Pubblichiamo un documento della Comunità cristiana di base di san Paolo in Roma scritto in vista del cinquantesimo anniversario dell’inizio del Concilio Vaticano II.
A mezzo secolo di distanza dalla data di avvio del Concilio Vaticano II esiste una legittimità esistenziale a parlarne, da parte di chi l’ha vissuto, diversa da quella degli storici, dei teologi, degli esegeti.
Ci interroghiamo dunque sul senso di quell’evento a partire da noi stessi, comunità cristiana di base di san Paolo in Roma, parte di un movimento certamente minoritario di uomini e donne in ricerca, consapevole delle proprie responsabilità e dei propri limiti.
Siamo un gruppo variegato di persone, un crogiolo di esperienze; e se alcuni aspirano e sperano in una Chiesa diversa o, come molti amano dire, “altra”, altri si ritrovano in un percorso di ricerca, a prescindere da questa speranza; altri ancora accettano di dirsi cristiani o sono semplicemente post-cattolici, o amici di un Gesù che considerano il Cristo come uno dei punti di riferimento dell’umanità e una delle possibili manifestazioni del “divino”, persone che si ritrovano in quanto impegnate nel sociale, con una esplicita vocazione e attenzione per gli ultimi, testimoniata dalle iniziative che fra le nostre mura sono nate o sono ospitate e godono di pieni diritti di cittadinanza.
Chi viene in mezzo a noi trova una porta aperta attraverso la quale si entra (ma si può ugualmente uscirne con la stessa informalità), trova un luogo per parlare e ascoltare donne e uomini che si confrontano fra loro e con la lettura della Bibbia, ma anche con altre letture, con altri libri in una contaminazione che, a volte, è feconda, altre no. E il rischio fa parte integrante delle regole in vigore, mai scritte.
Il Concilio e il suo tempo
Ci siamo sentiti (e forse lo siamo) figli e figlie proprio del Concilio aperto da Giovanni XXIII nel 1962; ma, allo stesso modo, siamo figli e figlie del tempo del Concilio. Le mille strade diverse da cui proveniamo, e che a volte evochiamo col canto, sono proprio il terreno e la temperie in cui siamo cresciuti. Vogliamo ricordarli perché nella nostra memoria e nella nostra coscienza valgono almeno quanto avvenimenti squisitamente ecclesiali come, ad esempio, l’enciclica “Pacem in terris” che ugualmente hanno avuto un’eco profonda, sia pur limitata al mondo occidentale sviluppato.
Ci riferiamo innanzitutto al processo di decolonizzazione che, a partire dal continente africano, forse il più sfruttato e schiavizzato da sempre, proprio nei primi anni ’60 ha conosciuto la lotta di liberazione dell’Algeria e poi quella del Congo.
Nello stesso tempo in cui l’equilibrio del terrore governava il mondo col ricatto reciproco della minaccia nucleare, si erano create le prime crepe nell’area “comunista” con le frizioni (e i conflitti) fra URSS e Cina, senza dimenticare le rivolte democratiche e operaie in Germania Est, Ungheria e Polonia nel decennio precedente.
A Berlino, il regime aveva costruito il muro sul quale pronunciava la solenne dichiarazione “io sono un berlinese” il presidente Kennedy: il presidente della nuova frontiera che, mentre suscitava grandi speranze di giustizia, andava allo scontro con Khrusciov sui missili a Cuba e poneva le premesse per aprire il fronte sanguinoso della guerra in Viet Nam, costellata, non solo dalle bombe al napalm, ma anche dai roghi dei monaci buddisti.
Negli stessi anni l’Egitto segnava la sua faticosa stagione di transizione dalla monarchia feudale alla democrazia con l’inizio dei lavori di una possente diga, di alto valore anche simbolico, come quella sul Nilo ad Assuan, e nello spazio orbitava la navicella di Yuri Gagarin che così apriva il dibattito sui diritti al bene comune dello spazio interplanetario.
Quando si aprì il Concilio, anche in Italia, provincia da molti secoli particolarmente vicina alle sollecitudini vaticane, c’erano segni di cambiamento.
Dopo la vicenda tambroniana culminata con una rivolta della coscienza civile e democratica, era nato, insieme al primo “mistero” italiano, la morte di Enrico Mattei, il primo centro-sinistra, si era realizzata la nazionalizzazione dell’energia elettrica contro i monopoli privati e si era, soprattutto, approvata la grande riforma della scuola media unica che sanava palesi ingiustizie nei percorsi di formazione dei giovani.
E se nel 1958, dopo dieci anni di iter parlamentare, era stata finalmente approvata la legge Merlin che aboliva la prostituzione di Stato, si andava timidamente affacciando una coscienza civile che proponeva di riconoscere alle donne parità di diritti civili e pari dignità nel lavoro salariato, anche per merito dell’Unione Donne Italiane (UDI) che in quegli anni era impegnata nelle battaglie sulla parità dei diritti delle donne per passare in seguito, insieme ad altre protagoniste, a promuoverne la “liberazione”.
L’intuizione giovannea sta proprio nell’aver colto la necessità di una “permeabilità” della Chiesa cattolica romana al mondo moderno, anche se tutta mediata (e quindi viziata) attraverso la visione che del mondo aveva la gerarchia, visto che gli uditori “laici” nella prima sessione erano rappresentati da una sola persona. E solo l’insistenza del cardinale Suenens (arcivescovo di Malines – Bruxelles), riuscì a convincere Paolo VI, a partire dalla terza sessione, ad introdurre nell’aula conciliare la presenza, poco più che simbolica, dell’“altra metà della Chiesa”: un pugno di donne, silenziose, metà laiche, metà suore.
La grande occasione
E, tuttavia, se ci sentiamo figlie e figli del Concilio, l’altro polo del nostro essere persone vive è il mondo contemporaneo che ci interroga con le sue contraddizioni, con le sue ingiustizie, con le sue dinamiche di ineguaglianza e di sfruttamento ma anche con la nostra voglia di cambiare ed è proprio il mondo la misura con la quale valutare il potenziale di speranza che il messaggio evangelico è oggi in grado di suscitare.
Noi cogliemmo il Concilio come un’occasione formidabile per noi stessi e per l’intera Chiesa cattolica romana: per noi stessi come un riconoscimento di cittadinanza piena, fuori dalla subalternità alla gerarchia ecclesiastica. La libera lettura della Bibbia, da secoli tradizione viva del mondo della Riforma, ha tracciato un percorso, nella coscienza di ognuno ed ognuna, di profonda riflessione critica sulle modalità in cui vivevamo la nostra fede, i sacramenti (si pensi solamente alla confessione individuale auricolare), il rapporto fra fede e storia, la relazione fra fede e pensiero scientifico.
Ma percepimmo nel Concilio un’occasione anche per la nostra chiesa, che sembrava recuperare la sua vocazione di “cattolica”, e cioè “universale”, in un ecumenismo rispettoso di tutte le tradizioni cristiane di Oriente e di Occidente, in un fecondo confronto con l’ebraismo e con l’islam, le cosiddette “religioni del libro” e, perfino, con le fedi più lontane come l’induismo e il buddismo.
Quest’occasione non si risolse in un’adesione spontaneista e poco meditata; al contrario fiorirono (e non solo nell’Europa teologicamente affermata) studi e ricerche teologiche in cui, per la prima volta, si misurarono anche le donne in una contaminazione con le prime riflessioni del femminismo capace di generare in seguito originali apporti “di genere”. E se i processi di secolarizzazione hanno brutalmente ridotto le “vocazioni”, salvo i nuovi ingressi soprattutto dai Paesi del terzo mondo, è pur vero che abbiamo assistito ad una proliferazione di assunzioni di responsabilità da parte di cristiani adulti, laici, che si misurano con la riflessione teologica non meno che con l’analisi politica. E sottopongono l’una e l’altra ad una dialettica serrata che rafforza le coscienze e le spinge a nuove responsabilità. Anche nelle Chiese di appartenenza.
Ci sembrò allora che a molti profeti, fino ad allora inascoltati o addirittura marginalizzati dalle gerarchie del tempo nella Chiesa cattolica, fosse stata resa giustizia, che lo Spirito fosse veramente inarrestabile nel promuovere autenticità nel Vangelo e nello sconfiggere dinamiche di potere e di dominio, di commistione con le logiche del denaro e dello sfruttamento. E accettavamo con fiducia anche contraddizioni ed esitazioni, segni inattesi di timidezza e di compromesso. Tanta era la fiducia nell’irreversibilità di un processo!
Era solo questione di tempo.
La restaurazione
Non è andata così: le nostre speranze hanno dovuto fare i conti con inerzie della storia simili a quelle che già nel passato hanno bruciato attese di milioni di uomini e donne. Era già accaduto, ad esempio, con il celeberrimo Concilio di Trento che, pur tra crude asperità, focoso spirito anti-luterano e scelte infelicissime (come il sottrarre la Bibbia al popolo e imbalsamare la liturgia latina, confondendo “unità” con “uniformità”), aveva nelle sue pieghe anche qualche afflato pastorale; ma, quest’ultimo, invece di essere sviluppato, fu soffocato dalle successive, rigidissime, interpretazioni curiali.
Peggio è andata con il Vaticano II: infatti, mentre molti dei suoi punti-chiave (la Chiesa come “popolo di Dio”, la collegialità episcopale, la liturgia e la Bibbia affidate nelle mani e nel cuore della gente, un approccio non più presuntuoso e polemico con il mondo, l’affermazione del principio della libertà religiosa, il nuovo sguardo verso il popolo d’Israele e verso le religioni non cristiane) sono stati accolti con grande gioia dalla maggioranza dei fedeli, le gerarchie vaticane e gruppi variegati tenacemente oppositori del Concilio hanno ben lavorato per strozzare alcune conseguenze capitali di quelle affermazioni.
Quattro pontificati (in realtà tre) e una gerarchia cooptata – salvo importanti eccezioni – in maniera univoca hanno la responsabilità di aver perseguito un lucido disegno di restaurazione nel soffocare energie laddove queste erano state suscitate, nel voler ridurre al segno dell’obbedienza e dell’assoluto, qualunque ricerca e sperimentazione di una “Chiesa altra”, ispirata alla logica del “relativo” e del “provvisorio”, legata unicamente alla sequela di Gesù e alla vocazione univoca verso i bisogni dei poveri e degli ultimi.
E questo processo di restaurazione appare tanto più anacronistico e sfalsato dai “bisogni dei tempi” quanto più dal corpo sociale emergono, accanto a quelle tradizionali e che rimangono inascoltate, sensibilità e domande nuove, che sono ormai all’ordine del giorno della “società politica” e delle istituzioni e che attengono alla dignità e alla libertà delle persone: la problematica del fine vita; il futuro dell’amore fra persone dello stesso sesso; il riconoscimento della piena uguaglianza dei diritti (nel rispetto della “differenza sessuale”), della libertà e originalità delle donne nella società e nelle Chiese, compreso l’esercizio dell’autodeterminazione sul proprio corpo e sulla maternità.
In altri termini, mentre il Concilio Vaticano II era forse l’ultimo tentativo della Chiesa cattolica per mettere se stessa in sintonia con la modernità e di lasciarsi da questa permeare per trarne alimento e ispirazione nel modo di presentare il messaggio di Cristo nella storia, per diventare, se non necessaria, almeno “amica” degli uomini e soprattutto delle donne del XX e del XXI secolo, essa si è via via condannata alla superfluità se non all’inimicizia e alla diffidenza per l’ostinata pratica di connivenza col potere costituito, ovunque questo affiori, sia si tratti di finanza, sia del controllo delle coscienze personali: la gerarchia della Chiesa cattolica, salvo luminosissime eccezioni, non crede nella libertà che Gesù è venuto ad annunciare ai suoi discepoli.
Ancora una volta è prevalsa la logica di un’istituzione strutturata gerarchicamente contro lo spirito dell’annuncio evangelico ai figli e alle figlie di Dio; e la barriera del “sacro” è funzionale ad una logica di conservazione e di potere.
Sacralità castale invece di servizio
Si perpetua così una visione magico – strumentale della religione come pratica di intermediazione fra il “sacro misterico” e le persone; in cui anche gli apparati e i ruoli, ma pure gli abiti e i corredi liturgici, fanno riferimento a costumi desueti e ampiamente già oggetto di satira. E questo a giustificazione del mantenimento di una distanza e di un ruolo che giustificano una casta, ne preservano la intangibilità e il ruolo socialmente gratificante; vescovo, cardinale, papa, ma anche monsignore, gentiluomo di camera e così via fino a comporre un mosaico in cui la ragione sociale originaria del “servitium” è assolutamente scomparsa.
Sappiamo bene che la radice del problema sta proprio nel concetto di “sacerdozio/sacerdote”. Nel Nuovo Testamento solo a Gesù, nella lettera agli Ebrei, un tempo attribuita a Paolo di Tarso, viene dato il titolo di “sacerdote”, cioè di mediatore tra Dio e l’umanità; mai esso è dato a uomini che, quando sono dediti ad un servizio nella comunità ecclesiale, e per il suo bene-essere, sono chiamati apostoli (inviati), ministri (servitori), presbiteri (anziani), vescovi (sovraintendenti), diaconi (a servizio di…). Anzi, nella Lettera ai Romani, Paolo dà anche ad una donna, Giunia, il titolo di “apostolo” e, ad un’altra, Febe, quello di “diacono”, cioè di diaconessa (anche se l’ultima traduzione della Bibbia approvata dalla Conferenza episcopale italiana evita la parola tabù, e Febe, già chiamata “diaconessa” nella precedente edizione della Cei, ora diviene “al servizio della Chiesa di Cencre”!).
Ma, a parte la questione uomo-donna (o celibi, nubili e sposati/e, modi di vita tutti possibili per un impegno di servizio ministeriale nella comunità), è il concetto stesso di sacerdozio gerarchico che, come già fece la Riforma cinque secoli fa, deve essere messo in radicale discussione, anche oltre le contraddizioni irrisolte del Concilio, in fedeltà alle Scritture ed a Gesù che mai chiamò “sacerdoti” i discepoli a Lui più vicini. Il Signore, infatti, come spiegherà alla Samaritana, non voleva più né sacrifici né templi, ma solo l’adorazione di Dio “in spirito e verità”. E per far questo non servono “sacerdoti”.
In questo sfondo storico-teologico si comprende meglio, tornando all’attualità, la cura con la quale la Curia romana fa di tutto – anche manomettendo il Vaticano II – per riaccogliere nel grembo della Chiesa cattolica i cosiddetti “lefebvriani” mentre, invece, sono considerate inesistenti le comunità di base e altre realtà che sono cresciute nel mondo all’insegna di una “riappropriazione della Bibbia”, all’insegna della “teologia della liberazione”, all’insegna di un ecumenismo vissuto dal basso ed a quella di una riappropriazione di piena dignità, come discepole e discepoli di Cristo, delle donne, degli omosessuali, di chiunque rivendichi diritti e chieda fratellanza, a prescindere dal suo stato di genere e dal suo stato civile (celibe, nubile, sposato/a, separato/a, divorziato/a).
Insieme
E, quindi, noi leggiamo la Parola insieme, la commentiamo, ci misuriamo con essa; a volte impropriamente; ci sforziamo di confrontare le nostre vite, celebriamo comunitariamente l’Eucarestia come, in silenzio, e spesso nella tolleranza partecipe di qualche vescovo, si fa in molti luoghi della terra; se abbiamo una promessa da vivere la rischiamo, ci sforziamo di non sotterrare i nostri talenti sotto l’albero secco dell’abitudine e del conformismo. Non giudichiamo quelli che, per altre vie, cercano la loro strada; in alcune parrocchie, soprattutto in quelle più marginali, abbiamo incontrato testimoni autorevoli del Vangelo che attraverso le loro opere interrogano i nostri limiti e le nostre timidezze.
Sappiamo per certo che, senza il Concilio Vaticano II, noi non saremmo come e dove siamo: in un ex-deposito nei pressi dei vecchi Mercati Generali di Roma, pagando un regolare canone di affitto, leggiamo il mondo e la storia anche alla luce di quell’evento che ha cambiato le nostre vite di cristiani ubbidienti e ci ha messo in cammino, sulla strada, dove incontriamo i drammi dei territori palestinesi occupati, il cammino di liberazione delle ragazze e dei ragazzi di strada del Guatemala, la voglia di riscatto che anima i profughi richiedenti asilo politico e la solidarietà attiva dei nostri giovani nei confronti degli afgani di tutte le etnie o le mille e mille storie che ciascuno di noi si porta dentro per condividerle con gli altri. Insieme.
Insieme: questa la parola che ci rende uguali nell’approccio al Vangelo, tra uomini e donne, prima di tutto. Le donne della comunità, impegnate da circa venti anni in un lavoro di ricerca teologica “incarnata” nella vita, insieme alle donne delle altre comunità di base italiane ed europee sulle problematiche di genere che la tradizione evidenzia, ci hanno insegnato ad assumere collettivamente una prassi realmente rispettosa e includente del punto di vista delle pratiche femminili.
Sappiamo anche che non diremo mai la parola definitiva, ma solo un frammento da proporre e da vivere con partecipazione: senza ipocrisie e ruoli definiti in cui i carismi di ognuno diventano quelli di tutti.
Una chiesa “altra” è possibile?
Se il Concilio Vaticano II ha potuto tanto, perché (e in molti si pongono la stessa domanda) adesso non pensare ad un Concilio Vaticano III (o con altro nome, se si celebrerà – e perché no? – fuori Roma e, speriamo, fuori Europa), ovviamente aperto anche a “madri” e “padri” laici? Beninteso, un Concilio “generale” della Chiesa cattolica romana, e non “ecumenico”, perché questo aggettivo potrà qualificare solo una solenne Assemblea che veda riunite tutte le Chiese. Dunque, un Vaticano III come tappa verso un Concilio autenticamente universale.
Ma se il bilancio consuntivo del Vaticano II si può giudicare non tanto come un’apertura della Chiesa cattolica al mondo quanto piuttosto come un’irruzione del mondo nella Chiesa (e il tentativo di questa di cogliere i “segni dei tempi”), gli esiti che ciò ha provocato nelle coscienze di molti credenti e anche nelle aspettative di molti non credenti, perdurano ancora. E perciò è legittimo oggi definirlo e leggerlo come evento paradigmatico di contaminazione fra fede e storia, fra fede e modernità.
E se la sorpresa di un incontro straordinario fra episcopati lontani, fra Chiese locali, fino ad allora sconosciute le une alle altre se non attraverso la mediazione ingombrante della Curia romana, ha prodotto negli anni ’60 e successivi effetti oggettivamente indesiderati per il vertice e, parallelamente, di disgregazione centrifuga quanto a pratiche ecclesiali, teologie, identità, ben si comprende come la resistenza vaticana a progettare un simile e nuovo incontro, in una situazione di crisi d’autorità e di credibilità come l’attuale, sia assolutamente spiegabile.
D’altra parte, ci sembra che chi ha vissuto il Vaticano II come uno stimolo liberatorio, sia ormai su un’orbita estranea ad un evento dai connotati unicamente intraecclesiali; pertanto le aspettative di questo mondo (di cui anche noi siamo parte) sarebbero assai più radicali aprendo contraddizioni ancora più insanabili nell’organizzazione gerarchica della Chiesa cattolica.
Le domande che il mondo di credenti critici, cui apparteniamo, si pone sono oggi tali da doversi misurare con la globalizzazione, anche dell’offerta religiosa, e con i tentativi, fuori dall’Europa giudeo-cristiana, greco-romana, germanica e slava, di dire Gesù con categorie culturali non nostre, ma radicate nelle tradizioni antiche delle Americhe, dell’Asia e dell’Africa.
Se vogliamo ancora essere credibili testimoni del messaggio di Gesù, quello in cui siamo ostinatamente cresciuti in tempi di secolarizzazione, anche con l’aiuto di tanti “profeti disarmati” del nostro tempo come Bonhoeffer, Mazzolari, Milani, Balducci, Turoldo, Adriana Zarri, Martini e tanti altri “santi e sante” che forse mai conosceranno la “gloria degli altari”, siamo consapevoli che la metànoia della nostra Chiesa deve affrontare passaggi più stretti della cruna di un ago.
Un nuovo Concilio sarebbe infatti ipotizzabile solo come spoliazione totale dell’ecclesialità cattolica ovvero della sua autoreferenzialità, della sua antidemocraticità, del suo essere cittadella dei pochi sulle spalle dei molti, per farsi ponte verso l’incontro totale e incondizionato con la complessità e la contraddittorietà dell’”umano”. Da questo punto di vista, come si potrebbe evitare il confronto e l’incontro non solo con le altre confessioni cristiane ma anche con tutte le manifestazioni storiche di ricerca del divino e delle forme della sua testimonianza, a partire dall’Islam? E potremmo ancora sfuggire all’interrogativo ebraico sul Messia, sulla radicalità dell’unico Dio (in tempi di inflazione di santi), alla testimonianza di Gesù, lui stesso ebreo di Galilea? E al privilegio da lui sempre accordato alle donne e ai poveri?
In ricerca
Sarebbe dunque un Concilio senza continuità, se non con l’Evangelo. Un Concilio di donne e uomini in ricerca con l’aiuto dello Spirito e della preghiera che sorge dai bisogni veri dell’umanità. Un Concilio che stabilirebbe il primato del “cercare” sull’”istituzionalizzare”, che farebbe della nostra Chiesa una vera pellegrina sulla terra.
Una Chiesa sempre in osmosi permanente col mondo, errante e precaria perché fiduciosa nella promessa di essere nella storia ogniqualvolta una comunità si riunisce nel nome di Gesù per fare memoria delle sue parole e dei suoi gesti di liberazione.
Una Chiesa libera da dogmi, anatemi, precetti, capace di suscitare energie, passioni e creatività nel popolo di Dio e non obbedienza e conformismi. Una Chiesa capace di rileggere criticamente la propria storia e fare i conti anche con i suoi figli ribelli e meno accomodanti con le liturgie del potere, come Pietro Valdo, fra’ Dolcino, Margherita Porete, Gerolamo Savonarola o Giordano Bruno e le migliaia di donne arse sul rogo come streghe perché i loro saperi erano giudicati inconciliabili con l’ordine maschilisticamente costituito.
Una Chiesa in cui il primato non sta nella continuità della tradizione, che si è andata sempre più allontanando dalla tradizione evangelica, ma nell’innovazione della ricerca; una Chiesa in cui le diverse comunità dialogano come protagoniste con pari dignità e pari diritti, in cui la ricerca della verità, sempre provvisoria, parziale e storicamente determinata, è affidata ad una dimensione collettiva e ad una trasparenza di comunicazione e linguaggio; una Chiesa in cui i ministri e le ministre emergano dal corpo delle comunità, non siano tali per sempre (sacerdos in aeternum!), e non siano discriminati per genere, per orientamenti sessuali, per stato civile, per cursus honorum, o per meccanismi di cooptazione.
Il modello paolino della Chiesa pre-costantiniana, in cui il diritto di critica, la correzione fraterna, la circolarità delle idee e delle pratiche di culto fra le diverse Chiese locali siano considerate ricchezze, vere e proprie benedizioni dello Spirito e non bollate come deviazioni dall’ortodossia della dottrina dominante, è un’ipotesi affascinante rispetto alla chiusura del modello petrino così come storicamente è venuto strutturandosi. Del resto questa modalità reticolare di circolazione delle informazioni sarebbe oggi garantita dall’enorme sviluppo delle reti, tanto da mettere in crisi quel modello organizzativo, mutuato dall’organizzazione statuale ottocentesca, fatto proprio dallo Stato della Città del Vaticano in cui regimi pattizi, ambasciatori, trasferimenti di capitali finanziari e diplomazie più o meno segrete costituiscono il terreno di coltura ideale per oscurare qualunque messaggio di salvezza da parte di chi dovrebbe esser chiamato a proclamare la verità dai tetti. Uno Stato che, agli occhi di molti credenti, costituisce ormai una pietra d’inciampo nella sequela di Gesù.
Costruire la giustizia, privilegiare gli sfruttati del mondo è, per noi, la strada obbligata per demistificare il potere del tempio, dei suoi riti e delle sue liturgie, soprattutto quando essi perpetuano subalternità e alienazione.
La nostra storia di comunità cristiana di base ci spinge a dire che una Chiesa “altra” è possibile, e si affaccia nelle nostre assemblee eucaristiche e nelle nostre preghiere; i limiti, i nostri grandi limiti che pure avvertiamo e riconosciamo, sono limiti di generosità e di apertura al mondo. Tuttavia, abbiamo fiducia che il Gesù che noi amiamo e che, tra mille contraddizioni, ci sforziamo di testimoniare, possa un giorno essere conosciuto, senza trionfalismi e ambiguità, da tanti uomini e donne che, come noi, cercano il senso e la ragione della vita in una speranza.
2 settembre 2012
Comunità cristiana di base di san Paolo in Roma