L’autore, sacerdote gesuita – che non parla come un analista distaccato, ma del tutto inserito, con il suo monastero di Deir Mar Musa, nel contesto aspro che vive l’intero Paese – ci esprime il suo punto di vista sulla drammatica situazione siriana, sui suoi riflessi geopolitici, sul dialogo cristianesimo/islam, sulle Chiese.
INTERVISTA A PAOLO DALL’OGLIO
Continua ad aggravarsi la drammatica situazione in Siria, che provoca ogni giorno decine di vittime civili. e non si vedono, per ora, vie d’uscita. L’inviato speciale dell’Onu e della Lega araba, Kofi Annan, che a Damasco il 10 e 11 marzo ha incontrato sia il presidente Bashar al Assad che rappresentanti dell’opposizione, non è riuscito a far raggiungere un cessate-il-fuoco.
Senza pretendere di esaurire, in questo servizio, l’analisi di una situazione tanto complessa che coinvolge l’assetto geopolitico dell’intero Medio Oriente, qui presentiamo l’intervista rilasciataci il 10 marzo da padre Paolo Dall’Oglio, che da vent’anni vive in Siria. Sul caso siriano, nei prossimi numeri di Confronti, presenteremo altri punti di vista.
La Siria sembra bloccata in mezzo al guado dopo un anno dall’inizio del movimento di contestazione. Come vede il momento attuale?
Non era difficile esser profeti affermando, un anno fa, che la mutazione siriana sarebbe stata lunga, difficile e incerta. La presidenza siriana godeva, nel marzo 2011, di una credibilità estesa tanto all’interno come all’esterno del Paese. Questa base positiva del potere siriano, a prescindere da ogni considerazione riguardo alla questione dei diritti umani lungo i quattro decenni del cosiddetto regime Baath, si è dimostrata solida e addirittura inossidabile nella dolorosissima congiuntura in corso.
Paradossalmente, devo riconoscere che una parte consistente del capitale d’idealità innovativa giovanile propria della «Primavera araba» è stata mobilitata in chiave auto-protettiva dal potere di Damasco, attraverso la retorica e la propaganda governative. Il regime siriano si è saputo promuovere a motore delle riforme repubblicane, a paladino della molteplicità confessionale della società locale e a maschio della fortezza anti-imperialista. Esso si è voluto ergere contro il complotto «cosmico», ordito per la dislocazione della nazione siriana, contro l’aggressione manipolata degli estremismi musulmani armati (Fratelli musulmani, Salafiti, Takfiriti di al-Qaeda) e contro il cancro sottile delle ingenuità democratiche e delle illusioni sui diritti umani dell’opposizione interna cosiddetta non-violenta ma che farebbe da letto alle perniciose aggressioni esterne.
Se quindi, effettivamente, una parte dell’opinione pubblica, non insensibile ai valori di modernità e di umanità, rimane legata al potere costituito a Damasco, soprattutto per paura dell’alternativa musulmana totalitaria annunciata, tuttavia, a mio parere, è innegabile che il movimento di contestazione espressosi nell’ultimo anno non è in nessun modo riducibile a «delle bande di giovani indottrinati da predicatori radicali, armati, finanziati e sostenuti da Stati terzi» (Confronti, 10/2011). La contestazione siriana è figlia d’una lunga maturazione della società civile. È espressione di evoluzioni plurali verso una sensibilità democratica globale a partire tanto da radici ideologiche, specie di sinistra, che da ispirazioni religiose progressiste e non solo musulmane. Devo testimoniare della qualità umana, della maturità politica, della generosità drammatica di numerosi giovani – e molte le giovani – che da così tanti mesi perseguono un sofferto ideale, mantenendo un vero impegno di non-violenza, una larga disponibilità al negoziato e una impressionante apertura d’animo che non esiterei a chiamare ecumenica. Questi giovani sanno e riconoscono che anche dall’altra parte dello schieramento ci sono dei coetanei sinceri patrioti e chiedono al Cielo che la Siria possa trovare la via del negoziato e della riconciliazione. Certamente questo Paese è ormai ridotto a ring d’una guerra civile dove i siriani si scannano rappresentando interessi regionali e globali in conflitto sulla loro pelle. Per questo rispondo alle domande di Confronti, chiedendo di metter da parte i pregiudizi dovuti alla guerra fredda e al laicismo islamofobico. Invito a impegnarci oggi a restituire ai cittadini siriani una possibilità d’autodeterminazione non-violenta e civile, recuperando l’arena della discussione politica che è stata svuotata dalla innegabile polarizzazione costituita dal confronto armato sul territorio.
Quante persone sono state uccise, o ferite, dall’inizio della rivolta, e della repressione della rivolta, in Siria?
È evidente che non possiedo nessuno strumento d’elaborazione statistica autorevole. Personalmente mi rifiuto di separare la storia tra prima e dopo il marzo del 2011. La storia moderna siriana è conflittuale e violenta con un numero elevato di vittime in termini di uccisi, d’imprigionati anche per decenni, di torturati, di famiglie lasciate nell’incertezza sul destino dei loro cari, di esiliati, di messi a tacere, di minacciati e di calunniati, in una parola di terrorizzati. E vanno aggiunti gli indottrinati fin dall’infanzia e i coscritti. In questo senso la «Primavera araba», in tutta la regione, ha il valore d’una rivoluzione culturale e morale dove la parola si è liberata. In qualche modo, con specifico riferimento alla Siria, lungo tutto il primo decennio del secondo millennio, si sono verificati fenomeni d’apertura e di sviluppo d’una società civile orientata alla democrazia matura. A questi hanno corrisposto momenti di repressione e di criminalizzazione ideologica delle opposizioni. Questi fatti sono stati esplicitamente riconosciuti anche dalla presidenza che evidentemente non ne ha potuto trarre le logiche conseguenze.
Riguardo all’ultimo anno si parla ormai di ottomila morti. Tra feriti, imprigionati, torturati, parenti delle vittime, esiliati e rifugiati volontari o forzati, credo che si possa moltiplicare per cento questa cifra. È necessario anche aggiungere l’enorme numero di siriani in sofferenza a causa dell’insicurezza, la mancanza di lavoro, di risorse, di comunicazioni e di… speranza. Deve essere ammesso ormai che un gran numero di vittime sono militari delle due fazioni in conflitto armato, alle quali si aggiungono persone assassinate e rapite, civili coinvolti nei combattimenti o vittime di vendette a sfondo confessionale, oltre ai rapiti e agli uccisi in eventi di natura criminale indipendenti dagli schieramenti politici ma dovuti comunque all’insicurezza diffusa provocata dalla lunga crisi. Il Paese è tutto a soqquadro e tutto intero vittima d’un destino deplorevole che la comunità internazionale non può in nessun modo ignorare. Le sanzioni economiche internazionali contro la Siria colpiscono soprattutto i cittadini più fragili e sono moralmente ingiustificabili e probabilmente inefficaci e psicologicamente controproducenti.
Lo scontro in atto è puramente interno, per cause endogene, e vede siriani contro siriani – cioè favorevoli al regime degli Assad e contrari ad esso – oppure gli insorti sono aiutati da forze esterne, cioè da altri Paesi mediorientali?
Le due cose sono vere assieme ed è del tutto naturale. La Siria ha portato avanti, in modo più o meno coerente e sicuramente militante, degli obiettivi regionali. Essa si è posizionata come forza leader anti-imperialista e come avanguardia della resistenza al sionismo, oltre che esempio di laicità anti-islamista. Naturale quindi che un certo numero di «nemici» l’aspettassero al varco storico rappresentato oggi dal vasto movimento insurrezionale arabo. Non si possono negare le aspirazioni «sunnite» guidate da Turchia, Arabia Saudita (certo non un esempio convincente di società democratica!) e Qatar (anch’esso uno stato per molti versi arcaico). Interessante, a questo proposito, è il cambiamento di schieramento del movimento islamico sunnita palestinese Hamas, in passato alleato di Siria e Iran. Specularmente bisogna riconoscere la portata della presenza regionale sciita rappresentata dallo Hezbollah libanese, dall’Iraq post-americano e dall’Iran candidato al nucleare, ai quali vanno aggiunti i movimenti d’emancipazione degli sciiti del Bahrein, del Kuwait, dell’Arabia Saudita e dello Yemen. Certamente l’organica alleanza tra Stati Uniti e Israele, con strascico europeo, svolge un ruolo di primo piano e sicuramente a doppio taglio. Infine, gli interessi geo-politici e le affinità culturali (penso ai cristiani ortodossi) hanno un’enorme portata nella definizione della posizione russa, chiaramente schierata a protezione della Siria degli Assad. Alla Russia si aggiungono l’alleato cinese e il drappello dei nostalgici pro-sovietici.
Tutto questo non significa che la Siria non sia in definitiva autrice del suo proprio destino e obbligata a operare delle scelte senza le quali la guerra civile in corso non potrà che produrre la perdita dell’unità nazionale, oltre che la liquidazione d’ogni ambizione regionale. Per questo io ho insistito a proporre di fare della Siria piuttosto il luogo delle riconciliazioni regionali che il palcoscenico dei conflitti. Anche qui voglio ripetere la richiesta, e in particolare agli amici progressisti e credenti di Confronti, di creare dei laboratori negoziali dando la parola ai siriani all’estero per tentare di disegnare un sentiero condiviso d’uscita dalla crisi.
In questo quadro, il risultato del referendum del 26 febbraio (per la nuova Costituzione) che ha visto un plebiscito per Assad, significa qualcosa? Vi è stata libertà di voto?
Dal punto di vista della libertà del voto non posso esprimermi, vista la mancanza di osservatori esterni in numero adeguato alla portata dell’evento plebiscitario e vista la mancanza di sicurezza in tante parti del Paese. Invece trovo che vi sono due punti positivi di non ritorno espressi dalla nuova Costituzione. Il primo è che il sistema a partito unico o egemone – il regime baath per intenderci – è dichiarato ufficialmente superato in favore del pluralismo politico. Il secondo punto è che la democrazia laica e pluralista è considerata un obiettivo e un diritto del popolo siriano. In questo senso si fissa un principio che può costituire una base per i negoziati a venire.
Per il «dopo», come è possibile immaginare la collocazione geopolitica della Siria, rispetto alla Turchia, all’Iran, alla Lega araba e a Israele?
Troppo importanti sono le varianti indipendenti per azzardarsi a fare previsioni. Intanto, il «dopo» della Siria è ancora dolorosamente lontano e incerto. Poi, non sappiamo quale strada prenderà la Turchia, specialmente in relazione all’Europa. E questo dipende anche dalle elezioni presidenziali francesi, visto l’anti-turchismo elettorale di Sarkozy. Certamente i turchi vogliono contare di più nella regione e ne hanno i mezzi. È chiaro che paventano una divisione confessionale ed etnica della Siria che rafforzerebbe ulteriormente i curdi, rischierebbe di creare un cantone alleato della Russia e dell’Iran sulla costa mediterranea alawita, e finirebbe col favorire un Islam sunnita iper-confessionale e inter-arabo, legato più ai militanti sunniti del Libano, dell’Iraq e della Palestina che alla moderazione «democristiana» anatolica.
Mentre scrivo è impossibile sapere se Israele renderà effettive le proprie minacce con un attacco aereo diretto alle istallazioni nucleari «persiane». È evidente che l’Iran non vuole rinunciare alla sua penetrazione mediterranea siriana e libanese. Penso che sarebbe saggezza riconoscere i diritti nucleari d’una potenza regionale come l’Iran per calmarne le reattività e anche per affrontare sul piano culturale, in nome della società civile globale democratica e solidale, le contraddizioni di quel Paese. In effetti, Paesi della dimensione e della portata dell’Iran, del Pakistan, e anche della Corea del Nord – per non parlare dei giganti asiatici cinese e indiano – non si possono trattare da subalterni, ma solo da partner capaci di piena autodeterminazione e interconnessione internazionale volontaria e corresponsabile. Sul piano regionale, certamente, occorre affrontare il negazionismo iraniano della realtà israeliana (riguardo al passato biblico, la Shoah e la ricostituzione nazionale) al fine di superare tale interminabile e pericolosissimo conflitto.
L’evoluzione dei Paesi arabi, e in particolare della Lega araba, come simbolo d’unità agognata e forse mai così vicina come oggi, resta piena di rischi e promesse. Sarebbe auspicabile che la Siria, che della Lega è membro fondatore, potesse riprendere e sviluppare il suo ruolo peculiare proprio a partire dalla sua composizione complessa e plurale e dal suo sviluppo culturale certamente d’avanguardia. Al momento, il sentimento arabo è ferito in Siria. I fautori del regime di Damasco si sentono traditi dagli arabi che considerano servi dell’Occidente e di Israele. Anche i rivoluzionari sono delusi dall’incertezza e debolezza della Lega nel portare avanti l’urgente riforma e assicurare la protezione delle persone. Importantissimo è favorire l’evoluzione democratica e pluralista degli arcaici e assieme iper-tecnologici sistemi statali del Golfo arabo e della penisola saudita. Altrimenti il rischio è che l’islamismo politico radicale tenda a diventare egemone. Certamente la stagione è ormai islamista… Sarà anche democratica in modo duraturo e coerente, nonostante le sfide culturali e demografiche? Certo, questo dipende anche dall’evoluzione siriana!
La questione israelo-palestinese sembra per il momento fare da sfondo, più che da protagonista, nel teatro regionale. Eppure essa resta centrale e non aggirabile. Il negazionismo culturale anti-ebraico è deleterio, alla lunga, per la rivendicazione nazionale palestinese e araba. Penso a una sorta di pressione culturale e simbolica positiva da parte arabo-musulmana e arabo-cristiana che possa almeno in parte svuotare l’ossessione auto protettiva israeliana e la promozione aggressiva dell’ebraismo come unica fonte dell’identità statale. È da ritrovare la portata simbolica della città arabo-musulmana-cristiana-ebraica per far spazio a un Israele «quartiere ebraico» aperto, non esclusivo né aggressivo, della Metropoli mediorientale. Per ora l’unica ardua soluzione è quella dei due Stati interamente separati (badando a evitare al massimo la separazione delle popolazioni), soluzione già accettata in via di principio dalla Siria e dalla Lega araba. In prospettiva, però, il vero superamento del conflitto arabo-israeliano sta nella ricomposizione della fraternità abramitica nell’interconnessione regionale e mediterranea. Sarebbe lungimiranza statunitense ed europea favorire generosamente il processo, invece che subire acriticamente la gangrena definitiva della rivendicazione palestinese, araba e musulmana a causa del massimalismo aggressivo israeliano.
Sembra indubitabile che le autorità delle varie Chiese – ortodosse e cattoliche – si siano schierate, per mesi e mesi, con il regime, negando ogni responsabilità del governo, ed incolpando per le violenze agenti esterni decisi a destabilizzare il Paese. Il vero motivo di questa scelta è, forse, che le gerarchie ecclesiastiche temono che, crollato il regime che garantiva una certa libertà ai cristiani, vadano al potere forze islamiche estremiste che tali libertà non assicureranno più?
La situazione delle Chiese è già irreversibilmente compromessa. Le paure alle quali fa riferimento nella sua domanda, sono attive da tanti anni e hanno provocato l’emigrazione di molti cristiani orientali, arabi e non. In fondo la questione è teologica e riguarda lo statuto dell’islam nel mondo simbolico cristiano e cristiano-orientale. C’è un ritardo anche rispetto al Concilio e ora se ne raccolgono le conseguenze perniciose. È evidente che le infelici esperienze dei cristiani nell’Iran post-rivoluzionario, nell’Egitto del sunnismo militante, nell’Iraq della guerra civile e del terrorismo… per non parlare delle brutte notizie che vengono dall’Africa sub-sahariana, non possono incoraggiare i nostri parrocchiani. Tuttavia non è giusto far d’ogni erba un fascio. Non sono pochi i cristiani siriani impegnati per il cambiamento, anche a costo di gravi sofferenze personali e familiari. In generale, si capisce, sono favorevoli agli schieramenti più laici e spesso di radice socialista o nazionalista; e nonostante questo non intendono negare il diritto all’autodeterminazione dei musulmani maggioritari. Nella misura in cui la violenza estremista monopolizza lo spazio politico, i cristiani tendono a fuggire dall’arena civile e, concretamente, a emigrare.
Il vescovo melchita di Aleppo, il grande Neofitos Edelby, autorevole padre del Vaticano II, diceva che era meglio avere meno cristiani, ma più contenti di vivere coi musulmani, che sopportare tutti questi insoddisfatti! Se la crisi siriana si prolungherà e s’inasprirà, le Chiese siriane tenderanno a evaporare con qualche concentrazione locale connessa con effimere alleanze confessionali con minoranze musulmane, sul modello dei rifugi cristiani del Nord dell’Iraq. In caso di semplice ritorno al passato, che anche il presidente Bashar Assad afferma di non volere, e a causa dell’ingente prezzo morale che implicherebbe tale ipotesi, si otterrebbe una così grave crisi dell’etica e della testimonianza evangeliche che equivarrebbe a un suicidio simbolico collettivo. La democrazia non ha mai fatto parte del Dna dei cristiani locali e la relazione coi musulmani si è svolta all’interno del ricco quadro simbolico del buon vicinato. Ma questa innocenza del passato non è recuperabile dopo un bagno di sangue subito da chi chiede emancipazione civile, autodeterminazione e diritti. Accettare la logica della repressione come soluzione è negare i valori cristiani e finirebbe comunque con lo svuotare le chiese.
Deir Mar Musa ha un futuro nella Siria – quale Siria? – che infine emergerà dal drammatico conflitto in atto? Quali i risvolti religiosi (islam-cristianesimo) e quali quelli ecclesiali e politici (presenza pubblica dei cristiani in un Paese a maggioranza musulmano)?
Forse la vita monastica, senza negarsi alla testimonianza nel presente in favore della dignità delle persone e partecipare al movimento d’emancipazione e richiesta di giustizia, ha un ruolo nell’indicare una prospettiva di più lungo respiro, anche se non immediatamente escatologica. Naturalmente, anche a causa delle note difficoltà del presente, ci chiediamo con qualche preoccupazione quale spazio resterà al ministero della nostra comunità. Per noi è molto cosciente la volontà di vivere nel nostro contesto musulmano da ospiti ospitali, nonché come partner e concittadini, facilitatori, nell’impegno civile e ecologico, nel dialogo e nella preghiera, d’un più cosciente desiderato e scelto buon vicinato abramitico. Certamente i cristiani non si augurano di diventare cittadini di secondo rango benché sappiano per esperienza che la loro incidenza culturale, economica e simbolica non dipende solo dallo statuto legale.
Speriamo che cresca una coscienza evangelica di voler vivere con l’altro per l’altro, in vista della comune valorizzazione e realizzazione dialogale. In questo, noi sorelle e fratelli di Deir Mar Musa, identifichiamo la nostra personalità carismatica. Notiamo che proprio in questa crisi diventiamo per alcuni segno di scandalo, ma anche segno di speranza e orizzonte di comunione per tanti amici qui e altrove, musulmani, cristiani e non solo.
(intervista a cura di David Gabrielli)