intervista ad Adolfo Pérez Esquivel
«Bergoglio, da sacerdote gesuita, fu una delle tante vittime della dittatura militare in Argentina, non un complice; ma è anche vero che non si pose alla guida di coloro che lottavano per i diritti umani (…). La sua elezione a vescovo di Roma è una svolta storica, perché mette in crisi l’eurocentrismo della Chiesa cattolica».
Difensore dei diritti umani in Argentina, imprigionato e torturato durante la dittatura militare nel paese, Premio Nobel per la pace 1980, Pérez Esquivel è stato ricevuto in udienza da papa Francesco il 21 marzo. Questa intervista è stata raccolta da noi il 16 marzo.
Adolfo Pérez Esquivel è uno dei grandi testimoni e dei grandi maestri del nostro tempo. Nato a Buenos Aires nel 1931, architetto, docente universitario, nel ’74 fonda, con altri, il «Servicio Paz y Justicia» (Serpaj), organismo di ispirazione cristiana che, con metodi nonviolenti, si oppone alle ingiustizie sociali e politiche. Dopo il colpo di Stato dei militari argentini, del 1976, egli fonda «El Ejercito de Paz y Justicia» per assistere le vittime del regime. L’anno seguente viene fermato, incarcerato, torturato e tenuto in stato di fermo per 14 mesi senza processo. Nel 1980 viene insignito del premio Nobel per la pace.
Invitato già da mesi dal Cipax-Centro interconfessionale per la pace per partecipare alle celebrazioni romane per l’anniversario del martirio di monsignor Oscar Romero (assassinato nel Salvador il 24 marzo 1980), la sua presenza a Roma ha praticamente coinciso con l’elezione a papa Francesco del cardinale arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio. Abbiamo così potuto incontrarlo, affrontando con lui – sia pure per flash – una serie di problemi delicati e complessi che riguardano i rapporti Chiesa/giunta militare (1976-83) in Argentina e, per l’attualità, le speranze e le problematiche nascenti all’alba del servizio petrino del nuovo vescovo di Roma.
Molti ritengono che Bergoglio fu del tutto estraneo, e anzi opposto, alla durissima politica repressiva della giunta militare argentina; ma alcuni, come Horacio Verbitsky, sostengono che, quando era superiore provinciale dei gesuiti in Argentina, fu complice della dittatura. Quale è, in proposito, il suo pensiero, professor Pérez Esquivel?
Jorge Mario Bergoglio fu una delle tante vittime della dittatura, non un complice. Essere complice, infatti, significa aver collaborato con la dittatura; in effetti, alcuni vescovi – come monsignor Adolfo Servando Tortolo [vicario castrense, arcivescovo di Paraná e ancora presidente della Conferenza episcopale argentina nel 1976] furono complici; faccio poi notare che Bergoglio, a quel tempo, non era vescovo, ma solamente superiore provinciale dei gesuiti in Argentina. È anche vero che egli non ebbe il coraggio, come lo ebbero altri sacerdoti, religiosi, religiose, e anche vescovi, di porsi alla guida di coloro che lottavano per i diritti umani; questo non lo fece. Mi consta però che egli cercò di protestare per la violazione di questi diritti. Dobbiamo comunque collocare questi fatti nel clima tremendo di quell’epoca di dittatura militare.
Mi ricordo di avere allora parlato con il rappresentante della Santa Sede di quel tempo, monsignor Pio Laghi, sul problema della difesa dei diritti umani in Argentina, e anche delle suore e dei religiosi incarcerati e torturati. Egli mi disse: «Che vuole che faccia? Io sono il nunzio apostolico; noi protestiamo, protestiamo con i militari, ma essi, pur dando ad intendere di ascoltarci, non fanno poi quello che chiediamo loro». Bergoglio, come tanti altri, fece lo stesso; si limitò a protestare. A me sembra, però, che non sia giusto accusarlo di complicità. Capisco, naturalmente, il risentimento delle famiglie dei religiosi colpiti, e qualcuno che afferma: «Bergoglio non fece abbastanza»; non dice «non fece», ma «non fece abbastanza». E questo è vero, se per «fare abbastanza» si intende il comportamento di alcuni coraggiosi vescovi, come Enrique Angelelli, vescovo di La Rioja, ucciso il 4 agosto 1976; Alfredo Ernest Novak, di Paranaguá; Jaime Nevares, vescovo di Neuquén, e Miguel Hesayne, vescovo di Viedma, che quotidianamente e pubblicamente difendevano la vita e i diritti umani.
Che significa, secondo lei, l’elezione a papa di un vescovo che viene dal Sud del mondo?
Un grandissimo evento! Perciò mi dispiace che, invece di sottolineare ed apprezzare il fatto che sia la prima volta che l’eurocentrismo della Chiesa comincia a guardare con un altro sguardo all’America Latina – un continente con tanti profeti, tanti martiri, tante voci che vivono e proclamano il Vangelo – e al mondo, si cerchi unicamente il modo di attaccare Bergoglio; non mi pare una cosa saggia. Penso invece che si debba dare risalto a questo fatto – la sua elezione a papa – come un fatto storico. È anche importante far notare che lui si comporta con umiltà, come un pastore. Non è un intellettuale da biblioteca come Ratzinger: è un uomo che va nelle parrocchie, visita i suoi sacerdoti, sta con la gente… Bergoglio è un uomo di dialogo. Egli era anche presidente della Conferenza episcopale, e perciò doveva avere alcuni rapporti anche con i Kirchner [Néstor, presidente dell’Argentina dal 2003, e sua moglie Cristina, presidente dal 2007 e tuttora in carica], che, però, non sono gente di dialogo…
Bergoglio, con la sua formazione gesuitica, è un uomo che sa bene amministrare e, insieme, sa essere pastore. In questo senso i suoi primi passi da vescovo di Roma sono significativi: egli, la sera dell’elezione, non ha dato subito la benedizione al popolo assiepato in piazza San Pietro ma, prima, ha domandato al popolo di benedirlo. E, poi, il solo fatto di chiamarsi Francesco rappresenta già chiaramente il suo pensiero, perché quel nome è un messaggio in sé: solidarietà con i poveri, amore alla natura, umiltà, dedizione alla pace, fraternità. È un grande segno di speranza.
E, parlando del futuro, che cosa si può presumere che farà, papa Francesco?
Intanto, diciamo che molte sfide lo aspettano nella Chiesa come istituzione. Confidiamo che apra porte e finestre – come diceva Giovanni XXIII – perché nella Chiesa entri più luce, e si affrontino i problemi pendenti. Occorrono grandi cambiamenti; ma quest’opera non può essere fatta da un uomo solo: occorre una squadra capace, decisa, che con lui collabori; ma anche il popolo di Dio deve poter far sentire la sua voce. In questa prospettiva, auguriamo davvero a papa Francesco di riuscire nell’impresa.
I problemi da affrontare sono enormi. Siamo di fronte, ad esempio, alla carenza di clero; ci sono migliaia di preti che si sono sposati ai quali dunque è proibito esercitare il ministero. Ora, il celibato è un grande valore, ma non dovrebbe essere imposto (nella Chiesa latina) come condizione indispensabile per il sacerdozio. Gesù guarì la suocera di Pietro! Il celibato dovrebbe dunque essere opzionale, del tutto libero, e questo, forse, aiuterebbe a sanare la piaga della pedofilia del clero. Ritengo che papa Francesco debba tener conto di tutto questo. O, altro argomento assai delicato: quando si può ritenere possibile un aborto? È inconcepibile che una donna stuprata, e ancor più se è una bambina, sia costretta a tenere il bambino.
Vorrei citare una frase di Gustavo Gutierrez [peruviano, uno dei massimi esponenti della Teologia della liberazione]: dobbiamo tornare a bere nel nostro pozzo, cioè alla spiritualità, all’essenza del cristianesimo, perché abbiamo molto dimenticato il senso del messaggio di Gesù. Si deve rivitalizzare una struttura che sta come seduta, e che nasconde le sue ombre nell’oscurità; ma solo stando nella luce tu puoi vedere le ombre! Ed è quello che sta accadendo oggi nelle strutture ecclesiastiche. Io vedo come due assi nella Chiesa: il primo asse è rappresentato dai funzionari della Chiesa, l’altro dai suoi pastori e profeti. Quello che molti di noi latino-americani stiamo proponendo da molti decenni, dal Concilio Vaticano II, dalle Conferenze generali dell’episcopato latino-americano di Medellín [1968], Puebla [1979] e Aparecida [2007] è di considerare la Chiesa come popolo di Dio che cammina, che trasforma. Ma la struttura ecclesiale imposta è molto rigida: perché, invece, non pensare in grande?
Io sono molto affascinato dalla spiritualità, dal senso del vangelo come è tradotto in pratica. Grandi figure di vescovi sono stati, o tuttora sono, nostri compagni di cammino: oltre ad Angelelli, Paulo Evaristo Arns [emerito di São Paulo]; †Hélder Camara [Recife, Brasile]; †Leónidas Proaño [Riobamba, Ecuador]; †Oscar Romero [El Salvador, assassinato il 24 marzo 1980]; Pedro Casaldáliga [emerito di São Félix, Brasile]; essi hanno dato forza ed energia alla spiritualità ed alla voce profetica. Eppure, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI cercarono di controllarli, di sanzionarli. Il cardinale Ratzinger, come prefetto della Congregazione per la dottrina della fede, colpì i teologi della liberazione; lui e il papa non permettevano una teologia latino-americana, la vedevano come una opposizione anzi, una contrapposizione alle strutture ecclesiastiche.
Sembra che Bergoglio si sia espresso fortemente contro i ministeri femminili, contro la donna-prete…
Dico una cosa: il maschilismo degli apostoli ha emarginato un’apostola, che era Maria Maddalena. Ma fu ad essa [Vangelo di Giovanni, capitolo XX] che Gesù diede il mandato di far sapere ai dodici apostoli che Lui era risorto. Una donna, dunque, è l’annunciatrice del cuore del messaggio cristiano: Gesù è risorto.
intervista raccolta da Gianni Novelli e Luigi Sandri