Nell’attacco ai diritti non c’è niente di «nuovo» - Confronti
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Nell’attacco ai diritti non c’è niente di «nuovo»

by redazione

«Affermare un’idea di rinnovamento che cancella i diritti è innovazione solo nelle apparenze – si afferma  “io cambio” – ma nella sostanza è regressione profonda, sia culturale che civile». Tutti ricordano la sua attività come presidente dell’Autorità garante per la protezione dei dati personali, ma il giurista Stefano Rodotà in precedenza è stato anche parlamentare della Sinistra indipendente e poi del Pds.

intervista a Stefano Rodotà

 

Professor Rodotà, il suo ultimo libro si intitola «Il diritto di avere diritti». Chi mette in discussione i diritti oggi? La sinistra – politica e sindacale – è spesso accusata di essere conservatrice e difendere i diritti di chi già è garantito…

L’attacco ai diritti nasce da due fattori. Uno è oggettivo ed è legato a un’idea di globalizzazione secondo cui l’unica regola deve venire da un mercato naturalizzato, dove cioè le leggi economiche sono le uniche da rispettare. Quindi, in questo quadro, la dimensione dei diritti diventa soltanto quella dei diritti strettamente funzionali all’attività economica, considerata appunto nella sua assoluta autonomia. Il secondo attacco – per così dire – nasce invece dall’incapacità di guardare ai mutamenti profondi che si sono verificati nella società, sia per quanto riguarda la considerazione attribuita alla persona, resa particolarmente evidente dai riferimenti alla sua dignità (la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, all’articolo 1, dice appunto che «la dignità umana è inviolabile»), sia in riferimento ai problemi continuamente posti da quella che viene chiamata la rivoluzione scientifica e tecnologica. Quindi due sono i filoni che in qualche modo sottovalutano, o addirittura cancellano, la dimensione dei diritti individuali e collettivi.

A chi giudica «conservatori» coloro che affermano la necessità di garantire i diritti, si devono dare due risposte: ci sono dei principi da conservare e si tratta di principi fondativi, come per esempio quelli che si trovano nella prima parte della Costituzione e nei grandi documenti internazionali che riguardano la materia delle libertà e dei diritti. Storicamente, ci sono state lotte sia per affermare diritti nuovi sia per conservare quelli che erano stati progressivamente acquisiti. Quindi affermare un’idea di rinnovamento che cancella i diritti è innovazione solo nelle apparenze – si afferma «io cambio» – ma nella sostanza è regressione profonda, sia culturale che civile. La seconda considerazione da fare è questa: la dimensione dei diritti – basta leggere sia il Trattato di Lisbona sia la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea – è stata ed è sempre più considerata unitaria: i diritti sono appunto «indivisibili». Questo vuol dire che non si può fare quell’operazione culturale e politica che considera alcuni diritti (per esempio quelli civili e politici) «più diritti degli altri», mentre colloca i diritti sociali in una specie di sottocategoria, la cui tutela è variabile a seconda delle esigenze dell’economia. Tra l’altro, abbiamo visto che la scarsa tutela dei diritti sociali – lavoro, salute, istruzione… – finisce poi per incidere anche sulla qualità dell’esercizio dei diritti civili e politici. E quindi sulla stessa democrazia.

A proposito di diritti civili e delle questioni che alcuni definiscono «temi eticamente sensibili», a suo parere stiamo facendo dei passi avanti o torniamo indietro?

Se guardiamo alla situazione italiana, abbiamo fatto dei terribili passi indietro: questo terreno è uno di quelli sui quali l’attacco ai diritti è più evidente. Negli anni ’70 abbiamo avuto una grande stagione di fioritura dei diritti, all’interno della quale spiccano la legge sul divorzio del 1970 e quella sull’interruzione di gravidanza del 1978. Due questioni che evidentemente toccano quelli che oggi vengono chiamati «temi eticamente sensibili» legati a «valori non negoziabili»: questa è la terminologia che è entrata nella discussione politica per effetto di una pressione più forte delle gerarchie vaticane e di una subalternità della politica, dove dobbiamo registrare dei limiti purtroppo anche delle forze di sinistra. Negli anni ’70, se la potentissima Democrazia cristiana avesse voluto impedire l’approvazione di quelle due leggi, avrebbe certamente potuto esercitare su alcuni partiti alleati una forte pressione, ma non lo ha fatto. La campagna per il referendum abrogativo sul divorzio era sollecitata da una parte del mondo cattolico – ricordiamo per esempio Gabrio Lombardi e Sergio Cotta, due professori universitari di stretta osservanza cattolica – ma non tutta la Dc si è schierata. Certo, lo fa il segretario (Fanfani), ma un gruppo di consiglieri nazionali che facevano capo a Moro (tra cui per esempio Leopoldo Elia) dichiarano che non faranno campagna per l’abrogazione della legge. In passato abbiamo avuto un partito cattolico che era però consapevole di ciò che accadeva nella società e mostrava una certa sensibilità. In questo senso, non si presentava come una sorta di cinghia di trasmissione di quelle che potevano essere le indicazioni delle gerarchie vaticane. C’era un’autonomia della politica che ha consentito ai diritti civili – sono anni di grande rinnovamento: statuto dei lavoratori, riforma del diritto di famiglia… – di entrare nella società italiana, accompagnandola in una fase di importante trasformazione.

Dopo la fine della Dc abbiamo assistito a una pressione più forte delle gerarchie vaticane, determinata anche dalla debolezza delle forze politiche. Da parte del centro-destra c’è stata anche un’attitudine a compiacere il Vaticano per assicurarsi il voto cattolico. L’Italia è così piombata in una regressione per quanto riguarda i diritti civili, attenuata fortunatamente dalla presenza di alcune istituzioni che hanno impedito di spingere questa regressione oggettiva a un livello tale che pregiudicasse drammaticamente i diritti delle persone: ricordo la Corte costituzionale, che ha fatto sentenze particolarmente significative, e la Corte di cassazione. Ma anche il presidente della Repubblica, che in occasione del «caso Englaro» ha rifiutato di firmare un decreto che avrebbe comportato una drammatica limitazione del diritto di scegliere liberamente di morire con dignità.

Quanto conta oggi, a suo giudizio, il cosiddetto voto cattolico? E che ruolo gioca il Vaticano in questa campagna elettorale?

Mi pare evidente che in questi anni ci sia stata una gerarchia vaticana molto chiusa e «normativa» nei confronti della stessa politica italiana, ma allo stesso tempo una vitalità del mondo cattolico che non ha mai legittimato integralmente questa linea. Ci sono state posizioni molto diverse: penso per esempio a quello che è stato scritto sulla rivista dei gesuiti da parte dell’attuale loro padre provinciale in materia di fine vita, che dimostra come la presunta compattezza di posizioni sia una rappresentazione falsa. Un errore della politica – e della sinistra – è aver sempre ritenuto che su questi temi il problema fosse rappresentato dal rapporto di vertice fra oligarchie partitiche e oligarchia vaticana, senza dedicare attenzione – come invece era avvenuto negli anni ’70 – alla ricchezza del mondo cattolico, alle tante suggestioni che venivano, alle aperture. Qualche anno fa ho scritto un libro che si intitolava Perché laico. Mi ha colpito molto il numero di richieste di presentazione da parte del mondo cattolico… non dico che loro ne accettassero le tesi, ma lo vedevano come un’occasione di discussione che era stata invece cancellata dal dibattito politico tradizionale.

La politica si mette alla ricerca del voto cattolico, ma non so se poi su questi temi si sposti molto in termini di voti. La mia sensazione è che siano soprattutto le forze politiche – indebolite, come abbiamo visto – che hanno bisogno di essere legittimate, ma finiscono per non riuscire a capire la presenza dei cattolici nella società italiana: il voto cattolico si muove con grande libertà su tutto lo schieramento politico. Alcuni intellettuali di area Pd, per esempio, considerano che su quei temi le gerarchie vaticane debbano essere il loro naturale interlocutore. A mio giudizio, c’è un doppio travisamento pericoloso: da una parte ritenere che la Chiesa cattolica sia l’unica agenzia sociale legittimata, per la sua storia, a porre le questioni etiche. E poi non ci si rende conto che questioni di questa altezza e di questa drammaticità – il nascere, il morire, il modo in cui si organizzano le relazioni personali… – sono le grandi questioni della vita, che non possono essere sequestrate da un dibattito strumentale o ideologico. Mentre ci sono questioni, come per esempio quella riguardante il fine vita, dove posizioni diverse dalle direttive vaticane registrano un ampio consenso anche tra i cattolici.

Come mai la sinistra sottovaluta sempre le capacità di risorgere di Berlusconi?

Siamo di nuovo in una situazione nella quale non si è tempestivamente preso atto del fatto che questo pericolo purtroppo permaneva. Sono state sottovalutate molte cose. L’idea che possa tornare di nuovo alla ribalta Berlusconi lo vedo come un rischio per la società italiana nel suo insieme e per la democrazia di questo paese, considerando i comportamenti da lui tenuti e le proposte aggressive che vengono fatte.

 intervista a cura di Adriano Gizzi

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