Il 22 settembre è passato un anno esatto da quando il nostro amico e redattore Umberto Brancia ci ha lasciati. Da allora sono stati molti i momenti in cui a ognuno di noi è capitato di pensare «se ci fosse stato Umberto, avrebbe sicuramente detto…», oppure «per scrivere un articolo su questo argomento, ci vorrebbe Umberto». Chi non lo ha conosciuto, può rileggersi il ricordo che di lui abbiamo scritto all’indomani della sua morte, dove troverà anche alcune riflessioni tratte dal suo blog personale, che si intitolava «Cercate ancora». Il 16 giugno, al Maxxi di Roma, lo abbiamo ricordato con il «Premio Umberto Brancia – Cinema come rappresentazione del sociale», nell’ambito dell’Asff – AS Film Festival, ideato e curato da persone con autismo. Umberto era il padre di uno di quei ragazzi che dal 2008 frequenta con passione il cineclub nato dalla collaborazione tra Gruppo Asperger e cinema Detour di Roma.
Di seguito, vi riproponiamo alcune riflessioni scritte da Umberto all’indomani della serata di autofinanziamento organizzata da Confronti, a novembre 2011, per tentare di scongiurare la chiusura della rivista.
Quando l’altra sera sono entrato nel salone della Chiesa metodista di via Firenze per la cena di sostegno a Confronti, ero molto timoroso, pieno di ansie. Confronti (e prima il suo precedente storico, Com Nuovi tempi) sono stati il mio spazio elettivo di impegno pubblico, per quasi trent’anni (insieme a qualche altro luogo, che oggi langue o è scomparso per sempre). Non è stato un impegno continuativo, come è tipico di un’attività volontaria, ma ha assorbito comunque una parte notevole della mia vita. Come accade per ogni esperienza concreta, a questo lungo periodo sono legati emozioni (e conflitti) profondi, mai banali.
Mentre entravo, mi sono riapparse per un momento alla mente immagini della lunga vicenda di questo mondo di «cristiani critici», in cui abbiamo discusso e ci siamo arrovellati intorno ai principali avvenimenti della vita pubblica, italiana e addirittura mondiale. In quel palazzo grigio e austero della Roma umbertina, ho visto riunioni di redazione affollatissime e momenti di triste difficoltà, segnati sempre da una passione genuina per l’analisi politica e sociale, per i buoni libri e le idee. Lì ho imparato a scrivere decentemente un articolo o la recensione di un libro. E ancora oggi non sono sicuro di averlo imparato bene, se non mi confronto con gli articoli degli altri: anche questa è una peculiarità delle riviste.
Aperta la porta del salone, ci hanno investito i rumori e le voci di un centinaio di persone, che cominciavano a bere e a mangiare. Ho tirato un sospiro di sollievo, come era accaduto in tanti altri casi: era andata bene, era andata bene! La redazione e i membri della cooperativa, impegnati in questa iniziativa di sostegno per la sopravvivenza del giornale, avevano lavorato per varie settimane affinché la serata riuscisse.
Le riviste indipendenti di cultura vivono proprio così questa fase molto difficile del mondo editoriale: tra paura e speranza. La fattura della rivista si intreccia a fatica con le iniziative di solidarietà, le relazioni culturali e tanto lavoro volontario. Sono una ricchezza del nostro tessuto culturale profondo, che tiene aggregati mondi diffusi, segmenti di realtà sociale ignorati dal circuito ufficiale dei media.
Per due ore, ho stretto la mano a tanti amici recenti e a volti che non vedevo magari da vent’anni. Non c’era nell’ aria nessun atteggiamento da reduci, se non forse una sotterranea malinconia per il tempo trascorso e per le ulcerazioni di un panorama politico ed economico molto simile alle rovine di un terremoto.
Si discuteva su come salvare la rivista e si pensava a nuovi progetti. Un altro dato mi ha consolato: ho visto molti giovani che non conoscevo e che erano lì per aiutare e non solo per mangiare!
Le riviste sono anche questo: una palestra, uno spazio per quei ventenni che hanno voglia di guardare il mondo con sguardo critico. Non dovremmo dimenticarlo mai.
La crisi della nostra rivista non è ancora superata, ma sabato sera è stata una tappa importante.
Umberto Brancia