La vera posta in gioco di chi, in Vaticano, ha ideato la diffusione di lettere segretissime, che documentano aspri scontri di potere al vertice, è il dopo-Ratzinger. E, dunque, siamo alle grandi manovre in vista del conclave, che dovrà decidere se attuare il Vaticano II o svuotare il Concilio in punti qualificanti, come ha fatto il pontefice regnante.
Non è nostra intenzione addentrarci nella cronaca degli ultimi eventi vaticani – la scoperta del «corvo», o dei «corvi» accusati di aver passato alla stampa testi riservatissimi indirizzati, da cardinali e prelati, a Benedetto XVI, o al/dal segretario di Stato, cardinale Tarcisio Bertone – anche perché essa si arricchisce ogni giorno di nuovi clamorosi sviluppi. Cerchiamo, dunque, di andare oltre gli episodi, che documentano situazioni sconcertanti e anche scandalose, per chiederci: perché, cui prodest (a chi giova)?
La nostra opinione è che sia in atto un’aspra battaglia in vista del conclave. La questione, insomma, è la successione al pontefice regnante, quando arriverà il momento, per morte naturale o per dimissioni: perciò si preparano e si scontrano le varie cordate. E la vera posta in gioco (che comporta l’identikit del futuro pontefice) è l’interpretazione e l’attuazione del Vaticano II. Nei punti qualificanti, Joseph Ratzinger ha dato del Concilio un’esegesi restrittiva che svuota punti salienti: la collegialità episcopale e l’affermazione della Chiesa come «popolo di Dio».
Solo teologi di corte, infatti, possono sostenere che papa Benedetto ha attuato la collegialità perché ha concesso che, nei Sinodi dei vescovi, ci sia, nelle varie giornate, un’ora in cui ogni partecipante può parlare di qualsiasi problema. Collegialità significa che i vescovi espongono le loro ragioni, e il vescovo di Roma, interpellato, seduta stante risponde: si intrecciano ragioni e ragioni, opinioni e opinioni e, da questo libero e responsabile confronto, si arriva a delle decisioni. Nulla di tutto questo accade nei Sinodi: i vescovi parlano, i papi tacciono, e in essi si affrontano temi generalissimi, senza mai sviscerarne uno concreto. Così nel Sinodo del 2005, dedicato all’Eucaristia, en passant sono stati toccati, e solo per riaffermare seccamente lo status quo, due argomenti quanto mai importanti per la vita concreta della Chiesa cattolica romana, della gente e delle famiglie: la mancanza di sacerdoti, con l’ipotesi di risolverla attraverso i viri probati (uomini maturi, padri di famiglia, da ordinare preti), e l’ammissione all’Eucaristia dei divorziati cattolici risposati.
Su un altro tema scottante – la riconciliazione con i lefebvriani, tenacissimi avversari del Concilio – Ratzinger ha deciso da solo, arrivando, per quietare i tradizionalisti-doc, a manomettere le riforme liturgiche post-conciliari, volute da Paolo VI e approvate dalla gran maggioranza dell’episcopato e dei fedeli. Se il vescovo di Roma non ascolta davvero gli altri vescovi, e pretende di dire l’ultima parola dove non è stata ammessa la prima, figurarsi se accetta di ascoltare i laici, uomini e donne, creando un organismo dove essi siano rappresentati e, a Roma, possano formalmente esprimersi.
La realtà è che il papato – che rimane l’ostacolo maggiore per la riconciliazione della Chiesa romana con le altre Chiese – non può più essere gestito, anche dal punto di vista cattolico, come lo è ora. È improponibile un sistema assolutista dove il papa ha il potere legislativo, esecutivo e giudiziario; dove mescola nella sua persona il proclamarsi vicario di Cristo, sovrano dello Stato della Città del Vaticano, servo dei servi di Dio; e che autoritativamente (o sotto pressione di un Bertone) sceglie i cardinali che dovranno eleggere il suo successore. Solo mettendo in questione radicale questo groviglio ereditato dalla storia, il vescovo di Roma potrebbe affrontare le crisi incombenti. E così torniamo alla cronaca: i prelati che vogliono che continui la cosmesi delle riforme gattopardesche, si danno da fare per un Ratzinger II; quanti, invece, vorrebbero davvero cambiare, si impegnano a chiudere la serie. Gli aspri contrasti legati allo Ior (Istituto per le opere di Religione, la banca vaticana) si inseriscono in questa dinamica.
Comunque, nessuna riforma è possibile se la Chiesa di Roma non deciderà, al massimo livello, di aprire certi armadi (che custodiscono i segreti del fu monsignor Paul Marcinkus, e i suoi rapporti con il crack del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi), e di confrontarsi con le esigenze evangeliche della povertà. È triste che debbano essere dei «corvi» a richiamare il vescovo di Roma alla sua rivendicata vocazione di essere un’«aquila». Ma, ormai, la scelta è ineludibile.
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