Riproponiamo ai nostri lettori il testo di una meditazione che il cardinale Carlo Maria Martini aveva rivolto ai partecipanti al Cammino ecumenico di pace a Gerusalemme, promosso dal Consiglio delle Chiese di Milano con la collaborazione di Confronti. All’iniziativa, che si è svolta da 17 al 24 giugno 2004, avevano preso parte esponenti cattolici, protestanti ed ortodossi.
Il tema dello «shalom», mi sgomenta per la sua vastità teologica e spirituale. È un tema immenso, denso di significati. Basta pensare ai vari significati che ha la parola «shalom» nella Bibbia ebraica: prosperità – anche fisica – buona salute, benessere, benevolenza, felicità, pace come sintesi di tutte queste cose. Anche se è semplificatorio, tuttavia può essere interessante fare un riferimento alle diversità etimologiche della parola «pace» nelle varie lingue antiche. Sembra che il greco «eirene» designasse soprattutto l’assenza di guerra, mentre il latino «pax» è lo stare ai patti, l’osservare i trattati; «shalom», infine, è la pienezza dei beni, la positività senza limiti. Questo ci fa vedere l’immensità del tema, un tema senza fine ma anche molto logorato perché oggi tutti parlano di pace, tutti vogliono la pace, tutti manifestano per la pace. Ciascuno però a suo modo e possibilmente senza pagarne il prezzo. È un tema che per qualche tempo si vorrebbe persino sospendere dal vocabolario, proprio perché rischia di logorarsi, di inflazionarsi. Io mi limiterò a suggerire qualche seme di riflessione, che sento in modo particolare vivendo in questo paese, a partire dalle situazioni con le quali sono in contatto.
Propongo quindi alcuni brevi pensieri sullo shalom. Anzitutto, una cosa che a me pare ovvia, ma che spesso si dimentica: occorre distinguere tra la pace del mondo – anche in senso buono, pace sociale e politica – e la pace di Gesù. Gesù nel Vangelo di Giovanni (cap. 14) dice: «Vi lascio la pace, vi do la mia pace, non come la dà il mondo». C’e’ una distinzione e bisogna accettarla. Altre volte il Nuovo Testamento ritorna su questa distinzione, per esempio nella seconda lettera a Timoteo (cap. 3): «Il Dio della pace vi dia egli stesso la pace sempre e in ogni modo» e questa non è la pace del mondo, la quale non è certamente «sempre e in ogni modo», ma è combattuta e continuamente da rifare. Quindi la pace dono di Dio è qualcosa di molto più grande della pace del mondo. E come dice San Paolo ai Filippesi, questa pace di Dio «sorpassa ogni intelligenza», mentre la pace del mondo è a portata dell’intelligenza umana. Quella sorpassa ogni intelligenza ed è quindi dono di Dio, che deve custodire i nostri cuori e i nostri pensieri in Cristo Gesù. Dunque questa pace è distinta dalla pace del mondo, è dono di Dio, è frutto della preghiera e può essere data anche in circostanze totalmente avverse. Mi ha colpito molto il colloquio con un giovane padre di famiglia palestinese, che mi diceva: «Se la pace non c’è dentro noi, tutto il resto non conta». Che ci sia la pace nei cuori è dono del Signore. Dobbiamo anzitutto chiederla.
Tuttavia, tra la pace di Dio, la pace del cuore e la pace di questo mondo vi sono molteplici relazioni. La pace del cuore è in rapporto per così dire «genetico» con la pace del mondo, con la pace sociale e politica, perché la pace del cuore non può che esprimersi nei rapporti sociali, di giustizia, di accoglienza. E ci sono rapporti che chiamerei anche di tipo escatologico, perché la pace politica, nel suo senso più nobile, tende all’unità del genere umano, a creare le condizioni per una pace universale, definitiva, quindi in qualche maniera rimane analoga e tende verso la pace piena che è dono di Dio. Il Concilio Vaticano II ha una frase molto efficace a questo proposito: «La pace terrena è immagine ed effetto della pace di Cristo che promana da Dio». Innanzitutto, dunque, c’è la pace di Cristo che promana da Dio, che però a sua immagine promuove una pace terrena, c’è perciò una responsabilità delle Chiese, non solo a livello di assistenza e di carità ma soprattutto a livello di promozione del dono interiore.
La terza riflessione può apparire un po’ pessimistica. La pace di questo mondo, che pure è così desiderabile, e per la quale ci impegniamo, parte da un contesto sempre un po’ ristretto. Istintivamente, anche se non esplicitamente, ha dei confini. È pace e sicurezza per la mia famiglia, per il mio clan, per il mio popolo, per il mio gruppo, per la mia nazione, e solo con fatica allarga i suoi orizzonti. Vorrei citare una frase di Primo Levi, tratta dal libro «Se questo è un uomo» che pessimisticamente, ma realisticamente, dice così: «A molti individui o popoli può accadere di ritenere più o meno consapevolmente che ogni straniero è nemico. Per lo più questa convinzione giace in fondo agli animi come una infezione latente. Si manifesta solamente in atti saltuari e incoordinati e non sta all’origine di un sistema di pensiero. Ma quando questo avviene, quando il dogma inespresso diventa premessa maggiore di un sillogismo, allora al termine della catena sta il lager. La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo». Dunque dobbiamo tener conto di questa minaccia che è dentro il nostro cuore. La pace di questo mondo implicitamente ha dei confini, e solo con fatica vengono superati.
È invece la pace di Dio che non ha confini. Visitando Betlemme sentirete risuonare la parola «pace in terra agli uomini che Dio ama»: questa è la pace che non ha confini. È anche annunciata qui a Gerusalemme, come ci dice Giovanni nel suo Vangelo al capitolo 20: «Gesù si fermò in mezzo a loro e disse: Pace a voi». Ecco, questa è pace senza confini. È pace che non ha alcuna remora, che non ha alcuna chiusura.
Un’altra riflessione. La pace è un rischio. La pace si paga. Ho sentito fare questa affermazione da qualche persona che è stata molti anni in questo paese venendo da un altro continente: «Qui tutti vogliono la pace, però nessuno vuole pagarne il prezzo». E il brano del Vangelo secondo Matteo è drammaticamente incisivo per farci capire il prezzo della pace: «Se uno ti percuote la guancia destra, porgigli anche l’altra; e a chi ti vuole chiamare in giudizio per la tunica, tu lascia anche il mantello».
Sono parole che si dicono, si leggono, ma poi la vita le smentisce. Perché sono un intervento di Dio nella storia umana. Eppure hanno anche una ragione umana e civile. Ciò che ho trovato di più bello su questo tema è il messaggio di Giovanni Paolo II per la Giornata mondiale della pace del 2002, dal titolo che già spiega bene il tema: «Non c’è pace senza giustizia, non c’è giustizia senza perdono». Questo documento mostra molto chiaramente che il perdono ha anche un valore civile e politico. E il rinunciare a qualcosa a cui si avrebbe diritto teoricamente ha anche un valore civile e politico. Finché non si arriva a questo, ma si vuole a tutti i costi ciò che compete, ciò che è di proprio diritto, e si fa semplicemente l’elenco delle proprie ragioni, non si arriva alla pace, perché non si vuole pagare niente. La pace invece ha un costo, richiede un compromesso anche nel senso di lasciar cadere alcuni diritti rivendicati. È chiaro che poi saranno le trattative che dovranno far vedere quali possono cadere. Però se si parte con la sola idea che bisogna avere la totalità dei propri diritti, non si arriva umanamente alla pace. E questo è un punto che sento molto e credo che l’esperienza quotidiana continuamente lo riconfermi.
Il sesto pensiero che vi lascio è che la pace, in un mondo segnato dal peccato, suppone costante volontà di perdono, questo anche nelle famiglie, all’interno delle comunità, delle chiese tra loro, e poi ancora più nel contesto civile. E uno dei punti sui quali ho molto insistito nel mio ministero a Milano è che il perdono ha anche un rilievo nel diritto penale. Tutto ciò che riguarda la pena, il carcere, la difesa, i crimini, la punizione, non può essere gestito sulla sola e pura giustizia dei codici, ma richiede anche questo aspetto.
Anche le nazioni che sono riuscite a superare situazioni drammatiche di divisione, per esempio il Sud Africa e il Perù, si fondavano non solo sulla verità e sulla giustizia, ma anche sulla riconciliazione. Penso in questo momento a tutti i carcerati che ho incontrato in questi anni a Milano. Ho sempre detto loro che il nostro sistema penale è da riformare, con questa sua insistenza quasi unica sulle carceri; va superato lasciandoci ispirare anche da pagine evangeliche che possono apparire fuori dal mondo ma che in realtà incidono molto nella carne di una umanità peccatrice.
Un settimo pensiero riguarda i conflitti. Essi sono sempre il risultato di passioni umane. Lo dice chiaramente la lettera di Giacomo in un testo molto esplicito: «Da che cosa derivano le liti che sono in mezzo a noi? Non vengono forse dalle vostre passioni che combattono nelle vostre membra? Bramate e non riuscite a possedere e uccidete. Invidiate e non riuscite ad ottenere. Combattete e fate guerre». Senza una lotta contro le passioni umane, contro l’idolo della potenza del successo, della superiorità sull’altro di ogni tipo, senza una lotta contro tutto questo non c’è un cammino reale di pace. E queste cose, come diceva già Primo Levi nel brano che ho citato, sono dentro di noi. Quindi mentre portiamo dei messaggi di pace agli altri siamo invitati ad esaminarci dentro. Perché anche dentro di noi ci sono i germi della guerra.
Infine come ultimo pensiero vorrei esprimere l’importanza del tema della preghiera di intercessione per la pace. Se la pace è dono di Dio, se da questo dono può nascere un processo di pacificazione, allora occorre una preghiera di intercessione che si unisca alla preghiera di Gesù, quella di cui parlano Romani 8 ed Ebrei 7, Gesù che sempre intercede per noi. E quindi la nostra preghiera raggiunge in qualche modo quella di Gesù, perché la nostra preghiera di intercessione è molto povera. Io cerco di vivere qui la preghiera di intercessione, anzi le ho dato il primo posto, la priorità su tutto ciò che intendo fare qui a Gerusalemme, però proprio per questo sento la povertà estrema di questa preghiera. Ora sento che questa goccia di preghiera si unisce al fiume che nasce da tutte le Chiese, da tutte le comunità cristiane, da tutte le comunità che pregano, da tutte le preghiere anche fuori dall’ambito cristiano. E tutte queste preghiere costituiscono un fiume, un mare. E questo mare è tutto riassunto nella preghiera di intercessione di Gesù al Padre e quindi è una preghiera efficace.
Il vostro cammino sarà dunque accompagnato dalla preghiera e sarà questa la carta decisiva da giocare. Dobbiamo giocare tutte le altre carte, ciascuno secondo le sue responsabilità, ma questa carta è quella decisiva, quella che unisce il cielo e la terra, quella che fa sì che la pace di Dio risplenda nei nostri cuori e si diffonda come per contagio e possa aiutare molti. Stando qui a Gerusalemme si può conoscere un ricchissimo sottobosco positivo di rapporti di dialogo, di buona volontà di mutuo servizio, di accoglienza del diverso, di perdono, che arricchisce questa realtà. Purtroppo non sempre è una voce che viene raccolta dai mass media, non sempre viene ascoltata dai politici.
Ma certamente, quanto più ci saranno persone che cercano con sincerità la pace, l’accoglienza, il rispetto dell’altro, il dialogo, il perdono, la riconciliazione; quanto più tutto questo un giorno inciderà anche a livello politico, si avrà un segno della pace fondamentale che è nel cuore di ciascuno di noi e che auguro a tutti voi come frutto di questo cammino.
Carlo Maria Martini