Il papa l’11 ottobre ha celebrato i cinquant’anni dall’inizio del Vaticano II aprendo un «Anno della fede», ma tacendo sulle riforme ecclesiali.
Il Concilio Vaticano II ha cinquant’anni: li dimostra o non li dimostra? Il dibattito è aperto (sul tema, si veda Confronti 9/2011). Di quel complesso evento, inaugurato da papa Giovanni XXIII l’11 ottobre 1962, e concluso da Paolo VI l’8 dicembre ’65, qui affrontiamo solo uno spicchio. Abbiamo interpellato un ebreo, un protestante ed un musulmano perché ci dicessero, in sintesi, come erano i rapporti tra le loro rispettive appartenenze e la Chiesa romana alla vigilia del Concilio; come valutare che cosa l’Assemblea abbia detto di esse; come sono stati i rapporti in questi cinquant’anni e che cosa si può sperare per il domani. Ad una donna teologa, cattolica, poi, abbiamo domandato di parlarci del rapporto Chiesa-donna, se e come esso sia stato posto al Vaticano II, nel post-Concilio e come possa essere ipotizzato per il prossimo futuro. Dalle loro risposte trasluce quello che accadde mezzo secolo fa, e il cammino, talora luminoso e talaltra accidentato, percorso da allora. E speranze e dubbi per il futuro.
Ratzinger: la «desertificazione spirituale» del mondo
A livello ufficiale, il cinquantesimo del Concilio è stato ricordato con una celebrazione eucaristica, l’11 ottobre, presieduta da Benedetto XVI, il cui titolo ufficiale era «Santa messa per l’apertura ufficiale dell’Anno della fede». Per quanto possa sembrare strano (o, forse, scandaloso), formalmente in San Pietro non è stato ricordato il Vaticano II, ma un altro evento: il fatto che, quel giorno, il pontefice apriva l’«Anno della fede» (che si concluderà il 24 novembre 2013). Un anno per ravvivare appunto la fede cristiana, che il Concilio aveva voluto ridire, lasciandola integra, con parole adatte al mondo contemporaneo. Dunque, la stessa omelia papale dell’11 ottobre salda i due aspetti, fede e Concilio; ma il titolo dell’evento occulta il Vaticano II.
Comunque, per spiegare la sua iniziativa, il pontefice ha detto: «I padri conciliari volevano ripresentare la fede in modo efficace; e se si aprirono con fiducia al dialogo con il mondo moderno è proprio perché erano sicuri della loro fede, della salda roccia su cui poggiavano. Invece, negli anni seguenti, molti hanno accolto senza discernimento la mentalità dominante, mettendo in discussione le basi stesse del depositum fidei [deposito della fede], che purtroppo non sentivano più come proprie nella loro verità… In questi decenni è avanzata una “desertificazione» spirituale”… Ecco allora come possiamo raffigurare questo «Anno della fede»: un pellegrinaggio nei deserti del mondo contemporaneo, in cui portare con sé solo ciò che è essenziale: non bastone, né sacca, né pane, né denaro, non due tuniche – come dice il Signore agli Apostoli inviandoli in missione (vedi Luca 9,3), ma il Vangelo e la fede della Chiesa, di cui i documenti del Concilio ecumenico Vaticano II sono luminosa espressione, come pure lo è ilCatechismo della Chiesa cattolica, pubblicato 20 anni or sono».
Aprendo il Concilio, papa Giovanni aveva «dissentito» espressamente dai «profeti di sventura che, nei tempi moderni, non vedono che prevaricazione e rovina, e vanno dicendo che la nostra età, in confronto con quelle passate, è andata peggiorando». Una prospettiva a distanza siderale da quella di Benedetto, che nel mondo vede soprattutto una «desertificazione spirituale». E, tuttavia, l’indicazione di Ratzinger ai missionari della «nuova evangelizzazione» (tema del Sinodo dei vescovi appena celebrato dal 7 al 28 ottobre, e che significava il tentativo di riportare il Vangelo ai Paesi della vecchia Cristianità che lo hanno dimenticato) dà una indicazione di metodo esigentissima: debbono essere poveri, senza sicurezze, fidando solo sulla nuda fede nel Cristo. Una tale «missione» sarebbe quanto di più coerente con l’Evangelo e con il Vaticano II; e, infine, dovrebbe anche comportare autocritiche coraggiose da parte dell’istituzione-Chiesa (non avrà, essa, una qualche responsabilità, per la lamentata perdita della fede di molti cattolici?) e produrre in essa riforme cruciali, compresa quella del papato. Sarà attuata, questa riforma, nel… deserto romano?
Intanto, seppure il pontefice le ignora, dai gruppi di base e dal mondo teologico salgono voci insistenti: così, in occasione dell’11 ottobre, il Movimento internazionale Noi siamo Chiesa ha ribadito le sue richieste (www.noisiamochiesa.org); e 42 teologhe e teologi, tra i quali Hans Küng, hanno lanciato una Jubilee Declaration invitando chi la condivide a sottoscriverla (vedi pagina 37). E dicono parole non scontate anche personalità assai vicine all’istituzione ecclesiastica, come il gesuita Bartolomeo Sorge, già direttore de La Civiltà cattolica (vedi pagina 38).
Il papa: no a nostalgie anacronistiche, no a corse in avanti
Ma torniamo al discorso papale: «Affinché la spinta interiore alla nuova evangelizzazione non rimanga soltanto ideale e non pecchi di confusione, occorre che essa si appoggi ad una base concreta e precisa, e questa base sono i documenti del Concilio Vaticano II, nei quali essa ha trovato espressione. Per questo ho più volte insistito sulla necessità di ritornare, per così dire, alla “lettera” del Concilio – cioè ai suoi testi – per trovarne l’autentico spirito, e ho ripetuto che la vera eredità del Vaticano II si trova in essi. Il riferimento ai documenti mette al riparo dagli estremi di nostalgie anacronistiche e di corse in avanti, e consente di cogliere la novità nella continuità. Il Concilio non ha escogitato nulla di nuovo come materia di fede, né ha voluto sostituire quanto è antico».
Il papa, così, ha dato una stoccata ai lefebvriani da una parte e, dall’altra, a quanti ritengono che debba essere l’«evento» stesso del Vaticano II la griglia per valutarne adeguatamente i documenti. La questione rinvia a due opposte tesi: quella, sempre sostenuta da Ratzinger, della «continuità» del Concilio con il precedente magistero, e quella della «discontinuità» sottolineata da molti storici e teologi, almeno su alcuni punti capitali – come il rovesciamento del millenario antisemitismo cattolico e l’affermazione del principio della libertà religiosa in una Chiesa che aveva benedetto i roghi contro gli «eretici». Il dilemma continua ad agitare le acque del post-Concilio.
Infine, la fede. Aprendo il Vaticano II papa Giovanni insistette sulla necessaria distinzione tra la fede e la sua enunciazione: tema arduo, tanto più oggi quando il mondo teologico latinoamericano, asiatico ed africano propone di dire Gesù Cristo con categorie ed archetipi culturali assai lontani da quelli greci-latini-germanici che hanno dominato per secoli il magistero cattolico; e il mondo femminile suggerisce un’angolazione non più patriarcale e maschilista nel considerare le Scritture e la Chiesa. L’Anno della fede sarà dunque un periodo in cui quella distinzione sarà incoraggiata, oppure si seguiterà ad emarginare quante e quanti indicano nuove strade, per dire oggi con parole, forse inusitate, la «Buona novella» di sempre?
Benedetto XVI ha legato due commemorazioni: accanto al cinquantesimo del Concilio, ha posto anche i vent’anni da quando, nel 1992, Giovanni Paolo II emanò il Catechismo della Chiesa cattolica. Ora, l’autorevolezza teologica di quest’ultimo è ben lontana da quella di un Concilio; e il Catechismo, pur citandolo spesso, su molti temi da esso non toccati – soprattutto in materia di sessualità – ribadisce normative lontanissime dal sentire di milioni di donne e uomini cattolici. Perciò l’abbinamento Concilio-Catechismo sembra fatto apposta non per innalzare il peso specifico del secondo, ma per mortificare quello del primo.
David Gabrielli