«La finalità del dialogo tra le religioni, almeno per la Chiesa cattolica, non è il raggiungimento di una qualche unità, che sia una “super-religione” o una verità, una sapienza, oltre le religioni storiche. Non si possono mettere da parte le nostre convinzioni. Soprattutto non può essere negata o ridimensionata la mediazione salvifica universale di Cristo».
Nostra intervista a monsignor Battaglia, direttore dell’Ufficio nazionale per l’ecumenismo e il dialogo interreligioso della Cei.
Le religioni possono unire, ma anche dividere. Quali le scelte della Chiesa cattolica italiana per favorire un incontro tra religioni, nel rispetto reciproco?
Certamente, le religioni possono essere fattore di unità, o – meglio – di integrazione e di armonia, o essere elementi che giocano a favore del conflitto. Spesso il conflitto è di altra natura: anche questo lo insegna la storia. Il conflitto può essere politico, economico, etnico, sociale. La religione a volte è piuttosto utilizzata, strumentalizzata, anche se non è la causa del conflitto. Qui c’è la responsabilità degli uomini di religione di non farsi strumenti della contrapposizione e della violenza. Perché nessuna guerra è santa. È responsabilità di tutte le religioni quella di delegittimare la guerra e il conflitto, la violenza insomma, e di lavorare per la pace.
Detto questo, bisogna anche dire che nel secolo scorso la Chiesa cattolica ha scelto definitivamente il dialogo con le altre religioni. La scelta è stata sancita in maniera solenne dal Concilio Vaticano II con la dichiarazione «Nostra aetate», che ha aperto una nuova stagione nei rapporti con le altre religioni, a partire dal rapporto speciale e paradigmatico con l’ebraismo. Ma bisogna anche tener presente che la finalità del dialogo tra le religioni, almeno per la Chiesa cattolica, non è il raggiungimento di una qualche unità, che sia una «super-religione» o una verità, una sapienza, oltre le religioni storiche. Non si possono mettere da parte le nostre convinzioni. Soprattutto non può essere negata o ridimensionata la mediazione salvifica universale di Cristo. Tuttavia, il Beato Giovanni Paolo II ha realizzato un’icona eloquente di quella nuova stagione di cui dicevo, che è stato l’incontro di Assisi del 1986. Alcuni parlano giustamente di uno «spirito di Assisi»: esso ha rivitalizzato il dialogo tra le religioni. Ha posto l’impegno comune davanti ai grandi dolori del mondo – la guerra, per esempio – come il cuore di questo dialogo. Benedetto XVI ha osservato, in un suo famoso intervento: «Occorre affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo. Qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari».
Il dialogo è dunque strumento di costruzione di una visione condivisa del bene comune, di un’armonia tra le differenze, in un contesto pluralista come è ormai quello italiano. Il dialogo si colloca in questa prospettiva di correzione e di arricchimento vicendevole. Su questa linea mi pare che si muova anche l’impegno della Chiesa italiana, nelle sue diverse componenti.
Le statistiche ci dicono che l’Italia sarà sempre più un paese multireligioso e multiculturale. Che cosa si dovrà assolutamente evitare, e che cosa assolutamente fare, per costruire insieme il futuro di questo paese?
Va considerato che il dato più rilevante del pluralismo di cui stiamo parlando è la presenza di una forte minoranza islamica, accanto a una comunità ortodossa di eguale peso (ma qui il discorso riguarda piuttosto il dialogo ecumenico). Non è tanto la presenza di piccole comunità di immigrati di religione buddhista o hindu. Semmai, in questo caso, è più rilevante il fenomeno di italiani (presumibilmente cattolici o di origine cattolica) che aderiscono a queste religioni o filosofie orientali. Dunque, per quel che riguarda l’Italia, è soprattutto l’incontro e il confronto con l’islam il cuore della questione del rapporto con le altre religioni.
Il nostro discorso si inquadra nel contesto attuale, che è caratterizzato dal pluralismo religioso e culturale e dalla vicinanza tra i diversi, che sempre più si accentua. Il dato di questa vicinanza si accompagna alle tensioni e alle contraddizioni della coabitazione, nonché a nuove polarizzazioni, per esempio quella tra Occidente e mondo islamico. L’11 settembre 2001 ha segnato l’inizio del secolo e del millennio (ha aperto un decennio di conflitti), ma ha segnato uno spartiacque anche per il dialogo interreligioso. Si è posta una domanda radicale: a che serve il dialogo? Qual è la sua efficacia? Perfino: non è debolezza o tradimento? Il nuovo clima ha influenzato, a mio avviso, anche la ricerca. Faccio solo un esempio: «religioni abramitiche» era una espressione assai in voga nella stagione seguente alla «Nostra aetate», la stagione degli entusiasmi. Oggi c’è chi mette in discussione questo legame così stretto tra le grandi religioni monoteistiche. Non voglio discutere i risultati della ricerca, ma mi sembra anche un segno dei tempi che stiamo vivendo…
Come credenti siamo chiamati a vivere la sfida dell’amicizia, che non è generico irenismo, indifferentismo, o solo cortesia formale. Intanto questa amicizia ha un suo itinerario storico, si articola in rapporti diversificati, fa i conti con le somiglianze e si interroga sulle diversità… La presenza degli altri, ha scritto Michel de Certeau, suscita delle risposte, reclama una solidarietà, ma – scriveva – «pesa sugli individui e sembra voler distruggere ciò che desta». «Non si vive senza gli altri. Ciò significa che non si vive senza lottare con essi», scriveva ancora. La realtà delle differenze, seriamente considerata, impone al cristiano una visione contemporaneamente più religiosa e più realistica della situazione. Allora, indifferentismo, relativismo non sono garanzie di un dialogo più aperto. Le differenze e la vicinanza tra di esse pongono il problema delle identità. Le identità non possono essere vissute in maniera contrapposta o aggressiva (che è il rischio opposto al relativismo). Ma, se l’incontro e la convivenza pongono l’esigenza di maggiore apertura, l’apertura e il dialogo pongono a loro volta l’esigenza del radicamento nella propria identità. Intendo dire che si dialoga, ci si confronta, ed eventualmente si costruisce qualcosa a partire da identità precise e non da posizioni indefinite o sincretiste. Lo stesso problema del dialogo e dell’evangelizzazione, in qualche modo, è solo un apparente contrasto: ogni dialogo è infatti un dialogo tra due testimonianze.
Il bene umano dell’essere insieme è possibile solo nella forma del legame tra soggetti (personali e comunitari) che si riconoscono come tali. Da qui, a mio avviso, la prospettiva di una sfera pubblica «religiosamente qualificata»: si tratta di costruire una via italiana all’integrazione, in cui l’elemento religioso non sia confinato nella sfera privata. Le religioni sono capaci di dar ragioni (anche politiche) della propria fede e questo rappresenta un contributo di verità che esse possono fornire alla costruzione di una visione condivisa di bene comune.
Qual è, a Suo parere, l’attualità della dichiarazione «Nostra aetate» del Concilio Vaticano II in un’ottica di dialogo interreligioso, ovvero fra la Chiesa cattolica e le altre religioni?
Io mi chiedo: possiamo dire che la stagione culminata nel Concilio, quella stagione di entusiasmo e di scoperta dell’altro sia già conclusa? Eppure celebreremo tra poco il 50° anniversario (nel 2014) di quel documento fondamentale e così innovativo. E potremmo dire che ha solo 50 anni. La sua novità può misurarsi anche da questo: è l’unico documento del Concilio che non ha un «background», che non può richiamarsi a un magistero precedente. Ha segnato un grande cambiamento di cui forse si smarrisce oggi, in tempi propensi al relativismo, la consapevolezza. Il documento nasceva dall’esigenza di pronunciarsi sul rapporto tra la Chiesa cattolica e gli ebrei, dopo la Shoah. E c’è una unicità del rapporto tra cristianesimo ed ebraismo, tanto che davvero possiamo parlare di religioni «sorelle». Il Beato Giovanni Paolo II ha parlato di «fratelli maggiori». Tuttavia il documento ha trovato la sua formulazione attraverso un itinerario più complesso, su cui non mi soffermo, ma che ha portato a trattare dei diversi rapporti interreligiosi.
Dicevo di un legame speciale tra ebraismo e cristianesimo, ma questo dialogo finisce per allargarsi a tutti i mondi religiosi e a tutte le fedi. Forse, proprio per la sua natura speciale, e paradigmatica, non può non allargarsi a tutti. E forse c’è una vocazione comune per ebrei e cristiani al dialogo, perché si raggiunga un giorno l’unità della famiglia umana.
Il dialogo però – come dicevo – ha stagioni diverse e quella che viviamo è stata segnata simbolicamente dall’11 settembre. E la crisi del dialogo con l’islam ha coinvolto il dialogo tout court. Diceva però il Card. Lustiger, vicino ormai alla morte: «L’amicizia salverà il dialogo». Ogni dialogo tra religioni è, prima di tutto e concretamente, dialogo tra culture. Paolo VI, indirizzandosi ai cattolici con l’enciclica «Ecclesiam Suam», enunciava in questi termini la sua convinzione: «La Chiesa deve entrare in dialogo con il mondo in cui essa vive. La Chiesa si fa parola, la Chiesa si fa messaggio, la Chiesa si fa conversazione». Mi pare che tutto questo conservi una straordinaria attualità.
Siamo giunti ormai all’XI giornata del dialogo cristiano-islamico: qual è, a suo avviso, la valenza culturale e politica di un appuntamento come questo nell’Italia di oggi?
Come dicevo, il dialogo con l’islam dà il tono generale del dialogo interreligioso. L’islam è ritenuto da alcuni intrinsecamente violento, ovvero inconciliabile con la democrazia o con la modernità. Spesso c’è nel dibattito italiano (e non solo italiano) un cortocircuito per cui si associa immigrazione, clandestinità, islam, islamismo, terrorismo… Tanto che l’islam in Italia sembra sia un problema di ordine pubblico o di sicurezza. Direi che intanto l’islam resta sostanzialmente sconosciuto e quindi oggetto di pregiudizio. Non sono mancate tuttavia iniziative di un qualche rilievo per avvicinare cristiani e musulmani, momenti significativi di incontro, portati avanti da realtà locali o da movimenti ecclesiali. La Giornata del dialogo islamo-cristiano è uno di questi. Complessivamente, mi pare però che siamo in una fase ancora acerba di una riflessione sull’islam in Italia. Nonostante questo, c’è da dire che alcune Chiese locali o conferenze episcopali regionali (penso a quella siciliana, solo per fare un esempio) hanno tentato una riflessione più organica e approfondita, per un «discernimento cristiano» dell’islam. Mi sembra di poter dire che viviamo in un momento complesso ma insieme ricco di stimoli, speranze, attese. Abbiamo assistito a questa primavera araba, dagli sviluppi ancora incerti, che però l’Europa, ma anche l’opinione pubblica italiana, non hanno saputo guardare con la dovuta simpatia e attenzione. Anche se poi ci siamo trovati coinvolti in un conflitto come quello libico. Questo ha avuto ripercussioni anche nel nostro paese e nel mondo dell’immigrazione nordafricana.
Si è riaperto il tema dell’immigrazione via mare, che sembrava «risolto», con il suo risvolto drammatico della perdita di vite umane nella traversata. Anche qui mi pare che talvolta sia mancata la doverosa solidarietà. Certamente la visione diffusa dei paesi arabi è inadeguata. Lo storico libanese George Corm ha messo in evidenza come si guardi a questi paesi del Nord Africa e del Medio Oriente filtrando tutto attraverso la categoria della religione (e della religione islamica), annullando identità nazionali, eredità storiche e culturali. Certo le vicende recenti hanno mostrato che in quei paesi e in quei popoli (anche se sono per la maggioranza musulmani) non tutto può essere spiegato con l’islam. Mi pare che insomma la Giornata abbia una indubbia funzione in questo contesto di «analfabetismo» religioso, mentre la società diventa di fatto pluralista.
Dal punto di vista giuridico, come pensa lei che, per il futuro, vadano affrontati, e risolti, i problemi concreti che si pongono, nella «polis», per una convivenza serena, tra i fedeli delle varie religioni, tutti cittadini a pari diritto di uno Stato laico e democratico? È forse necessaria una legge sulla libertà religiosa?
Posto che si tratta di considerare quale legge, potrebbe essere indubbiamente una legge significativa e importante. Infatti uno dei fondamentali diritti della persona umana è quello alla libertà religiosa, diritto che si fonda sulla dignità della persona stessa. Una legge che regolamenti il campo della libertà religiosa ha un suo significato non solo per la società civile come la conosciamo oggi, ma anche – e ancor più – per quella futura, infatti può contribuire in maniera determinante a stemperare tensioni e prevenire conflitti che oggi possiamo solo presentire. Si tratta allora di trasformare una vicinanza casuale, frutto delle dinamiche storiche, economiche e sociali, in una vera coabitazione. Si tratta di dare un senso alla convivenza, che non può essere solo subita.
L’approvazione di una legge in materia di libertà di religione, colmerebbe quella che alcuni considerano una carenza legislativa; infatti – come è noto – la vigente legislazione sui culti ammessi (che risale al 1929), ovvero quella parte della stessa rimasta in vigore dopo gli interventi della Corte costituzionale, oltre ad essere ritenuta obsoleta non offre altro strumento per regolare i rapporti tra lo Stato e una comunità religiosa che l’Intesa. E non è dunque in grado di arginare un ricorso sempre più esteso al regime delle Intese. L’Intesa la ottiene – se la ottiene – chi la chiede, con il rischio di squilibri tra il panorama delle Intese (che rischiano tra l’altro di essere copia l’una dell’altra) e la geografia religiosa reale del nostro paese.
Ricordo però che le comunità religiose hanno loro caratteristiche proprie, un loro profilo specifico, di cui va tenuto conto. E che esso ha una rilevanza storica ma anche attuale. Non sono associazioni come tante altre. Il pluralismo di cui dicevo fa del nostro paese uno spazio umano abitato da molteplici comunità di fede. Una legge sulla libertà religiosa non può semplicemente livellare (magari al minimo) queste comunità. Esse sono, al contrario, artefici della coabitazione di domani.
Quali sono, secondo Lei, i nodi che sono ancora da sciogliere – sul piano del dialogo interreligioso e sul piano politico – riguardo alla presenza della comunità islamica in Italia?
Il problema principale è legato alle caratteristiche stesse dell’islam in Italia, un islam plurale, di diversa origine, frammentato addirittura, per quel che riguarda l’origine dei fedeli e la molteplicità delle associazioni, talvolta in concorrenza tra loro. È un mondo in cerca di una rappresentatività, che per il momento però sembra difficile anche per via di questa frammentazione. Dunque esistono diversi interlocutori, ma non direi che ci sono luoghi strutturati di dialogo. Non ancora, almeno. Credo che, in questa fase, il dialogo interreligioso si possa sviluppare soprattutto a livello locale, nelle Diocesi per esempio.
L’islam – ripeto – resta in buona parte sconosciuto: per alcuni, islam vuol dire fondamentalismo e terrorismo o un progetto di islamizzazione dell’Italia. Poco o nulla si dice e si sa sull’islam africano, sull’islam asiatico, o su quello balcanico, pure presenti nel nostro paese. Poco si sa delle nuove generazioni di immigrati o delle seconde generazioni nate in Italia, con un’identità con caratteristiche diverse da quelle che le hanno precedute. È comunque auspicabile la nascita di un islam italiano, cioè di un islam non «diretto» o influenzato da altri paesi o da organizzazioni internazionali, che hanno loro progetti e loro prospettive, ma con una sua «inculturazione» e una sua agenda italiana. La cosiddetta Primavera araba apre una prospettiva nuova anche qui da noi: c’è qualcosa di nuovo nel mondo arabo, spesso identificato con il mondo musulmano e – soprattutto – interpretato solo attraverso la lente della religione. Non è un caso che l’islam non sia stato la bandiera di questo movimento, che è soprattutto giovanile. Questo non può che far bene alla nascita di un islam meno politicizzato e più dialogante con la cultura europea.
La Chiesa cattolica guarda con interesse all’inserimento dei fedeli musulmani in Europa. Si tratta ovviamente di un processo lungo, complesso e talvolta contraddittorio: la sfida è quella della nascita di un islam europeo. Bisogna – come dicevo – parlare di una «inculturazione» dell’islam in Europa, con una dimensione dunque più religiosa, morale o culturale che politica.
Da parte nostra (ma non solo) è essenziale capire le differenze per contribuire al bene della società nel suo complesso. Oggi esiste una europeizzazione dell’islam che non è ancora integrazione piena. Uno dei problemi è allora come contribuire a questo processo, come cattolici e come cittadini europei. Mi pare una domanda cruciale. Tutte le iniziative che sono espressione di quella inculturazione, sono seguite con interesse dalla Chiesa cattolica perché aprono spazi di partecipazione alla vita sociale e culturale da parte di questi «nuovi italiani».
intervista a cura di Michele Lipori