Chi soffia sul fuoco dell’intolleranza? - Confronti
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Chi soffia sul fuoco dell’intolleranza?

by redazione

Per ricordare la nostra amica e collaboratrice Alda Radaelli, scomparsa il 26 gennaio scorso, vi riproponiamo un suo articolo pubblicato su Confronti di ottobre 2009.

Nel corso della storia e in luoghi differenti si verificano situazioni e dinamiche analoghe quando all’interno di una società si manifesta l’insofferenza verso «l’altro» (straniero o cittadino appartenente a qualche minoranza discriminata). Un piccolo «prontuario» per riconoscere il virus della pulizia etnica.

Oggi assistiamo sempre più spesso in Italia ad aggressioni a cittadini per i quali sembra non valere alcuna protezione di legge: zingari di nazionalità italiana, stranieri regolarmente abitanti in Italia, cittadini italiani come Nicola Tomasoni, che stava passeggiando per la città con amici quando è stato aggredito da ragazzi sconosciuti (ma conosciuti dalla polizia come picchiatori fascisti) della sua stessa età, massacrato di botte il primo maggio del 2008 ed ucciso. Alla luce del rapido peggioramento dei rapporti di convivenza civile in Italia, vorrei proporre questo piccolo kit di pronto soccorso, preparato giocando sulle sorprendenti analogie tra alcuni casi limite di deterioramento della convivenza civile: due genocidi avvenuti nel 1994, impressionanti per la loro ferocia, ma soprattutto per la loro imprevedibilità se non da chi li aveva pianificati, in Bosnia ed in Ruanda. Con ciò desidero sottolineare alcune dinamiche che si ripropongono molto simili in situazioni storiche e territoriali diverse, nel momento in cui viene scatenata l’insofferenza verso l’altro.

E come etnie

Si inizia con la costruzione di «etnie»: in Bosnia, «serbi», «croati», «musulmani», come non esistesse una antica comunità ebraica, minoranze da tutto l’ex impero ottomano ed austro-ungarico, polacchi, ungheresi, albanesi, turchi, cittadini del Medio Oriente stabilitisi in queste zone grazie al Movimento dei paesi non allineati di cui la Jugoslavia faceva parte. Per rendere l’idea della pulizia etnica imposta dall’inizio dell’aggressione alla Bosnia, prendiamo un esempio italiano. Sarebbe come dire che uno che fa di cognome Esposito, che ha la mamma friulana e che è nato e vissuto tutta la vita a Milano, da un giorno all’altro viene accusato di essere «terrone», privato di tutto, ucciso insieme con la sua famiglia. Ecco quanto è successo in Bosnia, quando le tre maggiori agenzie giornalistiche internazionali – l’inglese Reuter, l’americana Associated Press e la francese France Presse – da un giorno all’altro hanno cominciato a martellare per quattro anni sempre con lo stesso comunicato: in Bosnia vivono tre «etnie» che si odiano fra loro, che hanno un livello culturale tribale, che il presidente Tito teneva a bada con il pugno di ferro, e che si scannano con sistemi atroci. Che la metà della popolazione fosse di matrimonio misto, che il 70% dei giovani avesse un diploma universitario riconosciuto in Europa e un passaporto valido in 54 paesi, ovviamente non si disse. Ammazzare un «primitivo» è meno grave che ammazzare un europeo «de souche». Lo stesso accadde in Ruanda: i matrimoni misti erano frequenti almeno finché non arrivarono i colonialisti europei. «I Tutzi devono regnare», dichiarò un funzionario belga negli anni Venti, citato da Gerard Prunier nel suo libro «The Ruanda crisis» (Columbia University, 1995). Perché? Perché sono più alti, hanno il naso più lungo, insomma assomigliano di più agli europei.

P come pulizia etnica

Il meccanismo della cosiddetta «pulizia etnica» è un buon veicolo per «liberarsi» anche degli oppositori del regime dominante. Nei lager nazisti sono finiti non solo ebrei, ma un alto numero di oppositori al regime, oltre che appartenenti a categorie a rischio come gli zingari. Oggi, la persecuzione in Italia riguarda anche zingari cittadini italiani, come la famiglia di Giorgio Bezzecchi, il cui padre fu deportato dai fascisti ancora bambino dalla vicina Slovenia in un campo di concentramento per zingari ed il cui nonno perse la vita da soldato durante la seconda guerra mondiale. Cionondimeno questa famiglia ha subìto una perquisizione notturna da parte della polizia, pur non avendo alcun precedente penale.

C’è chi sostiene che la «pulizia etnica» viene scatenata dai poveri delle campagne a caccia delle ricchezze delle città. Niente di più falso: la pulizia etnica ai danni dei musulmani di Bosnia è stata pianificata dall’Accademia delle Scienze di Belgrado nel 1989 ed affidata a Slobodan Milosevic, che non era un contadino analfabeta. Lo slogan «Dove c’è una tomba serba, quella è Serbia» è stato coniato dagli intellettuali serbi ed avallato dalle grandi potenze, come dimostra il fatto che Richard Holbrooke invitò il presidente della Serbia Milosevic, responsabile del genocidio dei musulmani di Bosnia, alla firma degli accordi di Dayton come… «persona al di sopra delle parti», e che metà del territorio della Repubblica di Bosnia, stato membro dell’Onu, è stata consegnata ai serbi aggressori con il nome di Repubblica serba di Bosnia.

Lo stesso avvenne in Ruanda. Gasana N’Doba, dirigente del comitato per il rispetto dei diritti dell’uomo in Ruanda, dichiara: «Gli intellettuali di Butare, città universitaria e culturalmente avanzata, sono stati i promotori del genocidio. Il genocidio è stato il frutto di una elaborazione aprioristica di un’ideologia diretta a giustificare e legittimare interessi politici, economici e sociali. La partecipazione massiccia della gente (“Se uccidi quel tale potrai avere la sua casa, il suo bestiame…”) contribuisce a spiegare la rimozione rapida dei massacri».

Lo stesso vale per i serbi: nessuno in Europa richiede loro di prendere le distanze dal proprio passato prima, e non dopo, di iniziare il processo di annessione all’Europa unita. I tedeschi l’hanno fatto nei riguardi degli ebrei, tramite Willy Brandt. I serbi invece ancora nascondono il macellaio Ratko Mladic.

M come moderati

Chi rischia più forte, nella pianificazione della pulizia etnica, sono i moderati: serbi che hanno protetto, nascosto, fatto fuggire musulmani in Bosnia, Hutu moderati che hanno protetto Tutzi, rischiano peggio delle vittime stesse, in quanto la pianificazione della pulizia etnica si propone anzitutto di costringere una parte della popolazione a partecipare ai massacri e di far fallire gli accordi che avrebbero reso possibile la convivenza.

Sostiene Gazana N’Doba che molti, per ragioni opportunistiche, si sono allineati nel campo degli autori del genocidio. Altri, sempre più emarginati, hanno resistito alle pressioni del potere. La stessa situazione si potrebbe verificare in qualunque momento anche in Bosnia, a fronte di un dissolvimento dello Stato che è già implicito potenzialmente nella logica, apparentemente assurda ma forse perfidamente voluta, degli accordi di Dayton. Sostiene il filosofo sloveno Slavoj Zizek: «Ai musulmani di Bosnia le grandi potenze hanno imposto un compito: di fare le vittime, così i responsabili indiretti del genocidio possono offrire loro la “sadaka” (l’elemosina) e sentirsi buoni». Lo stesso vale per tutti gli altri casi di «pulizia etnica». Ma guai se le vittime facessero valere i propri diritti: allora verrebbero immediatamente tacciate di essere integralisti islamici o pericolosi estremisti, secondo i casi, da quelle stesse persone così pronte ad offrire assistenza.

P come pacifisti

Come ci poniamo noi dall’esterno in un situazione di pulizia etnica? Scrive Michele Nardelli nel suo libro «Darsi tempo» (Emi 2008): «C’è sempre una componente di coraggio nel trattare certi temi dentro una comunità ancora divisa. La gradualità necessaria non può diventare paralisi davanti alle componenti più oltranziste, che mai vorrebbero lasciar emergere una versione del passato diversa dalla retorica ufficiale. Allo stesso tempo, il coraggio non può condurre alla sfrontata incoscienza, o peggio alla deliberata provocazione, come un certo pacifismo manicheo quando si schiera apertamente da una parte sola, fosse pure quella delle vittime». Rispondo: nei casi di pulizia etnica, il nostro posto può essere solamente ed unicamente dalla parte delle vittime. Ciò non implica che le vittime siano buone, care, intelligenti, grate e quant’altro. Possono essere, presi singolarmente, dei pezzi da galera, ma nel contesto dato sono vittime.

A come assistenza

Assistenza, soprattutto quando elargita a governi corrotti, permette di appropriarsi delle ricchezze di un paese. L’impossibilità per i cittadini di poter contare su un’economia autonoma, concorrenziale ed indipendente, che garantisca a tutti la possibilità di un lavoro dignitoso, crea dipendenza anche psicologica, distrugge la dignità e l’autostima in una persona e premia un atteggiamento servile, corrotto e in ultima istanza perdente: cioè uccide moralmente chi è riuscito a sopravvivere fisicamente.

R come religione

Rientra nel quadro della pulizia etnica l’uso della religione come strumento del potere ai fini del condizionamento politico. Sulla Chiesa ortodossa di Serbia come affiancatrice costante del potere si sono versati fiumi di inchiostro: il sontuoso matrimonio del criminale di guerra Arkan, il cui nome era scritto sui muri sbrecciati di Sarajevo e di Srebrenica, è stato celebrato nella basilica di Belgrado dal patriarca in persona, poco prima che lo sposo novello venisse liquidato in un regolamento di conti tra mafiosi in un lussuoso ristorante di Belgrado.

Del Ruanda tutti ricordano le suore Hutu che hanno asserragliato la popolazione dentro una chiesa per poi darle fuoco. Prendo a caso un titolo da un giornale dell’epoca: «Io, sacerdote, ho visto preti Hutu far seppellire vivi i Tutzi con i bulldozer» («Corriere della sera», 16 maggio 1998).

G come giudici

La credibilità del tribunale dell’Aja viene attualmente messa a dura prova, nel momento in cui inizia il processo contro Florence Hartmann, portavoce di Carla Del Ponte, pretore del Tribunale internazionale dell’Onu per i crimini nella ex Jugoslavia, dal 2000 al 2007, accusata di aver divulgato documenti riservati del tribunale nel suo libro «Paix et chatiment», tradotto in tutte le lingue meno che in Italia. La giornalista rischia sette anni di prigione, accanto ai criminali che lei ben conosce, e centomila euro di multa.

I documenti «riservati» risultano pubblicati mesi prima della pubblicazione del libro di Florence Hartmann, proprio a firma di Carla Del Ponte nel suo articolo «Nascosti documenti vitali per il genocidio».
A differenza della ex Jugoslavia questa caduta di credibilità non avvenne in Ruanda, dove il 2 settembre 1998 il Tribunale internazionale dell’Onu per i crimini in Ruanda, istituito nel 1994, emise la prima condanna per genocidio, e dove venne istituita anche una Commissione per la verità e riconciliazione (Truth Commission) sul modello delle stessa commissione fortemente voluta da Mandela per il Sudafrica.
Questi appunti vogliono dimostrare che qualche svista nella tutela della nostra democrazia potrebbe portare lontano…

Alda Radaelli

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