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Il tempio buddhista cinese di Roma

by redazione

In una strada della periferia romana, si è svolta la cerimonia di «consacrazione e purificazione» del tempio cinese italiano che fa capo all’associazione Hua Yi Si, che si trova nel quartiere Esquilino ed è legata all’Unione buddhista italiana. Molto grande la partecipazione di fedeli, ospiti e osservatori.

Il 31 marzo scorso via dell’Omo, a Roma, si è gremita di persone, in gran parte di nazionalità cinese. Non sembra una novità per questa strada della periferia est della capitale, dove magazzini e grande distribuzione hanno visto già da qualche anno un notevole aumento della presenza di grossisti e commercianti cinesi – tanto da indurre alcuni romani della zona a indicarla come «via dell’Omo cinese». Si è trattato di un evento storico: proprio nel giorno della Pasqua cattolica si è svolta la cerimonia di «consacrazione e purificazione» del tempio cinese italiano, «Hua Yi Si» (Hua = Cina, Yi = Italia, Si = tempio), che fa capo all’omonima associazione con sede in via Ferruccio, nel quartiere Esquilino, e afferente all’Ubi, Unione buddhista italiana. Il tempio è stato costruito, come rivelano orgogliosi alcuni dei presenti, seguendo il progetto ideato dai più importanti architetti di Taiwan ed eretto grazie alle offerte della popolazione cinese, soprattutto quella di Roma.

Gran parte della strada è stata ricoperta da un lunghissimo tappeto rosso, ornato con piante e composizioni floreali in un crescendo di sontuosità sino ad arrivare al maestoso ingresso. L’organizzazione logistica si è rivelata minuziosa e impeccabile: «Siamo qui dalle 6,30 di stamattina», ci racconta Melissa, quindicenne cinese nata in Italia. Sono decine i ragazzi addetti alla sicurezza e all’accoglienza che rendono l’evento privo di inconvenienti, evitando con delicatezza che l’altrui curiosità rechi fastidi alla cerimonia religiosa che alle nove del mattino era già in atto.

Sotto alcuni piccoli gazebo signore sorridenti porgevano alle persone che via via giungevano un sacchetto di carta contenente un piccolo omaggio di benvenuto: una bottiglietta d’acqua, una mela, un dolce cinese, una penna e un braccialetto formato da tredici palline di legno e una di ambra. Colpisce, sulla confezione che conteneva la penna, leggere l’unica frase in lingua italiana: «I Quattro precetti di Chung Tai: trattate gli anziani con rispetto, trattate i giovani con gentilezza, trattate gli altri con armonia, trattate gli affari con onestà».

La maggior parte dei partecipanti aveva come segno distintivo un fiore rosso appuntato sul petto. Nel cortile antistante il tempio, delle ragazze donavano a ogni persona una rosa, da porre in vasi nel piccolo cortile antistante il tempio, dopo essersi chinati tre volte in segno di riverenza: omaggio al Buddha ridente, posto proprio all’ingresso. Il Buddha ridente, il Bodhisattva Maitreya, ha il compito di portare via i problemi, le preoccupazioni, lo stress, la collera e la tristezza. Porta inoltre grande fortuna, prosperità e ricchezza alla famiglia e agli affari.

L’enorme afflusso di persone ha reso impossibile l’accesso di tutti alla sala dove si stava svolgendo il rito, ben presto colma. Gli organizzatori, consapevoli di questa evenienza, hanno installato due megaschermi all’ingresso del tempio, proprio accanto ai due leoni bianchi posti a guardia di esso, finalmente privi delle bende rosse che per tutto il periodo dei lavori avevano coperto i loro occhi. Inoltre a pochi passi dal tempio, dall’altro lato della strada, un capannone attrezzato con sedie e ancora maxischermi ospitava i numerosi fedeli.

Ignazio Zhai (nome per metà italianizzato), un ragazzo cinese di circa trent’anni, responsabile del tempio di via Ferruccio, ci racconta l’esperienza vissuta in questi anni. Mentre ci rende partecipi della sua emozione viene più volte interrotto da persone che si complimentano per come ha saputo coordinare e supportare la preghiera e l’intera cerimonia celebrata dal monaco Shang Jien Xia Deng, arrivato da Taiwan. «Non mi sarei mai aspettata una preparazione così impeccabile», dice una delle signore che si avvicinano a lui. Ignazio sorride intimidito da quelle parole e continua il suo discorso in un italiano incerto: «Cinque anni fa abbiamo comprato questo suolo. Dopo un’attesa lunga tre anni per risolvere tutte le questioni burocratiche, due anni fa abbiamo iniziato a costruire. Grazie ai fondi raccolti da tutti i commercianti cinesi e da offerte provenienti dalla Cina stessa siamo riusciti a fare tutto questo». A dimostrazione della generosità dei donatori cinesi, intere pareti del tempio conservano delle piccole statuette del Buddha, molte delle quali recanti una targhetta con il nome del finanziatore.

Poco dopo le nove è arrivato il sindaco Gianni Alemanno, che ha assistito per circa mezz’ora alla celebrazione. «Posso dire – ha dichiarato il sindaco – che è un nuovo primato per Roma: dopo avere la più grande moschea d’Europa, abbiamo anche il più grande tempio buddhista d’Europa. Questo dimostra che Roma è la città della tolleranza religiosa e soprattutto crede nei valori della religiosità, perché facendoli crescere in tutte le diverse forme, siamo convinti che i valori umani possano essere rafforzati. Quindi siamo molto orgogliosi di questo e salutiamo la comunità cinese che ha finanziato questo tempio e cresce in pace nella città di Roma».

Alla cerimonia erano presenti: il presidente dell’Ubi Raffaello Longo; la vicepresidente dell’Ubi e presidente della Fondazione Maitreya, Maria Angela Falà; il Lama Geshe Gedun Tharchin, di origine tibetana ma stabilitosi a Roma; rappresentanti di Taiwan e altri monaci provenienti dallo Sri Lanka.

«È stata un’esperienza toccante perché c’era tutta la comunità, perché loro hanno contribuito tutti a costruire questo tempio e quindi ognuno era fiero di questa presenza, di questa forza che è la forza della comunità. Uno sforzo comune affinché fosse una cerimonia che riunisse». Queste le parole di Maria Angela Falà al termine della cerimonia. Si è trattato difatti di un’esperienza significativa ed emotivamente coinvolgente, in grado di riunire nella capitale anche le comunità buddhiste cinesi di Prato, Pisa, Napoli e Brescia. Circa mille presenze a rallegrare questo evento, in gran parte giovani. Pochi i fedeli dallo Sri Lanka e pochi gli italiani, perlopiù curiosi: qualcuno aveva visto crescere questa costruzione maestosa nel corso degli anni e finalmente assisteva al suo debutto. Ci si potrebbe chiedere come sia possibile, in un paese che nega il diritto di edificare luoghi sacri architettonicamente riconoscibili come non cristiani, riuscire nell’impresa di costruire questo tempio. Il Comune aveva, infatti, fermato i lavori per alcuni mesi. La situazione si è poi sbloccata perché, come racconta un consulente che si occupa di permessi di edificabilità, il progetto non prevedeva aumento di volumi nella costruzione né «cambio di destinazione». Soprattutto è stata favorita dalla posizione del tempio: sorgendo in una zona periferica della città, prettamente commerciale, quasi priva di residenti, non ha sollevato concrete lamentele né accuse di «discontinuità» con il paesaggio urbano.

L’esigua presenza di buddhisti italiani è indicativa della realtà romana, caratterizzata da appartenenze fluide e confini sfumati ma soprattutto da una netta separatezza tra i praticanti italiani e gli immigrati. Per fare un esempio, i buddhisti (italiani) dell’Istituto Samantabhadra incontrati qualche giorno dopo non erano neppure a conoscenza dell’inaugurazione del tempio cinese. Ancora più eclatante è quanto si osserva nella zona di piazza Vittorio: tra il gruppo buddhista cinese di via Ferruccio e il Centro Zen L’Arco a piazza Dante regnano reciproca indifferenza, mancanza di conoscenza e totale disinteresse nell’interazione. Quanto ciò dipenda da fattori religiosi e quanto dall’atteggiamento degli immigrati cinesi è di difficile comprensione. Più probabilmente i due aspetti sono tra loro in compenetrazione. Certo è che nella zona di piazza Vittorio, accanto a quei cinesi che, soprattutto per motivi commerciali, hanno contatti con i residenti romani e imparano la lingua, ce ne sono altri che non sentono alcuna necessità di farlo, esaurendo la loro vita sociale completamente all’interno della comunità.

«L’Oriente italiano» vanta significative presenze già dagli anni Ottanta ed è costituito da italiani convertitisi in modo del tutto indipendente dal contatto con gli immigrati asiatici. Si tratta di un mondo variegato che ricombina i tratti culturali e religiosi in modo originale, innestandoli sull’orizzonte salvifico cristiano, con rivisitazioni di antiche tradizioni spirituali dell’Oriente come lo yoga. D’altra parte accanto a un coeso gruppo di «professanti» esiste un cospicuo numero di persone definibili come «fruitori passivi e simpatizzanti», che con curiosità si avvicinano a questi insegnamenti senza allontanarsi troppo dal «loro» cattolicesimo. Non estraneo alla crescita del buddhismo in Italia è il contributo dato da famosi personaggi, quali Roberto Baggio o Sabina Guzzanti, aderenti alla Soka Gakkai.

Nonostante l’evidente eterogeneità, il buddhismo italiano sembra aver inaugurato un periodo florido grazie anche alla recente Intesa dell’Ubi con lo Stato approvata l’11 dicembre 2012. Si spera che essa rappresenti un nuovo segno di apertura: per la prima volta nella sua storia, lo Stato riconosce un’Intesa con una confessione di matrice differente da quella giudaico-cristiana (la legge sull’Intesa, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale il 17 gennaio 2013, ha riguardato anche l’Unione induista italiana). È altresì auspicabile che un tempio così maestoso concorra a dare maggiore visibilità al pluralismo religioso nel nostro paese.

Marta Scialdone

1 comment

Convivio – Condividere • Vite • Vie • Orizzonti » Hua Yi Si: nuova era del buddhismo a Roma? 4 Agosto 2014 - 17:59

[…] esposto è una sintesi di un articolo pubblicato in Confronti, n. 6,giugno […]

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