologia, l’ecclesiologia, e così via.
A parere di Panikkar, invece, il «caso serio» del cristianesimo attuale consisterebbe nel suo bisogno vitale di inculturarsi coraggiosamente nelle più frastagliate tradizioni locali, fino a chiedersi: chi è oggi Gesù Cristo per l’Oriente, per l’Africa, per il cristianesimo globale? Come Gesù può divenire realmente il Salvatore per quei popoli, per le nazioni dell’emisfero povero del Sud che sono le protagoniste del presente, ma lo saranno ancor più, presumibilmente, del prossimo futuro? Ovvio che, in tale chiave, l’assise del domani dovrà essere un Vaticano III, chiamato a focalizzarsi sulle tematiche della mondializzazione del vangelo, sullo sforzo di adattamento della liturgia, dell’ascolto della Parola di Dio e dell’essere chiesa nei più svariati linguaggi e stili di vita. Impossibile, per me, dare ragione all’uno o all’altro, rammento che ne conclusi si fosse trattato del classico, salomonico pareggio…
Quando papa Giovanni XXIII aprì il Concilio – «Pentecoste del nostro tempo», secondo la felice definizione di uno dei suoi testimoni ancora pienamente sulla breccia, il vescovo emerito di Ivrea Luigi Bettazzi – era l’11 ottobre 1962. Nel 2012 si celebrerà dunque il mezzo secolo dal suo inizio. Esso ha influenzato largamente non solo la vita della Chiesa cattolica (al suo interno e all’esterno), ma anche gli altri mondi religiosi, cristiani e non. Con le sue intuizioni, i suoi passi coraggiosi, le sue contraddizioni, le questioni irrisolte. Da tempo è in atto un dibattito sul senso da dare al Concilio, se si sia trattato di una vera e propria rottura rispetto al passato o se piuttosto sia da considerare un’ipotesi di riforma, ma in continuità rispetto al passato di quella Chiesa. Inoltre, a cinque decenni di distanza, è lecito interrogarsi su quanto sia vivo e quanto sia morto, di esso; su quanto ne conoscono i giovani, e quanto essi ne percepiscano la portata, in ogni caso straordinaria. Mentre qualcuno, non solo Panikkar ma anche il cardinal Martini, ha da tempo cominciato a chiedersi se non sia il caso di cominciare a immaginare un Vaticano III, che faccia sue le nuove sfide in una stagione di rapidissime trasformazioni da ogni punto di vista (non solo ecclesiale). Ecco dunque la necessità di una riflessione a tutto campo sul Vaticano II. Dando voce a punti di vista diversi. E guardando soprattutto al futuro! Letta nella storia lunga delle Chiese cristiane, la ricezione del Vaticano II è appena cominciata, più che finita: è nelle mani di Dio, certo, ma anche in ciò che il Concilio stesso chiamò, con una bella immagine, «il popolo di Dio in cammino nella storia».
Brunetto Salvarani
curatore del numero